L’essere umano inizia a relazionarsi alla madre e alla presenza del padre già nell’epoca nella quale è un feto. Una volta nato si fonde simbioticamente con la madre: come se fossero una sola entità. Il progressivo distacco dalla madre segna il lento raggiungimento della individualità, che si completerà nell’età adulta. Tuttavia l’uomo serba sempre in sé questa dimensione relazionale che lo porterà a rivivere simbolicamente l’esperienza uterina e simbiotica con chiunque incontrerà, specie il partner. L’amore maturo costituisce un superamento della unione simbiotica materna con un sentimento libero e pari nel dare e nel ricevere. Tanto è preponderante in noi questa dimensione relazionale che le nostre ferite interiori nascono dalla mancanza di amore. Genitori che non ci hanno amato abbastanza, persone che si sono allontanate per lutto, separazioni. Ma la nostra scaturigine amorosa non è solo genitoriale. La causa efficiente della nostra nascita è sì costituita dai due genitori, ma non si riduce a questi. Agostino diceva che se noi andiamo più indietro del primo ricordo lì intravvediamo una nebbia: in questa nebbia c’è Dio, il quale ci ha creati nell’anima prima dei nostri genitori. Non solo, ma noi tendiamo verso Dio: dobbiamo staccarci progressivamente da tutto per riapprodare a Dio. I maestri spirituali insegnano che l’anziano diventa sempre più impacciato negli affari terreni perché si sta aprendo a rinascere nel mondo spirituale. Perde appetito e voglia di fare. La sua vista cala perché si stanno riaprendo gli occhi interiori, i quali scrutano non le cose della terra, ma quelle del cielo. Noi proveniamo dall’amore di Dio e dovremo ritornare a Dio. Quindi, nel caso in cui noi eliminiamo questa relazione con il mondo spirituale, ci procuriamo ulteriori ferite interiori. Ci manca un altro tipo di amore, anzi il più importante. I mistici insegnano che l’unica cosa necessaria nella vita è Dio. Tutto il resto, oltre al fatto che dovrà scomparire, non può del tutto saziare il nostro cuore, fatto da e per Dio. Agostino diceva che il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in Dio. Il problema del Principio è il problema del fine ultimo dell’uomo. Cosa è il Principio? Aristotele diceva che è ciò a partire da cui (Metafisica 1012 b34: archē legetai ē men o then). Il Principio ha valenza:

  1. Temporale: l’inizio cronologico dal quale si squadernano gli enti;
  2. Ontologica: il fondamento di tutto ciò che è temporalmente scaturito da esso;
  3. Logica: la ragione ultima, lo schema concettuale onde capire ciò che è scaturito da esso.

 Se noi proveniamo da Dio, seguendo un certo ragionamento, possiamo dire che noi abbiamo l’inizio temporale in Lui. In secondo luogo Dio è il nostro fondamento e noi siamo come sue scintille che si dipartono da questo grande fuoco, più ce ne allontaniamo e più degradiamo in forme sempre meno pure, fino a un’anima peccaminosa e al corpo. Oracoli Caldaici fr. 10: “… tutte le cose sono scaturite da un solo fuoco”, eisin panta enos puros ekgegaōta. Infine Dio spiega chi siamo, cioè in Lui è racchiuso il nostro senso e il nostro fine ultimo. La nostra natura divina che poggia, nella sua forma più pura, nell’anima che Lo contempla, è tale che tendiamo alla creazione continua di noi stessi e di ciò che ci circonda. È il concetto spirituale di epigenesi: abbiamo una enorme libertà e anche responsabilità nel divenire le persone che siamo. Anche in questo senso Heidegger diceva che “il pensiero lavora a costruire la casa dell’essere”, das Denken baut am Haus des Seins. Noi siamo ciò che agiamo, ciò che vogliamo fare. È un pensiero affine a quello della gnosi ismaelita. Esiste un Islam ortodosso, detto sunnismo, e un Islam sciita, composto anche dagli ismaeliti. La gnosi ismaelita è di una profondità inaudita. Secondo questa serie di filosofie, ogni realtà mentale non esiste in sé ma trova la sua ragion d’essere esclusivamente nella realtà materiale. Vale a dire che il concetto (ma’na) è un puro universale senza esistenza, esso esiste solo nella persona concreta (shakhs-e’ayni). Tra il mondo ideale e quello individuale esiste un rapporto. Essere in Paradiso deve avere una controparte nell’esistere in questo mondo con cui la prima essenza ideale si attua nella realtà. In buona sostanza, il Paradiso ideale è una pura essenza senza esistenza: per esistere deve esserci una persona concreta in cui il Paradiso si realizza nella realtà. Il mondo ideale diviene concreto solo se c’è una Persona agente. Per tale aspetto, possiamo concludere, la persona concreta in cui si incarna la propria azione è la significatio passiva di essa, vale a dire ciò che la sua azione la fa essere[1].

            Girard poneva l’accento sul fatto, altresì reale, che gli esseri umani diventano ciò che imitano. Si parla di “invidia mimetica”. Come quando una ragazzina si innamora del fidanzatino della migliore amica oppure quando un apprendista prende a modello il maestro. Per questo nel mondo l’esempio da dare agli altri è un fattore fondamentale del progresso della civiltà. Se tutti vedono che gli altri si comportano male, saranno motivati a comportarsi male anche loro, e viceversa. Platone (Cratilo 399c) dava la etimologia del sostantivo greco anthrōpos, “uomo”: dalla espressione greca anathrōn a opōpe, “che riflette su ciò che ha visto”.

               La nostra responsabilità su ciò che siamo dipende certamente da noi (dal nostro ideale), ma anche dagli esempi che riceviamo, dalla educazione dei genitori, dai maestri che incontriamo lungo la via. Natura e cultura sono tra loro inscindibili. Il grande genio linguistico di Dante non avrebbe certamente scritto la Divina Commedia se fosse nato in una tribù di zulù. In aramaico il sostantivo qeshot e in ebraico il sostantivo qoshet, tradotti generalmente con “verità”, derivano da una rara radice che significa “equilibrio”. Nelle cose spesso ci sono tanti fattori: per capire un elemento del sistema bisogna porlo in equilibrio con tutti gli altri elementi del sistema.

             Come si vede dalle altre religioni e dalle esperienze dei mistici, spesso il divino non è quel Bene Assoluto che ci propinano oggi in Occidente. Lo studioso Otto parlava di due elementi sempre presenti nelle divinità antiche: il fascinosum (gli aspetti positivi) e il tremendum (quelli negativi). Il Dio dell’Antico Testamento amava Abramo ma ordinava di fare strage sui nemici, è la herem, la “strage sacra”, simile alla jiad islamica, che è quasi come se fosse un sesto dopo i Cinque Pilastri dell’Islam (fede, preghiera, elemosina, digiuno, viaggio alla Mecca). Per questo gli gnostici e anche Marcione credevano che il Dio dell’Antico Testamento, la prima parte della parte della Bibbia, fosse una divinità diversa da quella del Nuovo Testamento. 

            Nelle varie correnti che formano l’induismo esiste una divinità femminile che si manifesta in molti nomi e in varie maniere negli esseri:

  1. Coscienza;
  2. Intelletto;
  3. Sonno;
  4. Fame;
  5. Ombra del male;
  6. Energia;
  7. Sete;
  8. Perdono;
  9. Specie;
  10. Pudore;
  11. Pace;
  12. Fede;
  13. Bellezza;
  14. Buona fortuna;
  15. Appagamento;
  16. Attività;
  17. Memoria;
  18. Pietà;
  19. Retta condotta;
  20. Agiatezza;
  21. Madre;
  22. Errore.

         Non tutte queste manifestazioni sono positive. Perché? Perché la realtà è mutevole, quindi gli dei approcciandosi agli uomini cambiano spesso atteggiamento verso di loro. È simile alla fonetica del sanscrito, importante lingua colta indiana: per la maggior parte dei fonemi vi è un accordo, mentre la pronuncia di alcuni di essi varia da maestro a maestro, senza contare che qualche suono dipende dalla parlata vernacolare indiana di chi pronuncia il testo sanscrito. 

           I mistici poi raccontano che la autentica esperienza del divino può fare molto male. Dio, quando si manifesta, entra sin nell’essere più profondo della creatura la quale, imperfetta, si trova invasa da tanta perfezione da stare male. Chi evoca gli angeli racconta di aver patito le pene dell’inferno anche per anni. Si scatenano poi le energie del male che, stando latentemente ovunque, si palesano all’anima baciata dalle divinità e cominciano a torturarla in mille subdole o evidenti maniere, oltre i limiti del tempo e dello spazio. 

             Per il mondo classico gli dei hanno le stesse passioni degli esseri umani, da quelle più benevole a quelle più distruttive. Gli dei di Omero appaiono in forme antropomorfe e dialogano con gli eroi senza che essi provino estasi, ma solo thaumasia, “meraviglia”.

           Nelle tragedie greche vi è un Destino che guida tutti gli eventi degli uomini e, come in Omero, è superiore agli dei stessi. Nella tragedia greca di Euripide intitolata Elena, Elena fu sostituita dal suo fantasma e trasportata in Egitto da Ermes. Quindi la guerra di Troia si combatté non per Elena ma per un il fantasma. Sette anni dopo la fine della guerra giungono sulle coste dell’Egitto, per via di un naufragio, Menelao e la falsa Elena, la quale presto scompare. Elena era stata sempre fedele al marito Menelao e quindi quando, per forza del Destino, i due si incontrano, decidono insieme di fuggire. 

             Si è scritto molto sulle tragedie greche, composte in attico nell’età di maggior splendore di Atene. Euripide si caratterizza per una influenza da parte della sofistica (egli ragiona per tesi contrapposte esposte come orazioni) e anche per un linguaggio a volte colloquiale. La Elena di Euripide segna una svolta nel linguaggio della produzione euripidea: in questa tragedia abbiamo un lessico scelto molto accuratamente, ricco di parole inusuali e con una metrica insolita e efficace. Si tratta di un dramma molto interpretato per: la novità letteraria della figura di Elena, la complessità del personaggio, aspetti drammaturgici come la comicità delle parti recitative, la insolita struttura scenica.

           Prendiamo in considerazione il linguaggio misterico del secondo stasimo della Elena (1301-1368). Nell’antica Grecia esisteva sia una religione rivolta a tutti, quella olimpica, sia forme di religione settarie, dette Misteri. I tre tragici fanno spesso riferimento allusivamente alle religioni misteriche. Euripide in questo stasimo dimostra un linguaggio molto allusivo e pregnante.

             Menelao è sotto mentite spoglie, mentre aveva detto a tutti di essere morto. Egli e Elena convincono il pretendente di Elena, Teoclimeno, a organizzare il funerale per Menelao. Il piano è di inscenare il funerale su una nave in alto mare e poi di fuggire improvvisamente dall’Egitto.

           Secondo il parere di eminenti filologi, Elena reclusa in Egitto e liberata dalla volontà della Grande Madre riecheggerebbe il mito della vicenda misterica di Demetra e Persefone, la figlia di Demetra rapita nell’Ade. Euripide assocerebbe Grande Madre e Demetra. Corrobora questa lettura una curiosità filologica al verso 1343. Il testimone L presenta la lezione deiō, ma Maas corregge in maniera paleograficamente impeccabile in Deō, che è un altro nome di Demetra. La Grande Madre ordina alle Cariti di portare a Deo la fanciulla Elena prigioniera in Egitto. Deo allora non sarebbe altro che la Grande Madre che reclama a sé la fanciulla, come Demetra reclamava a sé Persefone stretta nell’Ade. Invece Golann ritiene inopportuno l’esplicito riferimento a Demetra. In effetti, se tutto il brano gioca allusivamente sui culti misterici, non pare opportuno che Euripide menzioni esplicitamente la dea Demetra.  

            Il mito di Demetra e Persefone è il cardine dei Misteri orfici. Persefone rapita nell’Ade è il simbolo dell’anima umana incatenata in questa dimensione terrena. Per l’orfismo ciò a causa di una colpa, da pagare nel ciclo delle reincarnazioni, fino alla reintegrazione in Dio.

          C’è sicuramente una relazione tra questa dottrina orfica della reincarnazione e i culti generativi nelle varie religioni. Attraverso la madre si entra in una nuova vita, si compie cioè una rinascita. La vulva della madre è la porta magica che permette la rigenerazione dell’essere. Ha anche una valenza iniziatica, quando non si parla di reincarnazione: è la camera attraverso la quale l’iniziando giunge alla nuova vita da iniziato. Non solo, ma anche la porta di ingresso nel regno spirituale dopo la morte. In ambito celtico, quando il cristianesimo soppiantò la religione druidica, quest’ultima riversò i suoi simboli, tanto che alcuni parlano di un cristianesimo celtico: abbiamo nelle chiese di quelle zone la Sheela-na-Gig, la raffigurazione di una donna dalla grande vagina. Pensiamo anche alla adorazione induista della Yoni, l’organo sessuale femminile.

          L’orfismo è molto importante anche nei filosofi greci, pensiamo solo alla caverna di Platone: gli uomini entro la caverna alluderebbero all’anima prigioniera del corpo materiale.

             Certamente ogni tipo di religione è tale se presenta almeno una istanza che salva e la contrapposizione tra mondo materiale e mondo spirituale. La entità che salva strappa gli uomini dal mondo materiale e li innalza al mondo spirituale.

           Anche la vicenda di Gesù è stata interpretata da pochi come la storia simbolica della parabola dell’anima (essenza divina) che nasce in questa terra da donna e poi risorge e ascende al cielo, cioè si reintegra nel Principio dal quale proviene. Allora il pane che Cristo dona è il simbolo del sacrificio, cioè della vita umana segnata dalla sofferenza e dalla morte.

          Ma questa lettura è molto esoterica. Oggi gli studiosi intendono la vicenda di Gesù come un fatto storico. Non tutti concordano che egli si dichiarava Dio, per questi ultimi infatti la sua divinità, proclamata nel resto del Nuovo Testamento, sarebbe una mistificazione della chiesa primitiva. In ogni modo Gesù muore in croce e dopo tre giorni risorge. Per i cattolici il pane eucaristico è la presenza reale di Cristo nel risorto, come egli stesso dice nell’Ultima Cena: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Il grembo di Maria è stato il primo tabernacolo della storia. Anche Cristo, dopo la sua vicenda umana, risorge da morte e ascende in paradiso in anima e corpo, cioè ritorna a Dio, dal quale era venuto.

            Egli va al Padre per preparare un posto all’umanità. La risurrezione di Cristo è l’anticipo di quella di tutti i credenti alla fine dei tempi: dopo il giudizio finale tutti risorgeranno con il corpo, mentre prima di questo evento capitale i giusti vanno in paradiso (o in purgatorio) solo in anima e i dannati all’inferno solo in anima. Secondo i teologi, i primi, risorgendo con il corpo, andranno in paradiso condividendo totalmente la gioia dei beati anche con il corpo, mentre i secondi si vedranno aumentare la sofferenza partecipando anche con il corpo delle pene dell’inferno.

          Queste immagini – vita eterna, paradiso, risurrezione dei corpi, ascensione al cielo – sono stilemi delle letterature del Vicino Oriente antico. Si moriva per un nonnulla, quindi il massimo della realizzazione era visto in una vita lunga, eterna. Il “paradiso” deriva da una lingua iranica morta con il senso di “giardino sopraelevato”, il quale veniva irrigato massicciamente, come dimostrano gli scavi archeologici: gli uomini di quel tempo soffrivano la sete, quindi il massimo della realizzazione era visto nella presenza abbondante di acqua. Per questo il termine “paradiso” è molto usato nelle letterature vicino orientali. La risurrezione è sempre associata alla idea di lunga, eterna vita. L’ascensione allude ad andare al cospetto di un re, il capo politico di allora, che poteva fare cose molto importanti, specie per i poveri, che erano una moltitudine immensa. Secondo una linea interpretativa, i vari autori del Nuovo Testamento che si rifanno a questo linguaggio lo usano non in senso letterale ma metaforico. Mancava a quel tempo un pensiero astratto, al contrario del pensiero greco. Il semita è legato agli oggetti, i greci alle idee. Per questo quando un semita usa come seconda lingua il greco mette l’articolo anche dove non andrebbe messo. Sotto questo linguaggio metaforico ci sarebbe l’idea che Dio dona la salvezza intesa come grande gioia, felicità, piena realizzazione. 

           Il sacrificio storico di Cristo (la sua passione e morte) è atto redentivo per liberare l’umanità dal peccato. Nella Santa Messa si rinnova il sacrificio di Cristo. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”, in greco outōs gar ēgapēsen o theos ton kosmon, ōste ton uion ton monogenē edōken (Giovanni 3, 16), dove il verbo “dare”, sostengono gli esegeti, esprime in Giovanni tutta la ricchezza della Alleanza stabilita da Dio con l’umanità.  Gesù è il Figlio che per obbedienza al Padre e per amore agli uomini accetta la missione, cosa che costituisce altresì un impegno per tutto il genere umano: “Come io vi ho amato, così amatevi gli uni gli altri” (Giovanni 13, 34).

           Si tratta di un amore senza limiti, fino al sacrificio della vita. Gesù esegue fino alla fine la volontà del Padre, i cristiani devono dare la vita a Dio e ai fratelli. Anche nell’Antico Testamento appare una divinità addirittura gelosa degli uomini tanto li ama. E gli uomini devono contraccambiare siffatto amore: “Amore voglio e non sacrificio”, che nell’originale ebraico suona hesed hafasti velo sabach (Osea 6, 6). Anche il Corano esprime l’idea di un Dio benevolo nei confronti dell’umanità che professa la fede rivelata da Maometto: “E fate il bene perché Dio ama chi fa il bene”, che nell’originale arabo suona wa-aḥsinū inna l-laha yuḥibbu l-muḥ’sinīna (Corano 2, 195). Il più importante dio dell’induismo è Varuṇa, il cui nome potrebbe derivare dalla radice vr-, “coprire, abbracciare”, del resto il Varana degli Avestā è detto “cielo che tutto abbraccia”. Quindi Varuṇa è un dio talmente potente che permea di sé ogni cosa. Egli domina su ogni cosa e su ogni essere. Ha un potere fuori dal comune (in sanscrito māyā) che egli utilizza per dominare e dirigere tutto. È una māyā buona, che nulla ha a che fare con l’inganno e l’illusione. Nella concezione indiana questo ordine cosmico, a cui Varuṇa è preposto, non è scisso dall’ordine morale, ragion per cui Varuṇa ha anche aspetti misericordiosi: è un dio che esercita il perdono, assieme però alla grande giustizia.

           Nel Vangelo di Giovanni, uno squisito testo neotestamentario dal forte afflato teologico e gnostico, sta sullo sfondo la Pasqua ebraica. Questa era all’inizio una celebrazione primaverile per propiziarsi il raccolto, poi divenne la commemorazione della uscita degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto. Con il cristianesimo la Pasqua diviene la commemorazione della risurrezione di Cristo. Il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, che parla del pane disceso dal cielo, fa molte allusioni alla Pasqua ebraica.  Non solo, ma la risurrezione di Cristo avverrà nella Pasqua degli ebrei.

           Capitolo 6, versetto 4: “Era prossima la Pasqua, la festa dei Giudei”. Gesù inizia a moltiplicare i pani e il discorso sul pane di vita nell’imminenza della Pasqua, e lo fa a Gerusalemme nella sinagoga di Cafarnao (v. 59). Per gli ebrei Gerusalemme è il centro del mondo.

            Nel Novecento è stata scoperta dagli scavi archeologici la città di Cafarnao: la più grande scoperta archeologica in terra di Israele del XX secolo. È stata messa alla luce anche una sinagoga: si pensava all’inizio che fosse quella di Cristo, poi però sono state ritrovate circa 30.000 monete che risalgono alla fine del IV secolo, quindi in base ad altri indizi si è dimostrato che la sinagoga è molto più tarda. Ma i basamenti in basalto nero di questa sinagoga bianca risalgono all’epoca di Cristo.

          Nell’Antico Testamento, dopo il passaggio del mare, Dio provvede al suo popolo l’acqua e il cibo: un pane disceso dal cielo (la manna) e le quaglie. Gesù si attribuisce la identità di manna, che Dio aveva fatto piovere dal cielo. La manna era anche un modo con cui Dio provava il suo popolo ebraico, perché alcuni non ne prendevano una porzione al giorno ma di più, allora Mosè li riprese. È un forte richiamo alla fede nella Provvidenza, con cui Dio “provvede” a tutti ogni giorno. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”,  che nell’originale greco suona ton arton tōn ēmōn ton epiousion dos ēmin sēmeron (Matteo 9, 11). Non dobbiamo affannarci per il domani, ogni giorno ha le sue inquietudini: Dio ci chiama a vivere mangiando ogni giorno della sua Provvidenza. Dio dava la manna ogni giorno per obbligare Israele a guardare al Cielo ogni giorno. Prima del discorso della manna, Cristo dice: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che Dio ha mandato” (Giovanni 6, 29).

          Per la tradizione ebraica il Messia dovrà essere un secondo Mosè: come il primo diede la manna terrena, il Messia dovrà dare di nuovo la manna. Filone in un testo diceva che la manna è la cosa più importante che c’è. Il sostantivo “manna” deriva dalla espressione ebraica man ‘hu, “che cosa è?”  (Esodo 16, 15), che dissero gli ebrei quando videro uno strato di sostanza bianca che ricopriva il deserto. Filone non ha esitazione: Che cosa è? E’ la sostanza più importante dell’universo. Gesù si attribuirà la identità di manna, come abbiamo detto. Per una riflessione cristiana, nel pane eucaristico vi è la quintessenza di tutto ciò che esiste. 

          L’Apocalisse 2, 17 rivela che al vittorioso sarà data la manna nascosta, manna tou kekrummenou, e una pietruzza bianca, psēphon leukēn, sulla quale è inciso un nome nuovo. Nei tribunali di allora il colpevole era segnato da una pietra nera, mentre l’innocente da una pietra bianca. Questa pietra bianca allora significa la salvezza del giusto, forse tramite la autorità della chiesa, su cui presiedeva Pietro, “pietra” in greco. Cristo è detto Pietra Angolare. Il bianco è il colore della divinità e dell’eternità. La manna allude alla vita eterna data dal pane di vita, come promesso da Cristo nel capitolo 6 di Giovanni. È nascosta perché la nostra esistenza è formata da due vite. È come il Caduceo ermetico, cioè due serpenti avvolti attorno a una croce. Un serpente è la vita terrena, che tutti vedono, l’altro serpente è la vita dello spirito, che è nascosta agli occhi della carne. L’immagine semitica della vita è solo una metafora, come sostengono molti. La cosiddetta “vita dello spirito” non avrebbe nulla a che vedere con il concetto di vita terrena essendo fuori dal tempo e dallo spazio, categorie con le quali non possiamo non pensare la vita terrena, ma che non si adattano all’altra. Giovanni 17, 3: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. La vita eterna (ē aiōnios zōē) non è quindi un luogo, ma uno stato di unione con Dio. Nella Bibbia il conoscere non significa tanto il nozionismo ma la relazione: indica spesso l’amore. L’aggettivo greco usato da Giovanni, aiōnios, “eterno”, deriva dal sostantivo greco aiōn. Quest’ultimo in Omero indicava il midollo o il liquido vitale. In seguito passerà ad indicare l’eternità, donde l’aggettivo greco corrispondente. Dalla storia di questa parola si evince che il mondo spirituale e quella condizione legata ad esso detta “vita eterna” o “vita dello spirito” sono qualche cosa di profondamente connaturati all’essere umano. La vita eterna pertanto non è un luogo nel quale si andrà. Ma una scintilla che tutti abbiamo, anche se dovrà essere portata a compimento. Del resto, Dio non è un oggetto esterno. Il Corano 50, 16 dice esplicitamente che Dio sta all’uomo “più vicino della sua stessa aorta”, aqrabu ilayhi min habli l-waridi.    

          Il nome nuovo, onoma kainon, è una immagine tipicamente semitica. Il nome indica la identità profonda di chi lo porta: quando nel Padre nostro Gesù invita a santificare il nome di Dio (Matteo 6, 9: in greco agiasthētō to onoma sou) non vuole dire di incensare un nome, ma di dare lode alla identità di Dio, cioè in sostanza di amarlo. Il Nuovo Testamento è scritto in greco, ma da ebrei che quindi avevano in mente categorie semitiche; Gesù inoltre era un semita (ebreo) che parlava probabilmente aramaico, una lingua semitica. Poi questo nome dato al vittorioso è “nuovo”: l’autore dell’Apocalisse vuole dire che la salvezza finale del giusto cambia la identità del salvato, facendolo entrare, dal mondo terreno, a quello divino. Notiamo per di più che l’aggettivo greco è kainos e non neos: il secondo indica la novità cronologica (significa quindi “giovane”), invece kainos indica la novità di qualità (“nuovo” nel senso di radicalmente differente da ciò che viene prima).    

           Gli studiosi non concordano con la etimologia offerta dalla Bibbia del sostantivo ebraico man, “manna”. Sono stati scritti mari di carta per tentare di spiegare l’etimo di questa parola misteriosa. Potrebbe essere un prestito dal sostantivo aramaico mann: in ebraico daq significa “sottile, fine”, come si dice della manna (Esodo 16, 14: ricopriva il suolo con uno strato “sottile come la brina”, daq ka-kpor), e ha in aramaico come corrispettivo la parola mann. Oppure “manna” deriva dalla radice semitica mnh, “distribuire”, e sarebbe l’abbreviazione del termine ebraico maneh, “dono”, “cibo”.

            L’uomo vicino orientale vive la propria esistenza tra due piani: la purità e la impurità. Questo è vero soprattutto per coloro che gravitano attorno alle divinità. Quando Dio si manifesta nel roveto ardente, Mosè si avvicina togliendosi i sandali. Nell’antico Egitto i sacerdoti dovevano osservare molte norme per essere puri.

          Ciò vale anche per il mondo ittita. Stiamo in Anatolia, quindi nel Vicino Oriente, anche se la lingua ittita è indoeuropea. Il sacerdote ittita era incaricato anche di offrire il pane agli dei. In questa offerta il sacerdote deve essere puro perché gli dei, come gli uomini, amano farsi servire il cibo da coloro che sono puliti. Sempre come dicono i servi ittiti, il sacerdote deve lavarsi e tagliarsi barba e unghie. In ittita compare altresì il verbo da-, “prendere”, che indica in senso traslato il tagliarsi barba e unghie[2].

             Nel Vicino Oriente la espressione “mangiare il pane” significa semplicemente cibarsi. Il pane è il simbolo dell’alimento per antonomasia e comunque il più importante. Ancor oggi gli arabi non tagliano il pane con il coltello, come per non ucciderlo, quasi fosse un essere vivente[3]. Il pane è quindi il simbolo della vita stessa.


[1] H. Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismaelita, Milano 2013.

[2] S. De Martino, Purità dei sacerdoti e dei luoghi di culto nell’Anatolia ittita, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 73, No. 4, Studi di Ittitologia in onore di Onofrio Carruba (2004), pp. 348-362.

[3] G. Ravasi, La Parola e le parole, Milano 1999.