La criminologia clinica si propone, attraverso la ricerca e l’analisi/l’intervento di singoli specifici casi, di formulare una «diagnosi», una «prognosi» e una possibile «terapia» di trattamento degli autori dei reati. Il colloquio criminologico è teso ad evincere la personalità del soggetto indipendentemente dalle patologie per accertare criminogenesi (aspetti individuali e sociali che hanno portato a commettere il crimine), criminodinamica (come il crimine è stato messo in atto dalla idea criminale alla esecuzione dell’azione), pericolosità sociale, trattamento. Più conosciuta con la denominazione «Psichiatria Forense», dalla sentenza della Suprema Corte di  Cassazione  a  Sez.   Unite n°9163/2005 la denominazione più corretta è Psicopatologia Forense in quanto si colloca in una dimensione più psicopatologica omnicomprensiva che prettamente psichiatrica. Tale disciplina è legata alla valutazione delle malattie mentali  giuridicamente  rilevanti  oppure  alla  rilevazione  di  condizioni   mentali  psicologico/psicopatologiche  giuridicamente  rilevanti  ai fini di un processo. Il colloquio psicopatologico forense, nonostante abbia qualche affinità con quello criminologico, si differenzia da questo relativamente all’oggetto, in quanto teso a rintracciare o negare patologie mentali giuridicamente rilevanti che rendano edotto il giudice nella applicazione della legge. Secondo Metelli Di Lallo, quando avviene un colloquio nei confronti di un aggressore o di una vittima possiamo avere tre possibilità:

  • Il soggetto che parla e dice
  • Il soggetto che non parla
  • Il soggetto che parla ma non dice.

Il soggetto che parla e dice. È il caso più semplice. Il soggetto parla liberamente e spontaneamente senza grosse inibizioni o ansia. È importante non interrompere il flusso di parole, ed avere un ascolto attivo. Il soggetto che non parla. È un soggetto riluttante a parlare, spesso con atteggiamento di ostinazione recitazione e simulazione. È importante che l’intervistatore mostri un autentico interesse verso i problemi del soggetto comunicando anche un senso di accoglienza e fiducia. Se il soggetto non parla per timidezza o ansia rispetto al fatto (come potrebbe capitare nei casi di vittime di violenza sessuale) è necessario incoraggiarlo con frasi chiave tipo: «qualcosa le rende difficile parlare con me in questo momento?» «probabilmente lei trova penoso parlare di questo con me?». Se il soggetto rimane bloccato è bene abbandonare momentaneamente l’argomento per tornarci in seguito, e con delicatezza passare dal Lei al Tu. Il soggetto che parla e non dice (più probabile negli aggressori). È il caso più difficile, in cui l’apparente franchezza e logorrea cela una chiusura perfetta che si esprime attraverso frasi fatte, contraddizioni, e banalità. In questi casi è di fondamentale importanza conquistare la fiducia del soggetto, cercando di parlare di altri argomenti e pian piano introducendo nuovamente l’argomento clou, cogliendo i segnali di ricettività e fermando possibilmente le divagazioni, le ripetizioni e le banalità utilizzando frasi chiave del tipo «da una persona intelligente come te non mi aspetto certe banalità» oppure «lo hai già detto e sei stato molto chiaro, ma pensaci meglio». Nel passato il crimine era identificato con il peccato, solo nell’Ottocento nasce la criminologia come disciplina scientifica, anticipata nel 1764 dal “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, che esponeva una filosofia del delitto e della pena.

La Scuola Classica aveva questa filosofia:

  • Fatto-Reato come entità di diritto
  • Responsabilità morale e quindi colpa
  • Causa: libero arbitrio
  • Pena: proporzionata, retributiva, determinata, emendativa.

Invece il positivismo (il cui massimo rappresentante è stato Cesare Lombroso) aveva una visione divergente:

  • L’oggetto non è più il Fatto-Reato ma l’uomo delinquente con le sue tare fisiche e mentali
  • Responsabilità sociale e quindi temibilità
  • Causa: determinismo biologico e mentale
  • Pena: misura di sicurezza, indeterminata, neutralizzatrice, emarginante, curativa.

La terza importante Scuola di criminologia che ha influito sul nostro sistema penale è quella Eclettica. È il “Sistema del doppio binario” (usato in Italia e ermania a partire dagli anni ’30): a fianco delle pene tradizionali, commisurate alla gravità del reato, venivano disposte anche misure di sicurezza per i delinquenti ritenuti socialmente pericolosi (malati di mente, plurirecidivi, delinquenti abituali e professionali). Trattamento individualizzato del delinquente. In relazione all’Ordinamento italiano, l’articolo 27 della Costituzione, che prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il completamento con la cessazione di ogni controllo, ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975. Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 l’amministrazione penitenziaria ha acquisito l’indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti costituzionali dell’umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo dei condannati. Per Becker la devianza non è in relazione con l’atto in sé ma con le norme che lo proibiscono. Un atto moralmente inaccettabile può non essere deviante per la criminologia nel caso in cui una norma giuridica non lo preveda come reato. Quindi la devianza ha questi tre elementi:

  • La norma
  • Il soggetto che devia dalla norma
  • Coloro che giudicano mediante quella norma.

Secondo la Teoria dell’Anomia di Merton ci sono cinque modi di adattamento alla società:

  • Conformità: forma più diffusa
  • Innovazione: il soggetto assimila l’importanza dei fini (successo, arricchimento) senza assimilare anche l’importanza delle regole per il loro conseguimento
  • Ritualismo: si abbassano le ambizioni ad un livello meno competitivo;
  • Rinuncia: il diseredato rinuncia sia ai fini sia ai mezzi della società (non si sente parte della società);
  • Ribellione: rifiuto totale dei mezzi e dei fini assieme alla messa in pratica di un modello alternativo.

Per Bandura ogni azione ha tre componenti:

  • Persona
  • Ambiente
  • Condotta.

Per Bandura, Il comportamento è un prodotto della persona e   dell’ambiente ma contemporaneamente è un loro produttore nella maniera in cui ogni azione influenza l’ambiente circostante e lo sviluppo della persona stessa. De Leo e Patrizi hanno sviluppato la Teoria della Azione Deviante Comunicatrice, in base alla quale il crimine sarebbe un modo di amplificare il messaggio dell’autore. Insomma è un modo per attrarre su di sé l’attenzione ed esprimere meglio le proprie esigenze. Quanto affermato è particolarmente evidente nei casi di violenza in cui, nonostante una debole strumentalità dell’atto, esso viene ripetuto (per esempio abuso di sostanza, tossicodipendenza) o dove la scelta dell’azione ad una prima analisi strumentale appare incoerente. L’esplosione di violenza in omicidio può comunicare l’incapacità di uno dei membri a tollerare, ma anche una attesa, sia inadeguata, di ricostruzione di equilibri ritenuti possibili. Quindi il crimine può avere:

  • Una dimensione strumentale (per esempio interesse)
  • Una dimensione espressiva (comunicazione a livello latente).

In ogni modo oggi la criminologia ha stabilito che la devianza non è il risultato di determinate caratteristiche di personalità ma il punto di arrivo di un percorso attuato dal soggetto a diversi livelli di consapevolezza. Per l’Ordinamento italiano, vige l’art. 85 del Codice Penale (capacità di intendere e di volere): “Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

CAPACITA’ DI INTENDERE = è l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni e, dunque, la capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento valutandone conseguenze e ripercussioni;

CAPACITA’ DI VOLERE = è l’idoneità del soggetto di autodeterminarsi e, dunque, nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore

Ovviamente, l’imputabilità dev’essere congiuntamente riferita ad entrambe tali attitudini, venendo meno in mancanza anche di una sola delle due. Nella malattia mentale ci possono essere episodi di lucidità e episodi invece nei quali il soggetto non ha capacità di intendere e volere. Per ravvisarsi non imputabilità, deve esserci un nesso eziologico tra la malattia mentale e l’atto criminale. La malattia mentale si divide in Psicosi (schizofrenia e psicosi maniaco-depressiva) e in Disturbo della personalità (disturbo borderline, nevrosi, disturbo ossessivo compulsivo, psicopatia). Nella psicosi, la malattia mentale più grave, la causa organica è ipotizzata ma non dimostrata, nel Disturbo della personalità pare che non ci sia causa organica, ma che si tratti di una patologia solamente psichica.

Approfondiamo la schizofrenia. Non è sempre agevole l’inquadramento clinico di questa patologia; se la diagnosi non pare difficile nei casi avanzati essa lo è invece nei casi più lievi e marginali in cui l’affezione inizia subdolamente o con disturbi polimorfi e presenta un decorso oligosintomatico. Innanzitutto precisiamo che un esordio “subdolo” e oligosintomatico sotto il profilo clinico non significa affatto il “silenzio” sotto il profilo criminologico. È infatti nota la cosiddetta fase medico-legale della malattia, intendendo per tale il periodo prodromico della psicosi in cui ancora non sono del tutto evidenti i segni della patologia a quadro conclamato ma in cui avvengono i cosiddetti “delitti immotivati” meglio definiti come reati-sintomo o atti dissociati. In fase di scompenso acuto si possono avere episodi in cui dominano allucinazioni, spunti deliranti non sistematizzati. Possono avvenire passaggi all’atto repentini nel corso della malattia, a coscienza integra, predominio di ambivalenza, impulsi, idee deliranti, persecuzione, veneficio, allucinazioni per lo più uditive. Durante questi episodi possono accadere reati contro la persona sia verso estranei che verso familiari. È interessante segnalare, a proposito dell’omicidio commesso dal malato di mente, l’esistenza non infrequente di danneggiamento del cadavere (depezzamento parziale o totale della salma, mutilazioni di vario genere specie a carico di genitali, atti di sadismo), l’ustione del cadavere fino alla sua parziale o totale carbonizzazione, cannibalismo e necrofagia. Tutti questi comportamenti possono far presagire (ma non a sé stanti) sospetto di presenza di patologia psicotica se connotato da disorganizzazione ed evidenti incongruenze comportamentali, concomitanti o immediatamente successive come il fuggire afinalistico ed incoordinato, mostrarsi indifferenti verso eventuali testimoni, assistere assorti ed indifferenti al ritrovamento del cadavere, ammettere spontaneamente l’atto criminoso, esporre in maniera confusa e disordinata il succedersi degli eventi.

Per quanto riguarda i Disturbi di personalità, la Suprema Corte di Cassazione penale, Sezioni Unite (sentenza 9163 del 2005) ribadisce: I disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; invece, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre anomalie caratteriali o gli stati emotivi e  passionali, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente. Il termine raptus è per lo più un termine ormai di interesse storico. Esso, inteso come turba episodica accessuale del comportamento gestuale e motorio, consiste nel bisogno imperioso ed incoercibile di compiere improvvisamente e repentinamente un   gesto o un’azione violenta, dannosa per il soggetto o per altri, la cui esecuzione sfugge al controllo dell’autore di un simile atto. Si può convenire di intendere modernamente il raptus a seconda delle categorie diagnostiche in cui si verifica nei seguenti modi:

  • Reazione a corto circuito: negli psicopatici disforici impulsivi, labili d’umore, asociali, esplosivi
  • Acting out nel Disturbo borderline di personalità e nel Disturbo ossessivo compulsivo: sia nel primo che nel secondo caso la manifestazione comportamentale è la traduzione di una scarica emotivo-affettiva improvvisa, a patogenesi conflittuale o meno, la coscienza è conservata o lievemente obnubilata in via del tutto transitoria
  • Raptus ansioso: propriamente detto, quale si nota nelle reazioni nevrotiche acute, si tratta di crisi acute di angoscia in cui concomitano turbamento emotivo intenso, emergenze impulsive, dismnesie o amnesie per l’episodio critico.

Abbiamo poi le insufficienze mentali.  Si tratta di sindromi che esordiscono nell’infanzia o nell’adolescenza e in cui esiste uno sviluppo incompleto o insufficiente delle funzioni cognitive o meglio di quelle psichiche, in quanto coesistono anche difetti dell’affettività, del controllo emotivo di altre funzioni, della personalità, cui si assommano negativamente carenze ambientali culturali nozionistiche e pedagogiche di vara entità.  La caratteristica fondamentale del Ritardo Mentale è un  funzionamento intellettivo generale significativamente al di sotto della media (Criterio A) che è accompagnato da significative limitazioni nel funzionamento adattivo in almeno due delle seguenti aree delle capacità di prestazione: comunicazione, cura della persona, vita in famiglia, capacità sociali/interpersonali, uso delle risorse della comunità, autodeterminazione, capacità di funzionamento scolastico, lavoro, tempo libero, salute, e sicurezza (Criterio B). L’esordio deve avvenire prima dei 18 anni (Criterio C). Il Ritardo Mentale presenta molte etiologie fra loro diverse, e può essere visto come il risultato finale comune di vari processi patologici che agiscono sul funzionamento del sistema nervoso centrale. Gli insufficienti mentali gravi o gravissimi in generale non compiono reati. Se questi avvengono si verificano nelle istituzioni in cui sono ricoverati e vengono commessi contro altri malati o personale di assistenza. Sono caratterizzati da assoluta imprevedibilità e dall’afinalismo della condotta. In questi soggetti è sempre esclusa la coscienza e la volontarietà dell’atto. Gli insufficienti mentali medi hanno un elevato interesse  criminologico per la doppia modalità di relazione eventuale al crimine. Essi infatti possono essere sia autori sia vittime di reati di vario tipo: 

  • Autori: compiono reati solitari, d’impeto, a tipo acting-out. Suscettibili, permalosi, incapaci di controllo e differimento delle pulsioni, inadeguati nell’elaborare frustrazioni reali o vissute come tali, si rendono responsabili di oltraggi ingiurie, aggressioni con lesioni e altri delitti contro la persona e la libertà sessuale. Se compiono reati con altri soggetti (normali) in genere svolgono un ruolo marginale e subalterno, di esecuzione semplice di un compito (per esempio, avvertire se arriva qualcuno) e acriticamente accettato
  • Vittime: proprio la condizione patologica in questione e la compromissione delle aree di analisi critica e di giudizio, possono portare questi soggetti ad una facile suggestionabilità ed influenzabilità che li rende facilmente vittime di raggiri, circonvenzioni di incapaci, e di reati sessuali.

Gli insufficienti mentali lievi hanno una aspecificità comportamentale che al massimo può ricalcare in parte la categoria precedente. Essi possono dare un contributo a qualsiasi tipo di crimine così come i marginali ed i falsi insufficienti mentali.