Corpo segreto, di Silvio Raffo, è un’ampia raccolta poetica pubblicata da LietoColle nel 2017. Da sola, essa potrebbe sostenere il confronto – quanto a valore intrinseco – con le opere di non pochi fra i più elogiati autori italiani degli ultimi decenni, come anche gli scarni aspetti che cercherò di evidenziare dimostreranno, poiché siamo in presenza di un poeta lirico le cui composizioni, altamente pregevoli e mai costruite a freddo, mettono in luce la sua completa estraneità rispetto alle ideologie letterarie che si sono succedute senza sosta e ai loro sterili galoppini. Appena aperto il libro, il futuro pallido cinedo, colui che da bambino «a invisibili forme s’incantava», si appresta a tracciare un bilancio della sua avventura nel mondo, durante la quale, egli confessa, «[…] indelibato / restò il gustoso frutto del peccato». Perché? La risposta, lapidaria e spietata, risuona due pagine più avanti: «Mancò la brama ardente dell’umano». L’asprezza del desiderio che vibra nei versi di Kavafis o di Sandro Penna, poeti assai dissimili ma accomunati dalla medesima, lancinante ossessione, la ritroviamo in Raffo quasi sempre trasfigurata, stilizzata e come disincarnata. Vengono alla mente certe pagine della Morte a Venezia di Thomas Mann, dove è descritta la figura del giovane Tadzio, l’idolo apollineo del professor Aschenbach. Anche qui, fra gli accordi armoniosi di Corpo segreto, il lento dissolversi della vita non porterà con sé il trofeo di una pienezza raggiunta, ma il rimpianto di aver abitato come in sogno il tempo che il fato ci ha concesso: «E resterà, di tanta gioia e affanno, / la vaga scia di nuvole che vanno». La lirica di Raffo presenta svariate affinità, sia sul piano psicologico, sia in parte su quello stilistico, e per più di una ragione, con quella di Guido Gozzano. Nel «sorrido e guardo vivere me stesso» che risuona ne I Colloqui, cui fa eco, nel medesimo libro, l’«aridità larvata di chimere», nella sua sottile ironia, nell’eleganza espressiva, nella malinconia nutrita di Bellezza, nella parola che disegna e colora e incide dettagli di un paesaggio così come indimenticabili silhouettes; in tutto ciò io credo abbia avuto modo Raffo di riconoscersi e di lasciarsi coinvolgere, per poi imboccare la propria strada. Una strada che lo ha portato a studiare e tradurre numerosi poeti anglosassoni e in particolare la reclusa di Amherst, Emily Dickinson. Ogni arte è come una galleria di specchi ed ogni artista, per scoprire il suo vero volto, deve prima rispecchiarsi in quello dei suoi maestri, pena il fallimento. Per definire l’insieme apparentemente slegato e caotico del proprio labirinto esistenziale, il nostro autore conia un efficace ossimoro: «dolce calvario». Il rimando, in chiave estetizzante, alla passione di Cristo è tutt’altro che trascurabile. Qui non vi è infatti alcuna traccia d’ironia, come pure in precedenti e successive allusioni alla rinuncia e al sacrificio. È piuttosto una sorta di controcanto che arricchisce questo Corpo segreto di ulteriori sfumature e trepidi baluginii. Gradevole, bizzarro e inatteso risulta invece il calco dagli Ossi di seppia che emerge dalle terzine di «Nonostante le insidie del maligno». Ma in esse il «male di vivere» non morde l’anima con lo spettacolo delle sue sconfitte, poiché «[…] Azzurro cigno / trasvolerai le tenebre inviolato, / splendido di divina (in)differenza». La rima in -enza dei versi 2-6 e quella in -ato dei versi 3-5, il cigno che sostituisce il «falco alto levato» di Montale, nonché la «divina (in)differenza» di cui splenderà il poeta, contrassegnano le tessere di questo mosaico in cui Raffo tenta di liberarsi con la leggerezza di un folletto dalle pastoie dell’onnivoro pessimismo novecentesco. L’arrière-boutique della memoria, la mescolanza inestricabile di sogni e fantasie che la corrodono rendendola ancor più inaffidabile, non può tuttavia cancellare l’amara certezza di essere stato escluso da quel «[…] piacere / che incendia le creature innamorate». Ciò nondimeno, a differenza della luna, che «più nulla ci sa raccontare», il poeta non è mai stanco di cimentarsi con le lampeggianti montagne russe del desiderio e del disinganno, mentre il silenzio, «celeste solitudine sospesa», sigilla il suo canto, sottraendolo alle ingiurie del divenire. Se il protagonista della Recherche proustiana attingerà insperatamente il «tempo ritrovato», l’io lirico di Corpo segreto non è destinato ad andare incontro a un analogo miracolo: i «frammenti disgregati» rimarranno tali. Poetici, fuor di dubbio, ma soltanto frammenti. Il passato infatti non risorge, il nulla avanza e l’angoscia scava buie gallerie nell’anima, poiché «Prossima la catastrofe si annuncia». In un breve testo di soli cinque endecasillabi troviamo condensata la saggezza possibile a chi è vissuto quasi senza vivere e tuttavia si commuove di fronte alla maestà della natura, rivelatasi nella folgorazione del non-tempo: «Gòditi questa scarna eternità. / Per te si addensa in un istante alato / che i confini del tempo ha cancellato. / Per te s’innerva nell’azzurrità, / nel tacito respiro del creato». La celebre invocazione faustiana davanti all’estasi dell’attimo felice, «Verweile doch, du bist so schön!» (Goethe, Faust, parte II, atto V), si è rifranta nei versi di Raffo in una nuova formulazione, edonistico-panica. È quindi la volta di Orazio, il cui non omnis moriar, tratto dal III libro delle Odi e posto come titolo fra parentesi, mette in moto una tortuosa schermaglia con «Madama Morte», alla quale viene ricordato come sia impossibile, a dispetto di quanto si immagini, annientare il lascito di un artista della parola. Ma «l’anima inquieta […] al mondo e a sé straniera», resterà comunque insaziata. Se – col beneplacito di Orazio – il poeta non muore mai del tutto, la sua sostanza terrena non si sottrae però a un destino di dissoluzione, comune a tutti noi sottomessi al Tempo, quel «Vecchio ed alato dio nato col Sole / ad un parto medesmo e con le stelle» cui Torquato Tasso ha dedicato un sublime sonetto. Ci imbattiamo poi in un nuovo ossimoro, da affiancarsi a quello citato più sopra, con cui Raffo si autoritrae: «alato e lieve scivolai sui flutti / gioiosamente disperato». L’antinomia, il dissidio interiore sono portati all’incandescenza. Ci troviamo dunque ben al di là della serena disperazione cantata da Umberto Saba. Fra i capolavori del nostro poeta, svettano in questo libro almeno tre liriche. Nella prima, il concetto di inganno metafisico, che assurge a stigma dell’esistenza intera, viene messo a frutto con una smagliante trasposizione simbolica: «Sordo e impietoso il tempo si disfoglia / dai rugginosi cardini del giorno – / sullo sconnesso palco della soglia / la trita pantomima del ritorno / si replica puntuale dalle oscure / latebre alla caligine vischiosa, / dall’ombra alle venate sfumature / della luce […]» (L’eterno inganno). Borges, alle prese con i continui trabocchetti delle apparenze che immancabilmente ci meravigliano e spossano con la loro fantasmatica ripetitività, aveva in più occasioni tratteggiato da par suo il lento dileguarsi del buio che precede l’alba («Tras el cristal ya gris la noche cesa / Y del alto de libros que una trunca / Sombra dilata por la vaga mesa, / Alguno habrá que no leeremos nunca», Limiti, in: L’altro, lo stesso). Azzardo l’ipotesi che questa e consimili perle del cieco veggente di Buenos Aires abbiano sviluppato profonde radici nel terreno da cui fioriscono, in rapida successione, alcune pagine memorabili di Corpo segreto. Nella seconda lirica, Dittico dell’esteta, tutto si gioca nei nove versi iniziali: «Al demone della Bellezza / chiesi di preservarmi / dall’orrida vecchiezza / e da pene d’amore – / Fu stipulato il patto: / dovevo innamorarmi / solo del suo splendore / né mai compiere un atto / che gli desse dolore». Il patto verrà rispettato, il dàimon della Bellezza non avrà troppo di che dolersi. Ma la vita, quella che ustiona l’anima e la risana, dispenserà i suoi doni altrove. La terza composizione, infine, Spina e rosa, coinvolge tutt’altra tematica, soltanto sfiorata nel corso della raccolta, vale a dire l’epifania dell’amore materno, fonte del legame indissolubile tra il figlio e colei che l’ha generato, un legame che travalica la deriva dell’esistenza terrena, a dispetto del riconoscersi – il poeta come ognuno di noi – «Sempre più in confidenza con la Morte» (Dittico dell’anello). Ma ecco le preziose rime in oggetto: «Mi porti ancora in grembo madre mia. / Dal colle al villino pensosa / discendi, cantando per via, // forse un po’ del distacco timorosa. / Non ha senso la tua malinconia: / saremo sempre insieme, spina e rosa». È davvero consolante, concludendo queste erratiche annotazioni, constatare come il confine crociano fra poesia e non poesia rimanga, nel caso di Silvio Raffo, ben tracciato e discernibile. Un poeta i cui versi, grazie al Cielo, non potranno offendere in alcun modo le intransigenti figlie di Mnemòsine.
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