L’Accademia della Crusca, su espressa richiesta del Comitato Pari Opportunità del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione, si è espressa in relazione al quesito relativo alle corrette indicazioni per una scrittura rispettosa della parità di genere, in ambito giuridico. Per chi non si occupa a livello professionale di violenza di genere, o per chi non reputa importante il tema, l’analisi del linguaggio in relazione agli atti giudiziari può apparire questione astratta, di scarso impatto pratico e di scarsa rilevanza, in quanto poco utile alla risoluzione concreta del fenomeno, a differenza degli strumenti legislativi e delle misure repressive penali. In realtà, i termini della questione sono esattamente rovesciati, rispetto a quelli appena enunciati. Infatti, come ho già avuto modo di precisare, come per tutti i problemi che trovano la propria origine nella cultura della società di appartenenza, l’approfondimento della tematica del linguaggio si rivela necessario e fondamentale per poter far emergere e, di conseguenza, contrastare, gli stereotipi di genere e le discriminazioni, purtroppo sedimentati nella società, per molti versi, ancora ingiustamente patriarcale. La risposta dell’Accademia della Crusca al quesito alla stessa sottoposto, cita e rimanda, anzitutto, all’insegnamento della linguista Alma Sabatini, la quale ha introdotto la tematica del linguaggio di genere nella nostra lingua, sul modello anglosassone; questione, oggi allargata, come ricorda l’Accademia, non solo al genere femminile, provenendo detta richiesta anche da chi nega e, quindi, amplia, la tradizionale sistemazione binaria dei generi.
I principi cardine di un corretto linguaggio di genere, finalizzati ad evitare asimmetrie di genere, come ricordano gli Accademici della Crusca, possono essere sintetizzati come segue:
a) esclusione del maschile singolare;
b) esclusione dell’articolo determinativo, prima dei cognomi femminili;
c) coordinamento del genere degli aggettivi con i nomi che sono, in maggioranza, o vicini all’aggettivo;
d) utilizzo del genere femminile per i titoli professionali, quando riferiti a donne.
La traduzione dei principi sopra espressi, in attività concreta di scrittura giuridica, ma a mio avviso non solo giuridica, nel rispetto della parità di genere, vengono indicati dall’Accademia della Crusca in modo analitico, nella risposta al quesito alla stessa sottoposto. Anzitutto, gli Accademici evidenziano la necessità di evitare duplicazioni retoriche, necessità funzionale alla sinteticità richiesta agli atti di contenuto giuridico, vale a dire interventi che facciano riferimento, in modo raddoppiato, ai due generi; esempi in questo senso sono rappresentati da “lavoratori e lavoratrici” e similari, potendo intervenire, al riguardo, con altre forme linguistiche neutre o generiche, quali persona invece di uomo o personale al posto di dipendenti. Qualora ciò non fosse possibile, è preferibile, secondo l’Accademia della Crusca, l’utilizzo del maschile plurale “inclusivo”. Successivamente, l’Accademia precisa di ritenere corretto un linguaggio di genere che escluda l’utilizzo dell’articolo determinativo, davanti al cognome, atteggiamento discriminatorio e offensivo, fatto salvo il caso di personaggi famosi. Qualora non risulti chiaro se il riferimento sia a persona di genere maschile o femminile, è preferibile anteporre il nome proprio al cognome. Inoltre, l’Accademia si esprime in relazione all’utilizzo dei “segni eterodossi” di linguaggio e della conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non connesse al none di chi le ricopre.
In tal caso, gli Accademici ritengono che siano da escludere l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (es. amic*, tutt* e similari), così come per lo scevà o schwa, non presente in italiano, se non in alcuni dialetti locali e in molte altre lingue, diverse dalla nostra, in quanto, si legge nel parere, che “La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero disomogeneità e all’idioletto, considerato che l’italiano prevede già due generi grammaticali, il maschile e il femminile, che possono essere rappresentati dal maschile plurale, purché non marcato”.
Parimenti, secondo l’Accademia, si potrà utilizzare il maschile non marcato in riferimento, in astratto, all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che, in concreto, lo ricopra, come avviene anche nel linguaggio orale. Infine, gli Accademici ricordano l’importanza della regola del largo uso e “senza esitazioni di nomi e di cariche e professioni volte al femminile”, con invito ad utilizzare, in modo sempre più ricorrente, i nomi di professioni, declinate al femminile (ingegnera, avvocata, la presidente ecc..).
Al fine di declinare correttamente le professioni, come sopra accennato, l’Accademia precisa che:
* i nomi terminanti al maschile in -o, hanno il femminile in – a (es: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; architetto/architetta);
* i nomi che terminano in -e non suffissati, sono ambigenere, in quanto affidano l’indicazione del genere all’articolo (es: il giudice/la giudice; il testimone/la testimone; il preside/la preside);
* i nomi suffissati:
a) che terminano in – ierehanno il femminile in -iera (es: brigadiere/brigadiera; cavaliere/cavaliera);
b) i nomi o aggettivi terminanti in – a e in -ista sono ambigenere al singolare, mentre al plurale danno al maschile – i e – isti e al femminile – e e – iste (es: il/la collega, i colleghi/le colleghe; l’avvocato civilista/l’avvocata civilista, gli avvocati civilisti, le avvocate civiliste);
c) i nomi terminanti in – tore, di regola diventano, al femminile, – trice (amministratore/amministratrice; rettore/rettrice; direttore/direttice)
d) eccezioni: a quanto indicato nella precedente lettera c), sono i nomi che hanno il femminile in –tora: pretore/pretora, questore/questora, dottore/dottoressa;
e) i nomi e gli aggettivi terminanti in – sore hanno il femminile in – sora (assessore/assessora, difensore/difensora, estensore/estensora, revisore/revisora);
f) i nomi e gli aggettivi terminanti in – one, hanno il femminile, di regola, in -ona (commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa).
g) con riferimento ai nomi composti, come vice -, pro – e sotto -, si declinano a seconda di chi ricopre il ruolo: vicario/vicaria, prosindaco/prosindaca, vicesindaco/vicesindaca, procuratore/procuratrice, Pubblico Ministero/Pubblica Minstera.
Infine, precisa l’Accademia, si potranno mantenere i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche al maschile, come guardia giurata, o i nomi grammaticalmente femminili, ma validi anche al maschile (es: il membro, il soprano).
A conclusione di questa breve nota, non si può che convenire con la professoressa Raffaella Scarpa, che nel volume “Lo stile dell’abuso – Violenza domestica e linguaggio”(edizioni Treccani, 2022) evidenzia come nell’analisi della problematica della discriminazione di genere e della violenza domestica, nulla più del linguaggio venga sistematicamente sottovalutato, quando, invece, lo “stile del discorso” costituisce il mezzo fondamentale per ridurre e mantenere la donna in uno stato di soggezione e soccombenza. Il linguaggio, infatti, è un’arma di potere e di soggezione molto pericolosa, quando non si sa utilizzarlo correttamente e può cancellare l’identità della persona, oltre che alimentare un atteggiamento violento e prevaricatore. Le indicazioni dell’Accademia della Crusca sono e saranno utili, a tutti noi, a diffondere una effettiva consapevolezza dell’importanza del rispetto di genere, non solo nel mondo giuridico, ma anche nella nostra quotidianità.