Montale, nel suo quieto nichilismo, che attende che si campisca, per virtù di estremo scetticismo salvifico, la figura alle sue spalle per riempire il vuoto, dirà che egli può solo comunicare scialbe sillabe, con qualche via d’uscita per una maglia rotta nella rete che ci stringe. Anche se poinon ci dice con quali nuovi strumenti psicologici e culturali ci si dovrà muovere e verso quali mete responsabilmente tendere per affrancarci, cosa che, del resto, non ci indicherà mai se è per convenuto pregiudizio che la poesia dovrà bastare solo a sé stessa, se non vorrà scadere nella vituperata eloquenza.

17/04/1995            

 Anche Montale potrebbe rientrare nella specie di intellettuali poeti che continuano a caratterizzare la cultura italiana, sproporzionata tra quello che “vogliamo e quello che possiamo”, che De Sanctis definisce la malattia morale dei poeti italiani, come Petrarca, Tasso e Leopardi. Ma tale sproporzione è, in realtà, presente tutte le volte che le condizioni storiche scartano tra un’epoca e l’altra, massimamente per effetto di situazioni politiche nuove, particolari per differenza di prospettive, di tendenze sociali, di crisi culturali, ove si assommano linearmente e profondamente le componenti virtuose di epoche ritenute positive e felici rispetto a quelle che tocca vivere, nel presente, considerate povere e negatrici. Ma, in realtà, l’epoca che non abbia mai conosciuto questa dissonanza morale tra volontà ed essere, di cui intimamente si pasce anche la mente di Montale nel suo percorso poetico, esiste da sempre ed è sempre palese emotivamente in un testo poetico, anche quando sembra che l’autore reagisca con una forza di opposizione intellettuale che sembrerebbe escludere ogni demotivazione e progettualità. L’ideale di Dante, per esempio, non è intrinsecamente diverso da quello del Petrarca; è che piuttosto in quest’ultimo si ha una coscienza più matura, più vera e proporzionata alla specifica realtà storica e culturale del suo tempo, di quanto non avvenga in Dante, che sa mimetizzarsi ancora in una prospettiva a ritroso, che vuole credere ancora recuperabile. La malattia morale degli intellettuali è, in sostanza, il lievito vario e fecondo di giorni presagiti di nuove libertà interiori, che se pure opache si affacciano anche nel “varco” di Montale.

26/03/1986

Non è venuto mai il sospetto che vi possa essere anche un Montale barocco, alla Lucio Piccolo, pur con minore limpidezza e sonorità d’immagini? Il suo impasto sensuale linguistico e certe sue atmosfere misteriche di Tempi di Bellosguardo e concitazione narrativa sospesa di visioni indeterminate, ci dicono che la sua sapienza stilistica sapeva rivisitare e ripercorrere modernamente la tradizione in cerca di vite impalpabili, forse per tentare di torcere meglio il collo all’ eloquenza che avvertiva far capolino anche dentro di sé.

12/04/1993

 Montale si è rincantucciato dietro le proprie alte suggestioni linguistiche a bassa voce. Come uno ierofante. E ci ha lasciato in eredità il capriccio del suo male di vivere, sospeso in un mondo vociante.    

11/02/2004

 Lo spirito autentico e profondo della poesia contemporanea, più lucidamente espresso da Montale, è psicologicamente legato a Leopardi, con il quale si attua la discesa del poeta fino all’uomo, ma di un uomo che, nella sua piena autoresponsabilità culturale e morale, non ha più fedi religiose, simboli e miti per soccorrerlo e tali che possano trattenerlo e sviarlo dall’aver preso coscienza della sua reale esistenza. Il concetto, o meglio l’acquisizione dinamica dello spirito della Ginestra, ansioso di più ampi respiri, si è  reificato nella recisa scarnificazione concettuale e verbale di : Non chiederci la parola, che non è solo il segno dell’impotenza dell’intellettuale a dare risposte piene a se stesso e al dramma del proprio tempo, ma la coscienza di chi ha scoperto che la mente nel suo divenire, per sua stessa virtù, ha toccato la radice primigenia dell’esistenza assoluta, che l’intuizione può solo descrivere balbettando tra ombre e luci, senza mai realmente inciderla, come pare che avvenga nei ghirigori incantati di Mallarmé.

08/02/1987

 Montale non ha una filosofia personale matura. E’ un tipografo della vita. Si lasciasedurre dal carattere specifico delle sue occasionali peregrinazioni poetiche, che assolutizza e chiude come vicenda esemplare ed unica della vita del pensiero. Ma il modo, il processo intellettuale per arrivare alla soluzione poetica è dato da un pretesto esterno, più che da una consapevolezza morale autonoma, frutto di un laborioso travaglio di ricerca interiore. Non sa sviluppare in modo problematico ed appassionato il suo punto di contatto con gli aspetti della vita, ma vi si adagia e li assapora verbalmente in lievi esperienze linguistiche, dandoci l’illusione di aver capito e colto il nesso degli eventi psicologici che presiedono ai casi storici ed umani dell’esistenza. In realtà la sua poesia vale come specchio  transitorio  di una quotidianità storica e civile, che ripercorre con grande sensibilità emotiva, che resta però un problema aperto, non motivato da apporti filosofici capaci di assumerla come pretesto morale e culturale per indicare le vie possibili di una sua soluzione. Cantore tipografo, lavoratore coscienzioso di manufatti di cui gli altri gli hanno offerto il materiale, che lui ha saputo ben comporre come un valente  artigiano, assemblare dentro cornici di raffinata rilegatura. Quale via, indicazione morale ci ha lasciato per ribellarci   contro le assuefazioni e le ripetizioni morali, dal momento che il suo credo è un nichilismo negativo, un’abiura alla drammaticità della ricerca che sa forgiare le coscienze nel sopraggiungere più buio della Storia, proclamando come un nuovo credo l’impossibilità di penetrare la realtà psicologica e morale dell’uomo, sconfitto già prima ancora di avere iniziato il suo viaggio, per recuperare nuove parole? E’ un impotente che pure si ammanta di paramenti sacrali e dolorosi per non essere scoperto nella sua ignavia di borghesuccio rintanato nel proprio guscio giornaliero. E’ un finto asceta senza sofferenza, che trova vantaggioso il proprio confinamento ai margini di territori dove altri lottano per respirare un’aria più salubre; è un metafisico che l’esperienza ha sorpreso in una solitudine dove l’inquietudine ormai ha perso ogni possibilità di essere sentita come un problema serio della vita. Montale, infine, non ha aspettazioni morali e sociali fuori dai risultati poetici, né riflessioni in cui celebrare realtà storiche ed umane più alte anche sotto l’aspetto del sogno, che gli fa dire che “la partita è aperta” (Diario del ’71, lettera a Malvoglio), ma, ahimè, solo per il gioco di una pungente polemica personale  con Pasolini.                                                                                                                                                                                        08/05/2002

Nel tocco del contingentismo, infine, egli può dire “ciò che non siamo” e per coerenza di decisione e proposta dire anche: “ciò che non vogliamo”, essendo la volontà fluttuante come l’Io. Questo enunciato è il modo più conveniente per nascondere la propria impotenza morale e concettuale a trovare le parole che possano dire la nostra realtà esistenziale e la nostra volontà di cambiare le assuefazioni culturali e storiche del mondo. Dichiararsi inadatto a dare nuova forza argomentativa alla parola lo salva e lo mette al sicuro da ogni rappresentazione possibile di cambiamento della condizione della natura psicologica e morale dell’uomo quale la tradizione ha rigidamente ossificato dietro un muro che ha in cima “cocci di bottiglia”, muro che ben si guarda dal superare per non perdere la propria retorica immobilità di sguardo sulla vita, e di là dal muro trovare un sé stesso non più colto dalla miseria di una vita “strozzata”, e per rinsavimento morale poter mettere gli altri almeno “nel mezzo di una verità”.

08/05/2002

Montale proprio perché non è mai intenzionalmente poeta civile, è poeta di sé stesso e della sua vita. Non è il poeta della situazione storica, ma della situazione esistenziale ad essa collegabile. E’ il poeta dell’ovvietà dell’anima, come Pirandello ne è il suo patetico drammaturgo. Artisti e poeti della vita di sempre, come della vita intenzionale, della vita che scopre sé stessa nelle sue proiezioni esistenziali prima e dopo ogni realtà storica.

 Quando il poeta mi trasmette un’immagine esemplare in una sua particolare descrizione lirica come, per esempio, fa Leopardi ne “Il sabato del villaggio”, io posso anche non chiedergliene conto intellettuale, perché quella rappresentazione figurale risponde ad un suo privato cantuccio di esperienze morali condivisibili, anche se dai molti risvolti simbolici, ma se egli o un altro poeta poi, come, per esempio Montale nei “Limoni”, là dove dice che tu “puoi scoprire uno sbaglio di Natura,…..l’anello che non tiene”, io allora posso chiedergli e devo chiedergli conto di questa sua affermazione teorica, che mi chiama direttamente in causa, perché è una proposta di verità intellettuale, che avanza un’ipotesi conoscitiva interessante, e non una semplice narrazione lirica di sentimento fascinoso. Lo scrittore qui è andato oltre la pura presentazione pittorica, si è fermato a meditare su una nuova forma   possibile di verità intellettuale in cui mi sento profondamente coinvolto. Allora io non più al poeta lirico ma all’intellettuale che pensa e inventa questa nuova fetta di realtà mentale, devo chiedere le ragioni psicologiche e culturali del suo pensiero, e posso scoprire che il suo dettato o è gratuito o mi trova consenziente. Atteggiamento questo che vuol significare, contrariamente a quanto sosteneva Valerj, che la poesia moderna non è una pura combinazione musicale, un giro esperto di parole, ma una grande manifestazione di serietà morale di idee, di cui, appunto, si è responsabili di fronte alla coscienza del mondo che pare sempre più sospeso in una ansiosa attesa di verità appaganti.

9/05/1993

In Montale negli Ossi di seppia si sente vivere ovunque più o meno scopertamente l’atmosfera di impotente contemplazione di Meriggiare. Petrarchismo di sensazioni con assenza di vita autentica dentro un ricorrente immaginare poetico alla ricerca del varco nella figurale rete che stringe la vita per uscirne, ma con quali risorse intellettuali poi non ce lo dirà mai, se non con vaghe consegne metafisiche più che con consapevoli aperture di salda volontà per farsi voce critica e strumento di conoscenze culturali per scuotere la propria immobilità di visione della vita, beatamente sommersa  in un “gorgo di azzurro”( Marezzo), che potrebbe, stilisticamente variato, apparire l’ingenuo riflesso del dolce” naufragare” del Leopardi. La stasi mentale, che poeticamente ha la sua origine, più consequenziaria a partire dal sapiente ed enigmatico giuoco verbale e dall’impotenza intellettuale di Mallarmé, doveva nel variare delle esperienze culturali e storiche aspettare, presumo, il soccorso della mia nuova parola poetica per correre in aiuto della mente dissanguata dal male di vivere, che se non avesse potuto vincere i ferrei cancelli esistenziali, almeno avrebbe aperto una più nobile ricerca di prospettive nelle inquietudini morali e culturali del pensiero con la proposta di una parola culturale rivoltata dall’altra parte, e per virtù anche di un sano relativismo critico spingere la mente a non più lasciarsi consumare dietro alchimie verbali di maniera e di buon uso letterario a cui anche Montale  arditamente  si appoggia,  anche quando il suo stile, da Satura in poi sarà più agile e felicemente ironico, in una ripresa di motivi esistenziali dipanati nel quotidiano, in cui fa capolino la compagnia, mai del tutto smessa, dell’indifferenza, che pare rinnovarsi in un vuoto esistenziale incombente, dove anche il destino tace e non accetta più scommesse per prestare parole mai meditate alla vita. Arroccatosi dentro il fortilizio del suo orto di macerie e di forme larvali Montale vi si è lasciato profittevolmente isterilire spolverato dalla virtuosa leggerezza di un suo linguaggio incantatorio, allusivo e musicale, bastevole per far dimenticare altre soluzioni intellettuali più aggiornate e necessarie, per presentarsi al banco a riscuotere.

 In questo straordinario profitto di un intreccio di stile sempre sorprendente e solare avrebbe potuto aprirci una prospettiva di pensieri dal forte carattere culturale per ripulire il suo e nostro orto dalle erbacce che infestano anche i teneri cespugli più primitivi della vita, di cui  egli sembra pago di  contemplare l’intimo sfacelo , ignorando che la libertà e la salvezza devono essere costruite con nuove parole e progetti culturali, che nel suo recinto paiono languire in una chiusa” crisalide”, che, in mancanza di tale nutrimento, non aprirà mai le ali per divenire farfalla di sapienza e di luce.

Montale ci ha storditi con la virtuosità letteraria del suo lessico raffinato con cui ha dissanguato anche gli sterili Ossi di seppia, e di certo perché tutto preso dal suo coltivato autobiografismo non ci indica alcun progetto culturale disinteressato per rinverdire la vita nei suoi esiti umani e storici. Ecco perché può anche, accademicamente paludato, proclamare che la poesia è inutile intrinsecamente, specie potremmo dire per questa sua poesia prigioniera di ricorrenti assuefazioni di prospettive culturali che non offrono la possibilità di trovare una maglia rotta nella rete che ci stringe, se non in funzione catechistica, e finalmente liberi poter mutare questa perpetua elegia in un inno portatore di conoscenze esistenziali e storiche umanamente compatibili per uscirne.

Montale ovvero dell’impotente. Figlio per questo verso degli estenuati parnassiani: i simbolisti decadenti alla Mallarmé. “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Questo è il suo credo poetico. E’ tutto qui il suo contributo morale alla realizzazione intellettuale del poeta. Almeno più drammatico mi pare Ungaretti che trova parole laboriose e disarticolate scavate nel suo silenzio, anche se poi si lascia affascinare dalla loro pura inanità e non le agita per farne uscire voci e ragioni di contraddizione con le acquisizioni concettuali dominanti. Ma Montale è più freddo tuttavia. Ha, in sostanza la freddezza e la calibratura del facitore sapiente di letteratura, che ha come guida una logica raggelata nel misurarsi con il proprio rovello. Solo quando, dopo gli Ossi di seppia e le Occasioni e La bufera, avrà smesso la sua pretestuosa velatura metafisica e il suo paralizzato esistenzialismo, solo allora Montale potrà uscire da quella oppressione di figure salvifiche, quasi alibi e scappatoia e rifugio in cui far consistere, occultandole, le sue esperienze sentimentali che, per questo tramite, si fanno lettura storica delle proprie avventure  esistenziali, esperienza ricca di esiti poetici, ma senza sviluppo concettuale in grado di rifondare una nuova dimensione culturale della parola, perché, in fondo, Montale resta sempre un poeta soggettivo e lirico a cui il contatto della realtà sia storica e sia personale offre occasioni poetiche che non si allontanano da una visione della vita da reclusorio, propria di chi ha dentro di sé essiccato ogni vigore estraniante e ribellistico e pugnace, trovandosi sempre prigioniero dei suoi parametri di giudizio formulati in partenza. Non c’è sviluppo nella poesia di Montale se non come aggiunzione di nuove esperienze compositive, mentre la sua vera dimensione si ha quando venute meno le componenti metafisiche ed esistenziali delle raccolte poetiche precedenti, potrà finalmente senza più obblighi di lettura della propria epoca e delle proprie vicende interiori guardarsi nel suo piccolo quotidiano recuperando in tal modo una sua efficace dimensione ironico crepuscolare di virtuoso bozzettista. Con Satura ed oltre Montale si renderà conto della fatuità del suo sforzo metafisico ed esistenziale e si rimpicciolirà, attuandosi pienamente nella cronaca quotidiana del proprio essere al pari della vita degli altri in un confronto sorretto dalle proprie memorie e dalle proprie ironie culturali. Montale nella sua eccellenza stilistica non ha mai saputo rendersi conto della insufficienza concettuale che rodeva ed usurava la sua parola poetica nel suo percorso psicologico. Non è arrivato dopo tanto faticare stilistico e culturale alla parola che mettesse in discussione sé stesso, liberandosi dai suoi condizionamenti letterari e personali, per esaminare lucidamente, senza più spiragli metafisici o impotenze mentali, la parola in tutta la sua valenza sociale e critica, come organizzatrice di pensieri e di civiltà. La sua parola non corre in aiuto di sé stessa, perché, pur nel divenire della mente non si scopre mai come parola sospesa ed inautentica. Non ha di questi dubbi, di queste lunghe riflessioni morali, di queste fruttuose pause di pensiero, di respiro, di analisi continua e paziente che la parola porta nella mente dell’uomo e nel suo comportamento morale e storico. Non l’ha saputo vedere nell’attuazione e nel percorso storico sociale del suo divenire diverso, perché la sua parola è un dato di fatto, un prodotto degli altri, della tradizione e non una propria dubbiosa costruzione e scoperta psicologica. La sua parola non corre in aiuto della propria inanità ed assuefazione per un nuovo respiro. Il suo male di vivere nasce da questa mancanza di vigore morale e culturale che, almeno in Leopardi si fa satira, ironia dolorosa, ed alta e commossa solidarietà. Montale non ha crisi e dubbi concettuali sulla sua parola che gli appare come uno strumento di espressione e di racconto e non d’indagine di presenze concettuali continuamente chiamate a dar conto della propria perduranza e della propria validità morale nella storia dell’uomo e nella autonomia dei suoi giudizi morali. E questo avviene perché la sua parola non si mette mai in crisi d’identità. Non si misura nell’ arco del tempo e della Storia. La società e la psicologia sono luoghi irraggiungibili per la sua estenuata volontà di potenza.

21/04/1998

Montale, a ben riflettere, blocca lo sviluppo linguistico e psicologico della poesia, non solo per la maestria e suggestione del suo dire poetico, sempre musicalmente ben tessuto, ma soprattutto perché riconferma una tradizione di abitudini tematiche, come può succedere anche nella chiusa di Incontro, in cui senza impegno concettuale e propositivo, per non smettere le sue abitudini emblematicamente ama    distendere la sua familiare tristezza “allato di un torrente sterile”.

Le poesie del Diario postumo di Montale sanno di scuola montaliana, dell’ultimo Montale soprattutto. Sono parti sapientemente giustapposte nella versificazione. Qualcuna può essere credibilmente originale. Di quelle che Montale aveva scartato. Una possibile variante. 

06/09/1998

   Sono state queste spigolature, non tutte ancora ben raccolte, il tentativo di scoprire dove Montale abbia trovato intellettualmente e moralmente la maglia rotta nella rete in cui si dibatte assiduamente il suo uomo, se fortunosamente nel “rifiorire” delle sue aride riviere o in qualche amuleto apotropaico o infine nella serena complicità di una metafisica figurazione femminile, sorsi di luce e di speranza, che nella dimensione più grande della vita si inceppano in un fatalismo esistenziale, che sembra escludere ogni virtù per dare un senso alla Storia anche quando si sposta di “binario” specie per creare altre più umane prospettive di pensiero e di vita per il tramite di nuove parole.