L’istantanea visione dell’intero universo e di ogni suo infinitesimo dettaglio (attuale o  remoto) sparsa a piene mani nella speculazione di Borges, il quale la ripropose più volte sia nei racconti che nei saggi e nelle poesie; quella visione al tempo stesso analitica e sintetica, esaltante ed angosciosa, presiede altresì, come un garbato maestro di cerimonie, alle dissertazioni filosofiche di Daniele Caroppo (Esercizi di vertigine. Luomo, il cosmo, le macchine, gli dèi, Ilmiolibro 2020). Leggendo le affascinanti aperture e le sorprendenti prospettive sui labirinti del cosmo e della naturalis historia che propone il pensatore torinese, ci si accorgerà ben presto di questo debito fondamentale col cieco veggente di Buenos Aires; un debito che è a mio avviso da intendersi anche come frutto di un’istintiva propensione alla mise en abyme di ogni tesi filosofica, attivata e direi quasi folgorata dall’incontro con l’archetipo pulsante dell’arte borgesiana. Paragonerei inoltre, con un parallelismo forse troppo bizzarro, la prosa fluida e spiraleggiante di Caroppo a certe incisioni di Escher: un luogo dove l’impossibile diventa reale.

Ciò vale, beninteso, sia per La meraviglia, (Bibliotheka, Roma 2109), precedente volume di Caroppo, che per gli attuali Esercizi di vertigine. Questa volta, però, il libro è suddiviso in base a sette grandi temi – Natura, Metafisica, Teologia, Conoscenza, Etica e bioetica, Natura umana, Futuro presente –, mentre nell’opera d’esordio i vari capitoli si sviluppavano soprattutto come commenti ai testi via via presi in esame dal nostro autore. Tuttavia, non soltanto lo stile rimane lo stesso, il che è fin troppo ovvio, ma anche il tipo di approccio cui accennavo. Con eleganza, senza mai salire in cattedra, talvolta con un pizzico di gustosa ironia, Caroppo espone e vaglia le tesi altrui mettendo in rilievo sia gli aspetti che sarebbe disposto a sottoscrivere, sia quelli che gli paiono (per usare un eufemismo) meno fondati. Infine, e questo è il punto decisivo, porta alle estreme conseguenze le tesi stesse e verifica e discute i risultati che da tale consecutio deriverebbero.

Si consideri, per fare un esempio, la valutazione di un pensatore come Vito Mancuso, di cui Caroppo si era già ampiamente occupato ne La meraviglia, piuttosto che del “pensiero debole” propugnato da Gianni Vattimo. Ebbene, anche in relazione alle proposte di questi due filosofi contemporanei, interessati al Dio cristiano ma avversi alla Tradizione, il nostro autore perviene, con passo lieve e tuttavia inarrestabile, a svelarne le potenziali aporie, dopo averne inizialmente condiviso i pur differenti pregiudizi antidogmatici, dei quali non è difficile individuare la comune matrice illuministica.

Ma è soprattutto – come dicevo – nell’ambito delle ipotesi filosofico-scientifiche, e in particolare cosmologiche e cosmogoniche che Caroppo dà il meglio di sé, guidato come un rabdomante, lungo sentieri sinuosi (e in apparenza inaccessibili) a mettere il dito sulla piaga non tanto delle contraddizioni, quanto piuttosto di quell’immedicabile residuo di insoddisfazione che continua, imperterrito, a martellare nella mente di noi bipedi evoluti anche dopo una scorpacciata di ottima filosofia. Poiché l’autore di questi Esercizi di vertigine non si rassegna a svalutare, per nessun motivo, la dimensione misteriosa del nostro essere, comunque lo si voglia intendere, né dell’universo in cui ci aggiriamo come consapevoli, provvisori ospiti.

Nel concludere queste brevi postille, sottopongo al lettore alcune considerazioni particolarmente efficaci che Caroppo dedica ai due apici di tutte le Vorstellungen: ‘io’ e ‘mondo’. Ed ecco dunque la «luce vivente di qualcosa che ci ostiniamo a chiamare anima. Ingenua, anacronistica superstizione metafisica, senza dubbio». Nondimeno, «che sia epifenomeno, illusione, emergente fantasma che trasforma in identità individuale il brulicare di molti sovrapposti livelli di segrete molteplicità, ciò di cui facciamo esperienza momento per momento, nel cuore dell’enigma temporale in cui siamo immersi, la fiamma di quell’io che ci proclama ogni giorno […] il proprio diritto a contare ben più che come semplice gioco virtuale […] di entità e attività impersonali, è per noi l’assolutamente primo ed essenziale». E ancora: il «mistero che resiste comunque, come una tenebra opacissima, ad ogni tentativo di sondarlo all’interno della logica del pur sofisticato e quintessenziato realismo della scienza, la cui oggettività presuppone il mondo […] anche quando quel mondo, nelle sue componenti elementari, presuppone l’osservatore senza il quale non potrebbe pienamente esistere, e lascia sublimare la sua natura profonda […] in esoteriche evanescenze».

Al cospetto dei due magisteri non sovrapponibili della scienza e della fede, proposti da Jay Gould e stroncati dallo scientismo integralista di Richard Dawkins, il nostro filosofo non se la sente «di escludere una terza posizione, che postuli un’ossimorica convergenza, ma all’infinito, delle due precedenti, e che sfumando nell’indicibile sarebbe, proprio quella, la più radicale».

L’autentica vocazione metafisica di Caroppo, sono tentato di azzardare, è forse dunque apofatica?