Sempre del periodo giovanile di Max Ascoli ( 1898-1978 ), futuro creatore newyorkese di “The Reporter”, e a due passi da Le vie dalla Croce e dalla Commemorazione di Giacomo Sinigaglia, Bruno Pisa e Gilberto Finzi letta al Circolo di Cultura israelitica il 22 ottobre 1919 ( Ferrara 1919 ), è importante il dimenticato studio La filosofia giuridica di Emanuele Duni ( Garroni, Roma 1928 ), che inaugura i “Saggi vichiani” e l’ermeneutica giuridica dell’originale scrittore ferrarese. L’Ascoli era allora ‘Professore Incaricato di Filosofia del diritto nell’ Università di Camerino’, e si misurava sulla “già dibattuta questione della fortuna e diffusione delle idee di Vico nel secolo diciottesimo”.
Emanuele Duni, nato a Matera nel 1714 e deceduto in Napoli nel 1771, era il miglior banco di prova, così dell’ammirazione indiscussa come delle gravi differenze speculative, da parte dell’importante studioso materano verso il Vico; ed apriva scenari nuovi sul “futuro” della fortuna di Vico e degli “snodi” decisivi per la filosofia del diritto. Il “diritto” è, infatti, il “punto di svolta” per l’intervento della Provvidenza nelle cose civili; e la crisi del diritto costituisce davvero l’ “ultimo malore civile”, il segnale di “barbarie della riflessione” ( ben diversa dalla prima, cartesiana e razionalistica, “barbarie del senso”, confutata dal Vico in sede pedagogica con le sue “Orazioni inaugurali” ).
Su questa traccia ermeneutica, l’Ascoli disegna le tappe del contributo di Emanuele Duni, a partire dai due intensi volumi Origine e progressi del cittadino e del Governo civile di Roma, di Emanuele Duni, ‘Professore di Giurisprudenza nella Pubblica Università de’ Studi di Roma’ ( Appresso Francesco Bizzarrini Komarek, In Roma 1763, ‘Con licenza de’ Superiori’ ). “Nelle democrazie particolarmente i mali, che nascono dalla corruttela del costume, si rendono irreparabili per la ragione che, contaminandosi per così dire il sangue, che scorre dappertutto per le vene del corpo democratico, non v’è medicina che vaglia a guarirlo” ( aveva detto il Duni: vol. II, pp. 405-409 ). Max Ascoli oscilla tra una limitazione dell’originalità del Duni, imputando per “difetto gravissimo dell’ Origine e progressi l’influenza prepotente che vi esercita il pensiero di Vico” ( op. cit., p. 5 n. ); e il riconoscimento della sua funzione filosofica. “Vichiana è appunto la preoccupazione che lo porta a ricercare i fondamenti del diritto di natura: a trovare un argine al diritto naturale quale si era andato elaborando soprattutto nei paesi protestanti, che avevano bisogno di creare un diritto unico su base razionale, quando l’unità religiosa era spezzata e quella politica sempre più si frantumava nella formazione degli Stati nazionali. (..) Ma il problema era trovare un legame fra questo diritto naturale tutto divino e trascendente, e i concreti fenomeni giuridici di questa terra; creare cioè un sistema generale del diritto, una scienza del costume in cui rientrassero tutti i fenomeni di questa vastissima vita giuridica, e si disponessero in legame di coordinazione e di gerarchia. Il concetto vichiano di Provvidenza rispondeva perfettamente a questo scopo; la Provvidenza che crea le occasioni perché la legge eterna si realizzi tra gli uomini, la Provvidenza che interamente regola questo mondo umano, e fa sì che il giusto si identifichi col vero e che il certo si converta nel vero. Afferrato questo principio, il Duni ne trae ogni conseguenza possibile.” – Bandito l’ateo dalla sfera del diritto e della morale, perché “l’idea di Religione è il fonte originario d’ogni legge”; “il fondamento della Morale l’abbiamo da trovare dentro e non fuori di noi”; centrale è l’importanza sorgiva del diritto romano e dei suoi princìpi fondamentali, l’ honeste vivere, l’alterum non laedere, e il suum cuique tribuere ( op. cit., pp. 6-8, dell’Ascoli; Emanuele Duni, La scienza del costume, o sia sistema del diritto universale, Napoli 1775, p. 93 ). Onde:“La validità del diritto delle famiglie o delle genti non è da cercarsi in occasionale simiglianza di forme o di accidenti fra i popoli più diversi, ma in un disegno della Provvidenza; la Provvidenza appunto volle conservato il genere umano malgrado tutti i divagamenti ferini, e traendo pretesto dalle più varie occasioni, gli suscitò questo diritto che l’aiutasse, in preordinato ciclo di vicende, salendo per gradini da lei stessa segnati, a partire dal fango e dalla ferinità”.
Ne deriva – secondo il Duni esposto e reinterpretato da Max Ascoli – che: “Col consolidarsi della società civile sorse poi la necessità di contemperare questi due diritti ugualmente eterni, il primo posto dalla Provvidenza nel cuore dell’uomo, il secondo suscitato dalla Provvidenza perché gli uomini lo ritrovino nelle loro azioni, anzi col pretesto, con l’occasione delle loro azioni, come disciplina sostanziale e necessaria nell’eterno moto della storia umana”.
E dal contemperarsi del diritto di natura con quello delle genti, “dalle diverse e singole necessità della vita, sorge il diritto civile. (..) Ma anche il diritto civile riceve la propria validità dalla Provvidenza, perché indipendentemente da ogni varietà di occasione, tutte le leggi del diritto civile sono giustificate da quel principio supremo che vuol conservata la vita degli aggregati sociali: salus populi suprema lex esto”. Tutto il Duni deriva dal Vico, anche se oltrepassando un’impressione iniziale di grande sforzo ed “angustia”, come il filosofo del diritto materano confidava al Ministro Bernardo Tanucci nella premessa al Saggio di giurisprudenza universale: “Debbo ancora io confessare a V. E. il mio peccato di aver preso ben mille volte le di lui ( di Vico ) opere per le mani, e mille d’esserne fuggito per non angustiarmi il talento” ( edizione del Giannarelli, pp. 5 e 22-23 ).
Vico nel De Uno aveva posto i tre princìpi su cui tutti gli uomini concordano: 1° “Non entis nulla sunt attributa”; 2° “Totum est majus sua parte”; 3° “Omnes felicitatem desiderant”. E il Duni traducendo conferma: 1° “Che non vi siano proprietà di ciò che non esiste”; 2° “Che il tutto sia maggiore della sua parte”; 3° “Che l’animo umano desideri la felicità” ( Saggio di giurisprudenza universale, p. 23 ).
Accertata la “scienza critica di Vico”, per tale da metter capo alla nuova “corrente di studi” promossa da Benedetto Croce, l’Ascoli si sofferma sull’origine di questo comportamento, ossia sul Maestro, che non a caso Goethe aveva chiamato “Altvater”, e “che non offre un pensiero in cui adagiarsi ma ne suggerisce infiniti incalzantisi con la forza di una suggestione” ( massimo esempio ne sarebbe stata la insonne interpretazione joyciana ); fino al punto che, “in questo gran campo delle idee vichiane, la linea di orientamento bisogna che ognuno se la tracci da sé, e da sé come meglio può si costruisca i centri di raccolta delle idee” ( gli “innumerevoli lumi”, o “lumi sparsi”, della ermeneutica pascaliana e vichiana ). Dal punto di vista del diritto e della scienza del diritto ( il “lume”, qui contemplato ): “Vico supera il giusnaturalismo razionale costruendo il suo diritto universale sulla serie temporale della giurisprudenza romana, e non su quella loica fissata astrattamente dai giusnaturalisti; sostituisce cioè alla astrazione immobile del giusnaturalismo la concezione del diritto come un progresso, come una storia, come un dramma che è definito e racchiuso nel suo primo ciclo di esperienza. Il Duni invece termina in un astrattismo che è più rigido ancora di quello dei giusnaturalisti, con la sua concezione del diritto tutto trascendente, tutto schiavo della morale. (..) Per Vico cioè il diritto ha sì origini provvidenziali, ma interessa solo nel momento in cui si fa storia; per Duni il diritto è vero e degno di scienza solo quando sia contenuto nella sfera della vita morale. La Provvidenza di Vico, architetta di questo mondo edificato dagli uomini manovali, si drammatizza e si concreta; quella di Duni è press’a poco immobile e gli uomini possono solo contemparla con ‘limpido umano cuore‘ “ ( op. cit. pp. 13-14 ).
Il Vico “cerca le leggi delle leggi”. “A questo punto si delinea la inaspettata e pur necessaria svolta della metafisica vichiana. Perché, toccato il punto eterno dello stato perfetto delle Nazioni, l’unità dei tre supremi elementi di Grecia, di Cristo e di Roma si scinde; il punto eterno non è che momento perché nel suo eterno giro la Provvidenza fa poi decadere gli uomini. Ma perché questo decadere ? E se questo punto è eterno, perché è solo il possesso di un momento ? Perché la Provvidenza si svolge quasi imprigionata in questa via circolare ?” ( op. cit., pp. 16-17 ). Si allude, così, al problema del “Ricorso” e della “Pratica di questa scienza”, in una avventutra metafisica che il Duni non riesce ad attingere, tutto ravvolto com’è nell’aspra contesa con il teologo gesuita veneto Gian Francesco Finetti, l’autore del De Principiis juris naturae et gentium ( Venezia 1764 e 1777 ) e soprattutto della citata Apologia del genere umano ( Venezia 1768 ).
“Proprio in questo delicatissimo punto Vico e Duni elevano il lato più originale delle loro costruzioni, e Finetti ne par strabiliato. Cos’è questa Provvidenza scomodata a ogni momento ? E cos’è questo diritto ferreo delle genti, con questo romanzo di origini ferine, di uomini imbestialiti, di crudezze eroiche o mostruose dei padri ?” ( op. cit., pp. 19-21 ). “Se si tolgono al sistema di Vico le pruove metafisiche per estrarne una teoria del diritto naturale, non restano argomenti storici o giuridici su cui appoggiarsi, perché non si può sostenere con la sola filologia un sistema o una parte di un sistema sorto dalla identificazione tra filosofia e filologia. (..) Da parte sua, il Finetti non può non allarmarsi per questo moto di conversione del diritto ideale nel positivo attraverso il diritto storico o soprastorico, perché, mediante questo processo di conversioni che è un processo di unificazioni, gli par colpito il rigidissimo dualismo su cui si basa tutta la filosofia cattolica del diritto naturale. (..) L’opposizione del Finetti al Duni è determinata non tanto, come vuole il Labanca, da ragioni di fede cattolica, quanto di filosofia cattolica; in nome della filosofia cattolica, colpita nei punti essenziali, nella sua logica e nel suo dualismo, il Finetti combatte, nella nuova filosofia che vuole essere altrettanto cattolica, tutto quello che è suscettibile di sviluppo idealistico” ( op. cit., pp. 22-23; cfr. i volumi di Giovanni Gentile, Studi vichiani, Firenze 1920, pp. 149-165, per il saggio Dal concetto di grazia a quello di provvidenza; e di B. Labanca, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Roma 1898. La riedizione ‘laterziana’ del volumetto del Finetti fu curata dal Croce nel 1938, con il titolo della “Biblioteca di Cultura Moderna”, Difesa dell’autorità della Sacra Scrittura contro G.B.Vico ).
Sì che – accerta l’Ascoli conclusivamente -: “Il Duni volle introdurre le idee vichiane nella scienza giuridica del suo tempo; e il significato principale della sua opera sta nell’essere questa la prima delle traduzioni di Vico in prosa, l’inizio di quella serie di ritagli, fatti secondo questo o quel sistema, al corpo vivo delle dottrine vichiane” ( op. cit., p. 24 ).Su codeste basi storiche e filosofiche, l’Ascoli venne approfondendo il problema della Interpretazione delle leggi, autorevolmente inserendosi nel dibattito coevo sulla “Filosofia del diritto” ( v., specialmente, la polemica Pugliatti-Jemolo ).
Se Croce aveva pubblicato nel 1907 la memoria La Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’ economia ( negli “Atti dell’Accademia Pontaniana”, vol. XXXVII, Napoli 1907, poi curata in opuscolo distinto da Adelchi Attisani in Napoli 1926 ), memoria propedeutica al trattato della Filosofia della Pratica ( Bari 1908 ), in cui la teorizzazione della categoria dell’Utile, finalmente rivalutata nella sua autonomia, era deputata a assorbire in sé tanto la Filosofia del Diritto quanto quella della Economia; l’Ascoli si impegnava dapprima in un saggio Intorno alla concezione del diritto nel sistema di Benedetto Croce ( Treves, Roma 1926 ), quindi nello sforzo di interpretazione giuridica propriamente detta, con l’intento di “servirsi dello storicismo idealistico per operare una sorta di mediazione tra il positivismo e formalismo dei giuristi italiani e le nuove tendenze antipositiviste ed antiformaliste affermatesi soprattutto fuori d’Italia” ( cfr. La interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto, Atheneum, Roma 1928 e poi Giuffré, Milano 1991; La Giustizia. Saggio di filosofia del diritto, CEDAM, Padova 1930; Antonio De Gennaro, Crocianesimo e filosofia giuridica italiana, Giuffré, Milano 1974, che passa in rassegna puntualmente tutto il campo delle discussioni sul tema, da Treves e Cesarini Sforza a Cammarata e Maggiore, Kantorowicz e Battaglia, Bagolini e Pugliatti, Del Vecchio e Arturo Carlo Jemolo, Carabellese e Lopez de Onate, segnatamente alle pp. 335- 480).
Tra l’altro, notava l’Ascoli: “Il vero merito del Cammarata consiste nel non essersi limitato a compiere ancora una volta innanzi ai giuristi la dimostrazione della astrattezza e irrealtà della loro disciplina, ma di essersi posto in sede di critica gnoseologica il problema del come e perché della astrattezza, e quindi del fondamento della scienza giuridica” ( op. cit., pp. 40-41 ). Riconosciuta l’autonomia della “sfera normativa dello spirito”, indentificandola con la categoria crociana della “utilità” o “economicità”, dal momento che la volizione dell’individuale ossia del “concreto” avviene sempre mediante una norma e cioè l’ “astratto”, per Max Ascoli il “diritto positivo” presuppone la giuridicità “naturale”, fondata sulla “Coscienza economica” individuale ( op. cit. pp. 63-79 ). In codesto quadro, lo Stato non è tanto il “creatore” del diritto; bensì solo l’ “ordinamento giuridico limite”, tale da assumere in sé tutti gli ordinamenti giuridici parziali, dal “diritto positivo” alle normative “economiche” individuali ( op. cit., pp. 77-94 ). In questa maniera si poneva e risolveva per l’Ascoli il problema della relazione tra “interpretazione” e “creazione” del diritto, addirittura conciliantesi tra loro nelle norme “somme” di diritto costituzionale, tali da “creare” diritto attraverso i propri organi supremi ( op. cit., pp. 102-103 ). L’Ascoli finiva così col concludere per una forma di “giustizia”, intesa “Come supremo equilibrio e mediazione”, tra esigenze di rinnovamento e valore della concreta esperienza giuridica, “interpretazione” e “ricreazione”, all’insegna della irrinunciabile esigenza di “certezza del diritto”; alla stessa stregua in cui in coevo A. Pekelis tematizzava Il diritto come volontà costante ( Padova 1930, p. 56; Max Ascoli, op. cit., pp. 92 – 120 e La giustizia. Saggio di filosofia del diritto, Padova 1930, pp. 172-182 ), fino al punto da vedere nella “forma” il punto di equilibrio sostanziale della “equità” giuridica.
“La certezza del diritto vale più della sua equità”, o meglio: “ Nella sua certezza è la sua equità”. Ma nell’uno e nell’altro esegeta è evidente, se pur non sempre esplicitamente dichiarato, l’influsso e ascendente vichiano: per l’ Ascoli con la “guisa delle guise” che, secondo il mio avviso e saggio conclusivo, corrisponde alla ricerca di “supremo equilibrio e mediazione”; e nel Pekelis riecheggia il vichiano De Constantia jurisprudentis, proprio con il Diritto come volontà costante.
Lascerò per un attimo il quadro di elegante “ricomposizione formale” della dottrina di filosofia del diritto, per tenere in sospeso il grave problema del “Ricorso”, ossia delle possibilità stesse che l’intervento della “vichiana” o “moderna” Provvidenza possa inoltrarsi nelle vicende delle nazioni e dei consorzi civili. Il principio che i giuristi e filosofi del diritto chiamano della “eterogenesi dei fini”, ripresa dal Vico, è fonte di ulteriori indagini o inquisizioni: a proposito di natura e modalità della sua legge ( se trascendente o immanente; punto di svolta etico o squisitamente gnoseologico ). Certo ( sia detto qui di passata ), miravano in alto, verso i “princìpi”, i pensatori italiani degli anni Trenta del secolo scorso, e proprio nel mentre precipitavano sull’Europa le “ombre cupe della tragedia storica”, agitate dai vari totalitarismi. Fa specie il fatto che si dibatteva intensamente a proposito di “Filosofia del diritto” ( nelle alterne visioni di Salvatore Pugliatti e Arturo Carlo Jemolo, Cesarini Sforza e Ascoli o Cammarata ); e delle origini o anticipazioni e “barlumi dell’estetica moderna“ nell’antichità ( per Manara Valgimigli, presenti nella aristotelica “Poetica”; ma per Augusto Rostagni, piuttosto, nell’estetica di Filodemo di Gadara e dell’epicureismo ); di Liberismo e liberalismo, economia di mercato come “base per la libertà” e “Religione della libertà” come visione complessiva del mondo, soprattutto tra Luigi Einaudi e Benedetto Croce ( cfr. i miei Sul testo e la fortuna della ‘Poetica’. Note di critica aristotelica, dedicato ad Aristide Colonna, SPES, Milazzo 1984; Radici di Libertà, Laterza, Bari 2011 e i vari saggi di prosecuzione critica ).
Il “maestro” diretto o indiretto , vero capostipite dello storicismo e della filosofia dei valori, restava Vico. Lo conferma una pur breve analisi della ‘Filosofia del diritto’ e della ‘Filosofia della politica’ nell’abate roveretano Antonio Rosmini (1797-1855 ).
Se per Croce e Nicolini Rosmini non conobbe la vichiana Scienza Nuova, dal momento che l’abate nella sua Filosofia della politica critica l’idea dei “corsi e ricorsi storici”, tale da inficiare la universalità della ragione e dell’etica cristiana, precisamente perché “ristretta all’andamento delle nazioni antiche” e “ignara della onnipotenza sociale del cristianesimo” ( Bibliografia vichiana, cit., II, pp. 612-613 ); invece, nella Introduzione alla Filosofia, segnatamente nella prima parte Degli studi dell’Autore ( proprio quella che mise il filosofo cattolico in grave sospetto presso l’inquisiziale uffiviale dei Gesuiti, con sofferenza dell’autore ), c’è potentemente Vico, per il “Discorso a’ suoi amici e a tutti quelli che gli sono benevoli e indulgenti – Primo fine: Combattere gli errori” ( 1850 ), l’idea del “Ricorso” strettamente connessa a quella della “Provvidenza”, oltre a quella pre-moderna del “sofisma” e dell’ errore ravvolto in una forma sempre nuova e complessa, che stimo equo denominare “pre-orwelliana” ( cfr. Introduzione alla filosofia in Opere. 2, Città Nuova Editrice, Roma 1979, a cura di Pier Paolo Ottonello, pp. 15 sgg. ).
“E allorché questo ripetuto lavoro de’ difensori della verità cogli studii di molti, – argomenta Rosmini – e non senza esser corso un certo lasso di tempo, è condotto alla perfezione, e a tutte le necessarie risposte è trovata la veste opportuna, sicché le contrarie istanze rimangono ripercosse collo stesso linguaggio dialettico, allora è svanita ogni seduzione, e smascherato pienamente l’errore; il quale sarebbe vinto per sempre, se da quell’ora egli non principiasse a cercarsi una forma nuova dentro a un nuovo ordine di riflessioni, quasi il Proteo delle favole, e con nuova armatura, risorto a nuova vita, non rinfrescasse la sua battaglia. Ed è per questo che nella vita dell’uman genere si manifestano certe età, quasi sacre all’errore, nelle quali sembra che di seduzione e di fallacia sia piena ogni cosa, e le menti degli uomini compaiono indebolite, e, quasi non vedesser più quel lume che pur hanno presente, vacillino, e cadano ad ogni spinta. I quali periodi sono quelli ne’ quali l’errore sempre più attivo, perché irrequieto, della placida verità, ha prevenuto questa su per la salita delle mentali riflessioni, e s’è ravvolto in una forma più elevata, a cui quella non è ancor giunta nel suo tranquillo procedere. Sembra allora agli uomini che l’errore abbia vinto, come quello che armeggia in un campo, dove per poco non trova avversari. Ma all’aspetto di un tempo così calamitoso, gli ingegni più eletti, a’ quali il vero è più caro del lume degli occhi,, temendo che non ne rimanga orbato il genere umano, si riscuoton e senza riposo s’accingono alla fatica di sollevare la stessa verità a quell’altezza di mentale riflessione a cui già fu portato l’errore, e in quell’ordine di cogitazioni cercano e trovano quelle forme, nelle quali posti gli argomenti per la verità diventano efficacissimi, ché ognuno allora vede essersi risposto alle fallacie dell’errore col suo stesso linguaggio, nel quale racchiuso sembra prima inattaccabile.
Ed allora – prosegue magistralmente il Rosmini dopo aver delineato i tratti della “ragione sofistica”, con le sue “stagioni” – la condizione intellettuale e morale degli uomini s’ammigliora, e spunta una nuova età, in cui le menti riacquistano l’antico vigore, e si rassodano nel vero, e gli animi riprendono fiducia, e s’emendano col favore della nuova luce, e alla virtù, che della verità è bellissima figlia, si riconducono. E così nella storia dell’umanità è segnata una via di alterni periodi, negli uni dei quali prevalgono i sofisti, negli altri i filosofi, negli uni l’errore baldanzoso s’arroga il nome di filosofia e il comune degli uomini sorpreso dalla nuova foggia del ragionare non glielo contende, negli altri lo stesso errore rimane spoglio con ignominia di quel nome malamente usurpato,riconoscendo pressocché tutti, che in coloro, che prima chiamavansi i filosofi, non v’era in fondo che una ignorantissima petulanza ( onde questi bei nomi di filosofia e di filosofi rimangono per qualche tempo infamati ). E questo alternare di periodi di un fallace e di un vero sapere è una di quelle molte maniere di vicende, che, regolate a misura di tempi e quasi a battuta dalla provvidenza, come fisse leggi, regolano il corso dell’umanità sulla terra, e, uscendo dal male il trionfo del bene, rendono quel corso, quasi contemperato di varie note, una cotal musica dilettevole al divino intelletto” ( op. cit., pp. 17-18 ). Le mie sottolineature nel denso testo rosminiano evidenziano i passaggi di non perenta attualità, dalla raffinatezza dell’errore sofistico ( esemplari i sofisti, “ricorsi” nel XVII secolo, i “sofisti-sensisti e illuministi”; ed il Locke del 1690, poco dopo confutato ); al più elevato “ravvolgersi” dell’errore, sempre più “attivo” perché “irrequieto”; dal ricorso idealeterno supportato dali “ingegni più eletti”, che hanno a cuore la verità più della luce dei loro stessi occhi, e producenti una nuova e migliore età, fino al diretto intervento della Provvidenza nelle cose umane, e all’alterna vicenda di “sofisti”, con la loro “ignorantissima pertulanza”, e di “filosofi che, invece, formano “una cotal musica dilettevole al divino intelletto”.
Dove l’analisi del sofisma disegna bene le proprietà dell’ossimoro permanente, della “neolingua” o “bispensiero” ( Illegality is Legality – Autonomy is Eteronomy – Guarantee is Pain ), dell’ “Anticristo che è in noi”, della “Enantio-dromia” ( rispettivamente, reinterpretati presso Orwell, Croce, Jung ); come tali che proprio nella “crisi del Diritto”, lo statuto che dovrebbe Migliorare le nuove età di “Sorgimento”, si ravvisano le tracce dell “ultimo malore civile” e della “barbarie della riflessione” ( evocate con potenza ideativa e stilistica nelle Conclusioni dell’ opera vichiana maggiore ), e quindi i presupposti per l’intervento diretto della “Provvidenza”, fondante “punto di svolta”, il Turning Point della episteme e della “ecologia profonda”, ansiosamente richiesta nella nostra tarda modernità. Se s’adempie il capovolgimento dei valori “Illegality is Legality” ( da Orwell 1948-1984 a noi nel “1994”, Critica della ragione sofistica ) o l’ Anticristo ( Croce, 1946 ) o “per il diritto le campane suonano a morto” ( Italo Mancini, 1986 ); e cioè proprio la giustizia, risposta alle crisi, nella crisi precipita; quale più calzante previsione ci rimane se non la denunzia vichiana dell’ “ultimo malore civile” ?
Tale denunzia possiede un valore patognostico non solo cronostorico ma ideale eterno; tanto che Vico stesso lo riconosce nel passato, definendo, per capovolgimento dei valori, “empiamente pii” il casi della lussuriosa Messalina, o di Nerone che va nel circo e s’unisce in maniera nefanda a Pittagora ; ma anche nel presente, denunziando senza mezzi termini i giurisperiti che praticano “discorsi duplici”, applicati a difesa di ciascuna delle parti in contesa, o il pubblico avvezzo ad adottare un “linguaggio affettato al solo scopo di apparire”; quindi estensibile al nostro Avvenire, come ricorso ideale eterno. In fondo, il linguaggio capovolto, è anche e specialmente nelle “parole scanagliate” di Shakespeare della Dodicesima notte; o nella coraggiosa testimonianza di Giordano Bruno dinnanzi ai suoi inquisitori: “Forse avrete più timore voi nel pronuziare la vostra sentenza, che io nell’ascoltarla!”, “quando le tenebre si preponeranno alla luce” ( Giuseppe Brescia, “1994”. Critica della ragione sofistica, Bari 1997 e L’anima e l’Occidente. Filosofia del giusto – Psicologia del profondo, Bari 2000 ). Tanto più ideal-eterna è la dialettica della crisi e del ricorso provvidenziale della legislazione, quanto più si ergono sullo sfondo gli esempi biblici della Torre di Babele o la idolatria del Libro dei Re, dopo il regno di Ezechia, con quello di Giuda e dei suoi successori, sino alla nuova cattività babilonese del popolo ebraico ( Luigi Bruni, “Avvenire”, 8 e 15 Dicembre 2019 ). Il Ricorso deve far ritornare, dall’ “ultimo” malore civile, alla “prudenza” e al “senso comune” . Ma se la “prudenza”, o “giurisprudenza”, viene capovolta e tradita nelle guise e nei fini, può sempre ritornare il nuovamente “ultimo” malore della riflessione. E così via all’infinito, nell’andirivieni prospettico e retrospettivo della comprensione e della memoria. Non a caso i profeti che scrissero della cattività babilonese, “rividero” il periodo nefasto della prigionia e dell’esilio, e, con esso, il precedente momento della cattività egizia ( alla fine del Libro dei Re, commentata in sede di “oikonomia” da Luigi Bruni, “Avvenire” del 22 dicembre 2019 ). In effetti: “L’esilio fu il tempo in cui furono scritti alcuni tra i libri più belli e importanti della Bibbia. Molti dei salmi fiorirono da quelle lacrime, lì furono generati gli immensi testi profetici, scritti i racconti fondativi della Genesi e dell’Esodo, tutti figli del dolore collettivo più grande. Mentre tutto crollava, mentre la distruzione era radicale, mentre la città santa di Davide e il tempio di Salomone erano devastati e incendiati, quella stessa terraferita produsse alcuni dei capolavori più grandi della letteratura di tutti i tempi. In quell’esilio, senza tempio e senza patria, quegli scrittori furono capaci di ‘rivedere’ il tempio rinascere dalla sapienza di Salomone, bello e puro come il primo giorno quando tutto era luminoso e incontaminato. Rividero la fede di Abramo e, mentre ce la raccontavano, ricredettero alla promessa di una terra diventata ora un ammasso di macerie ; seppero capire e narrare con parole splendide l’alleanza con YHWH mentre il patto e l’elezione venivano spazzati via da Nabucodonosor e dal suo impero. Credettero, videro e scrissero parole meravigliose su Dio, perché prima furono capaci di crederle nella notte della fede: da quel buio generativo nacquero il roveto ardente, il combattimento di Giacobbe, il canto di Miriam e la sua danza col tamburello, le grandi parole del Sinai..; in quella devastazione ci raccontarono la liberazione dalla schiavitù egiziana mentre venivano condotti nella schiavitù babilonese, e quella schiavitù rese meravigliosa la narrazione del mare aperto”. Codesta ermeneutica biblica rende ragione delle possibilità perenni di “rinascenza”, come l’araba fenice dalle ceneri, delle istituzioni e delle civiltà, dalle loro “crisi”.
In chiave dottrinale, la “crisi del diritto” può portare, però, alla “agonia democratica del diritto”, alla “malattia del diritto”, argomentava nell’ epocale “1994” Juliàn Herranz, teorico della interpretazione dei testi legislativi, nell’ “Osservatore Romano” del 28 febbraio –1° marzo 1994 ( p. 8: La crisi del Diritto agnostico, “Prima che sia troppo tardi” ). Sul fronte laico, ma non laicistico, il medesimo problema è avvertito da Nicola Matteucci e da Richard Susskind ( The End of Lawyers ? ), e ripreso da Pietro Rescigno, attento ai “profondi mutamenti che attengono alla catena di generazione, e poi di distribuzione, del valore” ( “Liber Amicorum”, Accademia dei Lincei, Roma 2018 ). Mentre il nostro Max Ascoli, nella Interpretazione delle leggi, accerta: “La realtà è violatrice di ogni norma: se i fatti umani potessero esattamente rientrare negli schemi che li precedono, la vita perderebbe le infinite individualità in cui si fraziona: sarebbe cristallizzata, arrestata, non più vita. Tutto lo sforzo del diritto è teso appunto ad arrestare l’inarrestabile, a disciplinare l’indisciplinabile, sforzo che pare un mistico tentativo sempre inane di conchiudere la vita, ma che è sempre pratico, in quanto risponde alla necessità imprescindibile per ogni uomo di vedere inquadrato il campo delle proprie azioni, per potervi giocare, con la maggiore consapevolezza e col minore rischio, le proprie possibilità. Ma è evidente come in questa perenne rincorsa tra la vita e il diritto, sia sempre la vita che vince, come cioè il diritto possa utilmente adempiere la propria funzione solo a patto di essere sempre violato” ( op. cit., ediz. a cura di F. Riccobono e Postfazione di Renato Treves, Giuffré, Milano 1991, p. 33: cfr. Vincenzo Rapone, L’idealismo e il suo superamento critico: la Filosofia del diritto di Max Ascoli, in Max Ascoli antifascista, intellettuale, giornalista, a cura di Renato Camurri, Angeli, Milano 2012, pp. 65-87 ).
Ne deriva che l’ “andirivieni” ricorsivo di Sviluppo e Crisi, Nuova era e ‘campane a morto per il diritto’, prenda bene l’aspetto, piuttosto che del circolo, della goethiana e crociana “spirale” ( v. il frammento autobiografico giovanile Ritorniamo alla terra ( nel citato volume del 2012 Max Ascoli antifascista, intellettuale, giornalista, alle pp. 253-264, su cui il mio Tempo e Idee, Milano, Libertates 2015, pp. 213-221 e 231-239 ). – “Genio è colui che lavora col tempo sul tempo”. “E questo è un mirabile barlume di luce nella fossa che serra, poiché il presente deve essere diverso dal passato se dà un contenuto al passato stesso. Dunque, l’Umanità, corre; corre, ma non eternamente sulle stesse spaventose rotaie circolari. Dunque, non v’è circolo, ma spirale. E avanti dunque con la passione e con l’ardore, avanti se vogliamo veder la luce. Ridiamo il suo calore al passato utilizzandolo, come nella caldaia della locomotiva in corso, per la memoria dell’uomo, arde ancora nella fornace ardente il sole dei millenni trascorsi” ( comma XXIX ). “Il sorgere troppo rapido della filosofia dalla poesia è la fine di un popolo, poiché la coscienza uccide l’eroismo. Ma acquistando l’uomo memoria dei circoli percorsi, la circolarità non fu interrotta, ma approfondita: quindi, nonostante la memoria, la Nazione italiana ebbe con Dante principio poetico, e questa fu la sua fortuna. – Forse meglio che di corso e ricorso circolare, si può parlare di spirale o di cavatappi. Si comincia da una punta ( l’intuizione prima dei popoli antichi ), sempre più approfondita dalla coscienza circolare dell’umanità posteriore, dallo sviluppo circolare della civiltà seguente. E la gran forza che spinge e squarcia e poi innalza è la memoria” ( comma XXXI ). Siamo in una riflessione del 1917, quando – confida l’Ascoli – il di lui pensiero si forma in una serie di postille a margine dei libri e dei sistemi di Benedetto Croce. Ma l’Ascoli ha già intuito che il rapporto tra norma e fatto, diritto e giustizia, diritto e vita, obbligazione e violazione è così stretto e avvitato circolarmente su se stesso, da produrre nuova efficacia per il paradigma dell’intreccio a spirale, simbolo della crescita infinita dello spirito. E il diritto viene sì ‘invocato’; ma, nel contempo, per esprimere la propria funzione, necessita d’essere ‘violato’. Occorre una visione globale del diritto, superando e colmando Il problema delle lacune nell’ordinamento giuridico, come felicemente aveva suggerito il contemporaneo D. Donati ( Società Editrice Libraria, Milano 1910 ), o soffermandosi Sui princìpi generali del diritto, insegnati con il contributo dell’amico e maestro Giorgio Del Vecchio ( Società Tipografica Modenese, Bologna 1921 ). Così: “Tutte le soluzioni che si possono dare hanno la funzione di posizioni avanzate nella ricerca sulla natura del diritto, essenziale per gli stessi giuristi. Ogni specialista che vi sia giunto, vi ha portato la bandiera della propria specialità: ma piantare la bandiera non vuol dire prendere possesso del territorio; questo territorio è unicamente della filosofia del diritto, i problemi sui rapporti tra legge e fatto ( integrazione: ‘i problemi’ ), sul formarsi delle norme nei rapporti interumani, appartengono esclusivamente alla filosofia del diritto” ( Cfr. L’interpretazione delle leggi, cit., Milano 1991, p. 14; Vincenzo Rapone, L’idealismo e il suo superamento critico, in Max Ascoli, cit., pp. 71 sgg. ).
Un quarantennio dopo, il 1957, Max Ascoli pubblica sulla rivista “Criterio” dell’amico Carlo Ludovico Ragghianti quattro saggi sul tema “Libertà e Libertà politica”: 1) “La Libertà” ( a. I, n. 2, febbraio 1957, pp. 105-111); “La libertà politica”( a. I, n. 3, marzo 1957, pp. 179-184 ); “La libertà. La natura dei diritti” ( a. I, n. 5, maggio 1957, pp. 343-348 ) e “La libertà. Il dinamismo dei diritti” ( a. I, n. 6, giugno 1957, pp. 440-446 ), oro colato della riflessione filosofica sulla libertà e sui diritti al diritto, che l’autore distende in una prosa elegante ma scevra affatto di citazioni erudite. Nel primo saggio, Ascoli connette l’esperienza della libertà a quella del lavoro, tanto unite “che nessuno che non sappiacome lavorare può conoscere la libertà”. Nel secondo, l’autore distingue: “La libertà politica è libertà del consorzio umano, entro il consorzio umano, dal consorzio umano. E’ la libertà del consorzio dall’oppressione esterna e dai capricci dei suoi componenti; ed è la libertà dei cittadini e dei loro gruppi entro e dal consorzio. Tra questi tre elementi costitutivi della libertà politica corrono rapporti positivi. Ognuno è in funzionedegli altri, e può venir messo a repentaglio o addirittura distrutto dalla sparizione o dalla smisurata espansione degli altri”. Nel terzo saggio, Ascoli illumina la “natura dei diritti” “C’è però un diritto , e uno solo, al quale tutti gli uomini si richiamano con assoluta e identica ragione: il diritto di essere soggetti di diritti”. E nel quarto, accerta che il fatto che “i diritti non siano inalienabili, ma possano venir alienati ed essere perduti, l’esperienza del nostro tempo lo ha provato oltre ogni ragionevole dubbio”. In questo modo, Ascoli propone il problema della “nuove modalità” per la “religione della libertà” e soprattutto coonesta al sistema di filosofia del diritto l’insopprimibile esigenza religiosa dell’uomo, vista come assioma del pensatore stesso, “A deeply religious Man”.
In conclusione, Max Ascoli ci lascia il retaggio più alto e complesso della libertà nell’età della ragione tutta spiegata.”La caratteristica dei tempi moderni sta in ciò: che la civiltà industriale ha imposto a tutta l’umanità, e praticamente senza riguardo a razza, colore o sesso, tipi uniformi di lavoro, rendendoli tutti direttamente e immediatamente interdipendenti. Ma la produzione meccanica, sia che si faccia a profitto dei privati, sia che s’indirizzi a una società comunista, non prescinde dall’individuo; né richiede che nelle nostre escogitazioni o nella pratica della vita sociale si debba imitare la macchina. Essa non può distaccarsi dalla tradizione morale cristiana dalla quale ripete la sua origine, se non acosto di rivoltarsi inevitabilmente contro l’uomo. (..) Non basta all’individuo, per difendersi ed affermarsicontro le predaci forze politiche ed economiche, che vengano riconosciute le esigenze universali della persona umana e del suo ‘valore’; comenon basta la conoscenza della legge di gravità per determinare il tipo di caso in cui ci sentiamo di potere ben vivere. Solo gli organismi politici possono rendere armonici i dinamismi della produzione e dei diritti, che non devono venir mai separati. Il dinamismo dei diritti ha fatto nascere il dinamismo della produzione, e questo a sua volta ha allargato prodigiosamente l’ambito del dinamismo dei diritti. Il massimo problema politico del nostro tempo consiste nello stabilire tra essi il Migliore e più giusto rapporto”. Conclusione che vale massimamente anche per l’oggi supertecnologico, pervasivo, sofistico, cui danno alternativa le proteste liberali di Hong Kong e dell’America Latina, o della Russia di Putin e del malato Occidente, sempre nel quadro dei “modi regolativi” della libertà e della Filosofia del diritto, attivamente ripensata.