Molti anni fa, nei vari tentativi di trovare una sorta di equilibrio psicofisico, che mi aiutasse nel perenne e vano tentativo di perdere peso, intrapresi il percorso della terapia psicolologica, e due volte a settimana mi recavo dalla terapista junghiana che mi seguiva. Ricordo che la prima seduta fu un disastro, piansi tutto il tempo e non riuscii a dire nulla. Mano a mano che gli incontri si ripeterono, imparai a comunicare pensieri, sensazioni, emozioni. Un giorno dissi a Bruna che mi sentivo triste, e lo feci con aria affranta, ricevendo da lei una risposta che mi fece riflettere, e lo fa tutt’ora. Bruna, la psicologa, mi disse che essere tristi non è una malattia, ma uno stato d’animo, che la tristezza è il contrario dell’allegria, non una sindrome depressiva. Già, è uno stato d’animo, che nei millenni ha ispirato i grandi poeti, i musicisti, i filosofi, ma che nella società attuale non è permesso vivere; provare questo sentimento non è idoneo, dobbiamo essere sempre tutti allegri, positivi, efficienti, performanti, sempre sul pezzo insomma. E così siamo sempre impegnati nella ricerca di un benessere e di una felicità che ci stressa e ci condiziona nelle scelte, come nei sentimenti, e finiamo con l’essere infelici e irrealizzati. Una delle spiegazioni possibili potrebbe essere che ormai, non più legati ai bisogni primari (per noi uomini delle società occidentali, il cibo e le altre necessità basilari della vita non sono più un problema quotidiano), abbiamo tempo ed energie da investire nella ricerca di sovrastrutture emotive e velleitarie tipiche del benessere, che ci vuole a tutti i costi positivi e sorridenti. Mi vengono in mente delle bellissime fotografie scattate da un reporter in Africa, presso delle popolazioni poco avvezze al contatto con l’Uomo occidentale, in cui dei bambini felici e stupefatti guardavano nel display della macchina fotografica, gioendo di quella magia, la loro immagine riprodotta. Credo che non siamo più capaci di godere delle cose semplici, abbiamo perso il senso della magia che era in ognuno di noi e a questa perdita di ingenuità si aggiunge la richiesta imperante che perviene dalla collettività, dalla “società”, che ci vuole sempre sorridenti, felici e contenti. Se chiediamo a qualcuno: <<Come stai?>>, ci risponderà quasi sempre con un largo sorriso e un <<Benissimo!>>, come se ammettere di essere preoccupati, contrariati o addirittura tristi sia un delitto di lesa positività. Per dirla breve siamo vittime della “dittatura della felicità”, dell’essere contenti a tutti i costi, e non importa quanto costi, mi si scusi il calembour.
Così scatta il sorriso a 32 denti sul posto di lavoro, tra amici, persino in politica, non so in famiglia… insomma la felicità come ideologia, da perseguire sempre e da esportare facendo proseliti tra amici e parenti. Per ottenere questo continuo ed improbabile stato d’animo, siamo alla ricerca del cibo che ci procura benessere, del corso di meditazione che apre i chakra e tira fuori l’individuo felice che è in noi o della vacanza per praticare il digiuno terapeutico, che eliminando le tossine e mettendo a dura prova il nostro desiderio di addentare un cosciotto di agnello, farà affiorare la positività latente, relegata chissà dove. Ma sapete qual è il prezzo che noi novelli cacciatori della felicità nascosta paghiamo?
La mancanza!
Si, proviamo il sentimento della continua insoddisfazione del non riuscire a trovarla la felicità ad ogni costo, una mancanza che ci colloca in una condizione di vuoto interiore e di inadeguatezza, perché il dubbio che ci attanaglia non riguarda un errata richiesta proveniente da fuori, ma una intrinseca incapacità di trovarla questa benedetta happyness. Così oltre ad essere stressati dall’insoddisfazione per i ritmi lavorativi, per le condizioni affettive od economiche, siamo pure “happycondriaci”, se mi concedete il neologismo, cioè eternamente al lavoro con noi stessi per cancellare o migliorare gli aspetti della nostra vita o le persone che non ci piacciono, perdendo di vista l’impossibilità di poterlo fare.
In tutto questo inutile lavorio emotivo perdiamo la capacità di cercare in altro e negli altri il benessere e finiamo con l’essere concentrati esclusivamente su noi stessi. A questo punto voglio ricordare, anche a me stessa, in una sorta di pensiero ad alta voce, che molta della felicità che viviamo ci arriva dagli altri, dalla nostra capacità di creare reti di relazioni piacevoli e soddisfacenti, sia in ambiente lavorativo, che familiare, che di coppia. Ogni tanto arrabbiamoci, lasciamo uscire i sentimenti non sempre positivi che proviamo; la capacità di adirarci, di andare contro corrente infatti ci permette di essere innovativi, distruttivi ma per ricostruire rapporti sociali e sentimenti diversi, per far valere la nostra opinione e la nostra personalità. Non farlo ci porterà a sentimenti di frustrazione, risentimento e odio per non essere capaci di essere felici a prescindere, con conseguente nascita di dinamiche sociali e personali distorte.
Mi viene da pensare che ci sia anche una sorta di manipolazione delle classi dominanti dietro questa forzatura, come se l’ideologia della positività fosse uno strumento politico di tendenza conservatrice: ho azzardato troppo?
A noi il libero arbitrio: essere felici all’interno di una società manipolata dal come dovremmo essere, quindi schiavi, o pensanti, critici, quindi infelici e liberi?
Meditiamo, meditiamo…