Il biografo ha sempre molta difficoltà a penetrare nella psiche del soggetto esaminato, giacché opere e vicende storiche spesso finiscono per prevalere sui risvolti umani e la personalità. Nel caso di Camillo Olivetti, tuttavia, abbiamo la fortuna di poter disporre delle lettere che egli costantemente inviò ai parenti durante il viaggio che fece nel 1893, quando accompagnò Galileo Ferraris al Congresso di elettrotecnica che si tenne quell’anno a Chicago. Quasi tutte le lettere sono state pubblicate nel 1958, in occasione del cinquantenario della fabbrica di mattoni rossi. Il libretto edito da Comunità non è più in commercio: chi scrive ha la sua di copia, perché allora era dipendente della Olivetti a Ivrea. Confesso che allora non lo lessi, per me Camillo Olivetti era un vecchietto la cui statua era posta nel “Salone dei 2000”, dove noi dipendenti dopo la mensa andavamo ad assistere a spettacoli di cantanti o attori famosi. Eppure quel vecchio con la barba bianca era stato un giovanotto che, finita l’università, invece di godersi la vita se ne andò a lavorare un annetto in quel di Londra e poi, per una di quelle occasioni che non si possono perdere, si imbarcò per l’America con il professore di fisica con cui aveva dato la tesi di elettrotecnica. Quel professore era: Galileo Ferraris da Trino Vercellese, docente di fisica al Reale Museo industriale italiano. Galileo Ferraris non fu solo un docente brillante, fu il genio italico che scoprì il campo magnetico rotante per mezzo del quale una bobina immersa in un campo magnetico si mise a girare. Per la prima volta non erano più l’acqua o il vento dei mulini, tantomeno il ben più moderno ed efficiente vapore a muovere quegli alberi ai quali, tramite le cinghie, erano collegate le macchine: tessili o meccaniche che fossero. Non fu il buon Galileo a godere dei benefici della sua scoperta. Appena pubblicata un emigrato serbo negli Stati Uniti, disponendo di un contesto industriale e finanziario ben diverso da quello dell’Italiano, lo bruciò sul tempo brevettando il primo motore elettrico. Peccato (per lui) che Galileo Ferraris avesse pubblicato i suoi studi un anno prima, nel 1888, e quindi la comunità scientifica riconobbe l’invenzione al professore. Per Galileo sarebbe stato meglio l’opposto, perché Tesla divenne ricco mentre in Italia a Galileo capitò quanto Camillo scrisse su «Tempi Nuovi» nel 1923, quando sul settimanale torinese commemorò lo scienziato.
Galileo Ferraris non ebbe, e si capisce, amica la burocrazia, che un bel giorno gli giocò un tiro birbone. Già celebre in tutto il mondo per le sue scoperte e per le sue invenzioni, fu chiamato a coprire, oltre a quella che teneva al Politecnico, la cattedra di professore di fisica alla Scuola di Guerra. Lo lasciarono far scuola per un bel numero di anni e poi si accorsero che egli era reo di cumulare due cariche e che ciò era contrario a non so quale articolo di regolamento (che non era e non è mai applicato quando chi cumula le cariche è un animale burocratico) e lo obbligarono a restituire alcune migliaia di lire che rappresentavano quel quid che gli era stato corrisposto per diversi anni di lavoro quale professore alla Scuola di Guerra. Fu gran cosa se poté, mercé l’intervento di autorevoli personaggi, ottenere di poter pagare tale multa in diverse mensilità, altrimenti avrebbe dovuto vendere i mobili di casa sua per soddisfare alle esigenze del fisco.
Sono passati quasi 150 anni da questo episodio e dobbiamo rilevare che la burocrazia del “Bel Paese” poco è mutata. A parte le amenità burocratiche, Camillo fa anche un breve ritratto illuminante del suo professore.
L’Associazione Elettrotecnica Italiana commemorerà domani il 25° anniversario della morte di Galileo Ferraris. Alle onoranze che gli elettrotecnici preparano alla memoria del Ferraris tutti gli Italiani, e non solo gli Italiani, si uniranno, perché il Ferraris non fu soltanto un grande elettrotecnico, ma fu anche e soprattutto un grande Maestro. Sono già di dominio della storia le sue scoperte nel campo delle correnti alternate, scoperte che contribuirono in modo cospicuo all’incremento meraviglioso che l’elettrotecnica ebbe in questi ultimi decenni. La scoperta che gli diede maggior fama fu quella del campo magnetico rotante risultante dal combinarsi dei campi magnetici prodotti da due correnti alternate. Si può dire che la quasi totalità dei motori elettrici che fanno muovere le officine di tutto il mondo sono basati sul principio da lui scoperto. Prima però ancora della scoperta del “Campo Ferraris”, il Ferraris professore di Fisica tecnica ed elettricità nel nostro Politecnico era già ben noto tra gli scienziati per i suoi studi sulla rifrazione della luce e più ancora per quelli assolutamente geniali sopra la differenza di fase nelle correnti alternate che rimasero classici e servirono di base per i calcoli dei trasformatori. Indipendentemente dai suoi meriti di scienziato il Ferraris sarà sempre ricordato come insuperabile Maestro. Le sue lezioni di elettricità erano e resteranno insuperate per il rigore scientifico unito alla chiarezza ed all’eleganza dell’esposizione. Vi era qualcosa come un fascino speciale che incatenava l’attenzione degli uditori ed una specie di potere suggestionante per cui anche i passi più difficili sembravano, quando erano enunciati da lui, semplici e facili. Egli non bocciava, si può dire mai. La ragione era semplice. Nessuno che non fosse ben preparato osava presentarsi all’esame, tanta era la reverenza che egli sapeva suscitare nell’animo degli alunni. La sua scuola, frequentatissima, fu un seminario di ottimi ingegneri elettrotecnici di cui molti sono oggi a capo di Aziende Elettriche importanti in Italia e all’estero. […]
Galileo Ferraris fu nominato rappresentante per l’Italia al congresso di Elettrotecnica che si sarebbe tenuto a Chicago in occasione dell’Esposizione Universale del 1893. A quei tempi, era ancora grazie che agli scienziati pagassero viaggio, vitto e alloggio per partecipare a questi consessi e di un segretario o di un interprete non se ne parlava proprio. Il professore fu in serio imbarazzo perché sarà pur stato un genio, ma l’inglese proprio non lo masticava. Si ricordò così di un suo allievo, Camillo Olivetti, che dopo essersi laureato se n’era andato a lavorare a Londra e quindi pensò che l’inglese l’avesse imparato abbastanza bene da aiutarlo a districarsi in quel viaggio. I due, oltre al rapporto professore allievo, erano in un certo qual modo amici di famiglia in quanto Carlo Marselli, cognato di Camillo, era amico sia del professore che sia del fratello. Camillo era per le decisioni rapide, non gli importava se avrebbe dovuto pagarsi il viaggio e il soggiorno: un’occasione così non era da perdersi! Tanto più che aveva già in mente di visitare quel grande paese di cui molto aveva letto nei libri di viaggio cui era appassionato. I due si imbarcarono a Genova su uno dei nuovi piroscafi che collegavano l’Europa agli Stati Uniti. Erano passati quasi cinquant’anni da quando, nel 1845, il Great Britain aveva attraversato l’Atlantico. Per la prima volta una nave salpava senza vele, con lo scafo di ferro e l’elica mossa dal vapore come mezzo di propulsione. Fu una rivoluzione nei trasporti che favorì la seconda grande immigrazione dall’Europa verso le Americhe: protagonisti soprattutto gli italiani del nord e quindi anche i piemontesi, soliti fino ad allora a emigrare verso le miniere francesi. I due non viaggiarono con gli emigranti alloggiati nelle stive; in quei tempi i piroscafi per le Americhe avevano due tipologie ben distinte di passeggeri: i poveracci che fuggivano dalla miseria e i benestanti. I primi erano alloggiati in cameroni di fortuna; i secondi, che erano pochi rispetto ai primi, in cabine che tutto sommato erano altrettanto scomode. Arrivarono a New York passando davanti alla Statua della Libertà che i francesi avevano donato agli americani qualche anno prima. La città che videro era ben diversa da quella odierna, a cominciare dai grattacieli che brillavano per… non esserci. O almeno ne esisteva uno solo: il New York Word Building, sede del giornale pubblicato da quel Josef Pulizer cui, in suo onore, daranno più tardi il nome all’omonimo premio giornalistico. Quella costruzione era alta 98 metri e se si pensa che i piloni del Brooklin Bridge o la guglia della Trinity Church erano più alte, si può immaginare come Manhattan a quel tempo non dovette fare loro una grande impressione. In compenso esisteva già il Battery Park, ai margini del quale partiva una lunghissima strada diritta che attraversava nel centro la punta di Manhattan. Era chiamata Broadway Street e finiva in un altro Park molto più grande, il Central Park, che era la risposta newyorchese all’Hide Park di Londra o al Bois de Boulogne di Parigi. Dunque, New York non fece una grande impressione ai due. In una lettera del 24 agosto al cognato Marselli Camillo scrisse:
Quest’impressione è stata così così, e tanto il prof. Ferraris che io dovevamo fare uno sforzo per ricordarci che eravamo nel nuovo mondo, tanto la città ci sembra simile a quelle dell’antico. Il movimento di New York è grande, ma per nulla superiore a quello di Parigi e minore di quello di Londra. Il girare New York e in genere tutte le città americane è la cosa più facile del mondo. E ciò in grazia della razionale disposizione delle strade […] Gli edifici di New York sono molto strani ed i nuovi sono enormemente alti ma punto belli. L’essere ad un piano superiore non è un inconveniente perché due o più ascensori salgono e scendono continuamente […] I mezzi di locomozione a New York sono ottimi e son in generale costituiti da ferrovie aeree delle avenues e da tramways elettrici, i funicolari, o da cavalli. Pochissime carrozze (grazie al pavimento infame) e molto care.
Durante il soggiorno a New York ne approfittarono per fare una puntatina a Washington DC, la Capitale, e videro naturalmente la Casa Bianca, il Capitol e il monumento al primo Presidente (l’obelisco); ma anche quella città era ben lungi dalla monumentalità odierna, per cui, ancora una volta Camillo commentò solo il dissesto stradale. Tornati a Manhattan, Camillo visse una grande esperienza. Galileo Ferraris era stato invitato da Thomas Alva Edison a visitare il suo grande laboratorio di Llewellyn Park nel New Jersey, lo Stato che si affaccia proprio davanti a Manhattan separato da uno dei bracci della foce dell’Hudson. Di quell’incontro sarà meglio lasciar parlare Camillo nel terzo elzeviro sempre su «Tempi Nuovi».
Galileo Ferraris ed Edison
Nel 1893 Galileo Ferraris fu nominato Commissario Governativo al Congresso Internazionale Elettrotecnico di Chicago. In America ebbe accoglienze festosissime; fu uno dei cinque Presidenti del Congresso i cui lavori furono assai importanti come quelli che portarono alla definizione di molte unità elettriche. Ricordo anzi che fu per merito personale del Ferraris se i congressisti nel definire il Joule ed il Waltm non presero una discreta cantonata. All’esposizione di Chicago ebbe il piacere (forse misto ad un po’ di rammarico ed un po’ di sorpresa) di vedere in azione uno dei primi grandi motori trifasi di 1000 KW basati sul principio scoperto da lui, ma che, come spesso capita ai poveri italiani, causa l’antindustrialismo delle nostre classi dirigenti, ebbe le prime e più importanti applicazioni all’estero. Durante la sua permanenza in America fu invitato da Edison a visitare il suo famoso laboratorio di Llewellin Park, ove il celebre inventore americano ha a sua disposizione i più colossali laboratori sperimentali che si possono desiderare, con una quantità di collaboratori specializzati nei diversi rami della scienza e della tecnica. La visita fu interessantissima sotto molti punti di vista. Edison l’accolse cordialmente nel suo studio. Indossava una blouse grigia cosparsa di molte macchie e bruciature di sigaro. Non era si può dire entrato, che l’americano venutogli incontro e datogli un’energica stretta di mano, gli domandò a bruciapelo per quale processo mentale era arrivato alla concezione del campo rotante. Il Ferraris gli spiegò che egli aveva concepito il campo rotante magnetico partendo da analogie con alcuni fenomeni ottici. Accompagnò il Professore e gli fece visitare minutamente il suo laboratorio e lo fece assistere ad un’audizione di uno dei primi fonografi, facendogli sentire delle arie popolari di Bellini, e di Verdi, non sospettando che l’illustre uditore era oltre che un celebre scienziato, anche un eccellente musicista e per giunta un Wagnerofilo accanito. Gli fece vedere pure alcune prove di fotografie che preludevano all’invenzione del cinematografo. Chi scrive questi ricordi e che era presente, non poteva fare a meno di pensare che Ferraris poté con molta difficoltà far costruire quei rozzi modelli di motori (oggi esposti al Politecnico) che fu gran mercé se si misero a rotare tanto erano primitivi nella loro esecuzione, e che per ottenere una corrente sfasata, non avendo a sua disposizione che un solo piccolo alternatore monofase, dovette ricorrere ad un geniale ripiego ottenendo lo sfasamento mercé un’induttanza intercalata, ripiego geniale, ma sempre ripiego; mentre se il laboratorio del Politecnico avesse avuto maggiori disponibilità tecniche, le esperienze avrebbero potuto essere condotte in modo da poterne intuire la importanza nel campo tecnico, importanza che in principio sfuggì allo stesso Ferraris. Mentre l’inventore americano ha avuto a sua disposizione i mezzi più ampi che gli permisero di condurre a termine tutte le invenzioni che lo resero celebre come inventore, sebbene l’Edison, più che vero inventore sia un geniale tecnico. E non erano questi i soli confronti che mi vennero in mente in quelle ore che passai a Llewellin Park insieme a Ferraris ed Edison, e debbo dire che i confronti, se per quello che riguardava i due celebri uomini, erano tali da sentirmi orgoglioso di essere compatriota dell’uno, non erano egualmente ottimisti quando pensavo alla diversa posizione morale e finanziaria fatta ai grandi scienziati e ai grandi tecnici in Italia in confronto a quella fatta in America.
L’esatto contrario di Galileo Ferraris fu Thomas Alva Edison (Milan, 11 febbraio 1847 – West Orange, 18 ottobre 1931): se il primo fu l’archetipo dello scienziato cattedratico, il secondo lo fu dell’inventore autodidatta. In gioventù fece i più svariati mestieri. Iniziò vendendo spuntini e bevande sui treni, poi ampliò il servizio stampando, sempre sul treno e per giunta in marcia, addirittura un giornale che poi vendeva ai passeggeri. Dovette accumulare una certa quantità di denaro perché poté aprire un laboratorio tutto suo, da cui usciranno alcune invenzioni destinate a rivoluzionare il mondo. Due su tutte: la lampadina e il fonografo. Non avendo un’istruzione specifica, ma solo idee, si contornò di tecnici di prim’ordine, per cui è difficile capire la vera paternità di una miriade di invenzioni, miglioramenti e congegni che uscirono da quel laboratorio. Con pragmatismo tutto americano ogni invenzione aveva un’applicazione di mercato. Strinse alleanze industriali con i principali scienziati americani: Bell, quello del telefono, e lo stesso Tesla. Dal suo genio nacquero industrie che rivoluzionarono il mercato. Thomas Alva Edison era figlio di quel secolo che aveva visto gli americani, dopo la conquista dell’indipendenza, impegnati in una guerra civile tra il sud latifondista, e quindi agricolo, e il nord industriale. Il problema della schiavitù, a ben vedere, era stato un grande pretesto. In realtà erano due mondi e due mentalità che si scontravano: basti dire che non tutti gli schiavi del sud erano trattati disumanamente come lo erano gran parte degli operai del nord. La vittoria del nord significò l’affermarsi di una mentalità industriale e quindi più competitiva. La corsa alle terre praticamente inesplorate verso l’ovest, fu condotta con spirito pionieristico, spesso banditesco. Fu l’affermazione dei più forti. Questi nuovi barbari occuparono un territorio vastissimo e pieno di ogni ben di Dio, con terre sconfinate da coltivare, ma soprattutto ricche di materie prime: ferro, rame, argento e oro, infine il petrolio. A quest’ondata, che si muoveva su carri e cavalli, seguì quasi immediatamente la ferrovia che nel giro di pochi decenni attraverserà il paese in lungo e in largo, creando il più moderno e capillare sistema di trasporti del mondo. Quando Presidente e Congresso decisero che era ora di mettere fine alla fase pionieristica e ristabilirono la legge dei tribunali e degli sceriffi, il paese era ormai completamente conquistato (purtroppo a spese dei nativi) dai bisnipoti di quei diseredati europei fuggiti alla miseria e alle ingiustizie del vecchio continente. Le grandi città americane si erano sviluppate di pari passo allo sviluppo economico. I postumi della guerra civile, sia pure lentamente, furono riassorbiti. Non mutarono comunque i principi generali che avevano ispirato la rivoluzione americana. Le grandi città da cui erano partiti i pionieri continuarono a mantenere inalterate leggi e cultura, sviluppando dalla seconda metà dell’Ottocento un sistema industriale e finanziario che sopravanzava di gran lunga quello europeo. Le invenzioni, anche quelle fatte dagli scienziati europei, trovarono immediatamente applicazioni e sviluppo. Quando le maggiori industrie metalmeccaniche europee contavano poche centinaia di operai, negli Stati Uniti l’industria produceva auto, biciclette, macchine per scrivere a decine di migliaia l’anno, occupando, ognuna, anche decine di migliaia di dipendenti. Quell’esposizione universale di Chicago sancì, nella pratica, il genio di Edison. All’inaugurazione ci fu uno sfavillio di luci come il mondo non aveva mai visto.
Ma fu un successo anche per Galileo Ferraris, al quale nel congresso di elettrotecnica fu riconosciuta la paternità del motore asincrono, oltre ai miglioramenti che i suoi studi avevano apportato a un altro apparecchio che sarà di grande importanza: il trasformatore. La principale rivista del settore scriverà di lui:
«Egli era il solo rappresentante dell’Italia nella Camera dei Delegati. Un fatto accaduto nella penultima riunione è indicativo della velocità e grandezza del suo intelletto. Un comitato che riuniva i migliori rappresentanti della Camera di varie nazionalità, era stato incaricato di formulare la definizione dell’unità di misura dell’induttanza (Henry). Tale comitato si incontrò ma non riuscì a concordare una definizione sulla quale tutti fossero d’accordo. Alla fine furono proposti due testi, dopo alcuni minuti di discussione il prof. Ferraris suggerì di cambiare in uno dei due testi, due o tre parole e questo pose la definizione nella forma finale da tutti accettata.»
Un mattino Galileo si presentò ai suoi allievi febbricitante, non riuscendo a continuare la lezione disse: «Signori la macchina è guasta, non posso continuare.» Morirà pochi giorni dopo, era il 7 febbraio 1897. Noi, giocando sulle leggi del Tempo, troviamo Galileo vivo e vegeto e a Chicago con Camillo. Appurato che il professore era l’inventore del motore elettrico, gli americani lo colmarono di attenzioni e, conoscendoli, probabilmente di proposte, di cui però Camillo non parla e quindi lasciamo la cosa nel campo delle supposizioni.