Nello stato di emergenza che stiamo vivendo, dettata dall’epidemia (sarebbe più corretto utilizzare il termine di “pandemia”) da Coronavirus, siamo tutti invitati a rispettare la cosiddetta “distanza di sicurezza”, sulla quale tanto si è dibattuto. 1 metro ed 80 centimetri, 1 metro e mezzo e, nella nostra battaglia quotidiana al Coronavirus il rebus sulla giusta distanza di sicurezza ha assunto, a volte, dei tratti quasi confusi ed un po’ schizofrenici. In una società, secondo me, sempre più improntata all’individualismo, si stenta quasi a credere che gli Italiani abbiano avuto difficoltà ad attenersi alla norma di mantenere le distanze fisiche dai propri simili, presupposto indispensabile per evitare la diffusione di un possibile contagio da Covid 19. Ma, in fondo, si deve, però, considerare l’aspetto tipico della italianità, fatta anche di abbracci e strette di mano nel salutarsi, ed allora si può dedurre che gli italiani abbiano incontrato più resistenze interne ad adeguarsi alle nuove normative rispetto, per esempio, ad un abitante del Sol Levante. In Giappone, tra l’altro, non è ritenuta buona educazione mangiare per strada o mentre si cammina, soffiarsi il naso in pubblico, guardare il proprio interlocutore negli occhi (al massimo è possibile farlo con lo sguardo diretto al suo mento ed alla sua fronte) e, soprattutto, toccare l’altro nell’atto del saluto. Insomma, allora sarebbero assolutamente più fortunati in questo momento i giapponesi, verrebbe da pensare, che, da sempre, nel momento in cui si incontrano per strada, devono evitare di baciare una fanciulla o stringere la mano al proprio interlocutore.
Ma tutta questa espansivita’ tipicamente italica, che ora, in tempi di Coronavirus, siamo stati d’un tratto costretti ad accantonare, corrisponde forse ad un sentimento autentico di solidarietà e vicinanza? Non vorrei essere pessimista, ma ritengo di no; così i flash mob che, in questi giorni, si sono susseguiti e si susseguiranno sui balconi, in cui si usano i mezzi più disparati, da quello canoro alla misurazione della luce con lo smartphone, sono, secondo me, semplicemente uno strumento per esorcizzare la paura individuale del contagio e della morte, ma non un elemento per dimostrare la vicinanza al nostro prossimo. Credo che, soprattutto, nelle grandi realtà urbane, in tempi di Covid 19, le realtà di solitudine ci siano ancora, come, se non più di prima. Non scompariranno, purtoppo, gli anziani che vivevano soli, magari nelle periferie delle grandi città e che rischiano ancora di morire abbandonati, gli stessi che, in passato, sono stati trovati morti nel loro appartamento dopo settimane, circondati dall’indifferenza dei vicini. Non è certo il Coronavirus a farci cambiare; al massimo ci induce a cercare strumenti per esorcizzare le nostre paure, per rafforzare i nostri egoismi, per rinchiuderci nel nostro “orticello”, non soltanto fisicamente ( come è giusto che lo sia in questo momento), ma anche metaforicamente, preoccupati a volte semplicemente a “monitorare” il nostro ambito di azione (ciascuno, giustamente, prendendo in consierazione le ripercussioni che questo contagio potrà avere sul proprio contesto professionale, dato lo stop forzato di quasi tutte le attività cui siamo stati chiamati). Sono i medici, il personale paramedico ed infermieristico, i volontari, coloro che oggi sono realmente impegnati, anche mettendo a rischio la propria vita, sul fronte, in trincea, nella cura dei pazienti affetti da Covid 19. Poi ci sono gli psicologi che offrono il loro sostegno, alcuni gratuito nei confronti del personale ospedaliero, altri utilizzando, per le sedute con i loro pazienti, anche strumenti, quali Skype, attraverso i quali la tecnologia oggi consente di ridurre le distanze. Ci sono poi professionisti che, dato il momento di emergenza, offrono tariffe scontate per le loro prestazioni professionali di psicoterapia.
Forse, però, in una società in cui da anni sono stati messi in discussione il valore e la centralità della famiglia, oggi, di fronte ad un’ emergenza come questa, ne paghiamo le conseguenze, ben più evidenti di quelle che subirono i nostri nonni nei tempi di guerra. Non solo perché il nemico da combattere è cambiato (divenendo invisibile e, proprio per questo, più insidioso) ma perché, all’epoca della seconda guerra mondiale, il valore ed il senso centrale della famiglia c’erano. Proprio quei social media che oggi noi invochiamo e ricerchiamo per porci maggiorememte in contatto con gli altri, in queste giornate di forzata solitudine, sono quelli che, come ben rilevava Il sociologo Bauman, nel corso degli anni hanno alterato il nostro modo di rapportarci al mondo esterno e, aggiungerei, anche alle persone amiche e, a volte, ai nostri stessi affetti. Forse, allora, quando la tempesta sarà terminata, non sarà stato vano un passaggio epocale, seppur purtroppo funesto, come quello del contagio da Coronavirus, almeno per far capire all’uomo contemporaneo che non è mai troppo tardi il momento per potersi riappropriare delle radici della propria umanità.