Un anno fa gli elogi nei confronti dei medici e degli infermieri, impegnati nella lotta contro il Covid19, si sprecavano. Bastava accendere la televisione o lo smartphone o dare un’occhiata alla carta stampata per vedere che in ogni telegiornale, programma, testata, post essi venivano definiti eroi. Addirittura sulla facciata del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, provincia diventata simbolo ed epicentro di uno tsunami incontrollabile, venne appeso un enorme manifesto in cui un’infermiera abbracciava l’Italia. La retorica aveva perfino superato i confini nazionali, indicando in un medico cinese il protomartire di questa improvvisata agiografia. Si trattava del dottor Li Wenliang, tristemente noto poiché, avendo per primo scoperto la nuova malattia, era stato screditato e poi zittito dalla polizia cinese. Subito dopo la riabilitazione, il coraggioso medico era morto a causa del coronavirus, contratto mentre cercava di salvare vite umane tra le corsie dell’ospedale di Wuhan. E vi ricordate gli slogan sbandierati sui medici cinesi, cubani, albesi, ecc… accorsi in aiuto della nostra Penisola? Ma, si sa, il nostro è un Paese dalla memoria corta. Innanzitutto, a quei tempi, in Italia, i sanitari erano stati assunti a tempo determinato e solo per la durata della crisi. Insomma, si trattava già per contratto di eroi con la data di scadenza. Una volta terminate le sostituzioni dei colleghi malati, molti si ritrovarono a piedi. E, quando la pandemia ha ricominciato a mordere a marzo, colorando l’Italia di arancione scuro, non ci sono stati sconti per gli operatori sanitari. La nota Bruschi è stata totalmente disattesa: niente figli dei key worker tra i banchi di scuola. Di conseguenza, infermiere, tecnici di laboratorio, impiegati e dottoresse si sono ritrovati a fare i salti mortali tra lavoro e didattica a distanza, con le richieste di congedo parentali azzerate per via dell’emergenza. È un peccato che di questa disorganizzazione nessuno parli: sembra sia meglio spostare l’attenzione su altri temi più di moda.