Il bell’articolo di Salvatore Vullo Silvio Pellico: il gentile poeta dagli occhi azzurri («Pannunzio Magazine», 23 marzo 2021), in cui si illustra con ampia e sagace informazione il nodo dei rapporti tra il Saluzzese e la famiglia Falletti di Barolo, mi ha indotto a qualche riflessione  più strettamente orientata sul Pellico scrittore, certo non ultimo nel quadro della civiltà letteraria italiana della prima metà dell’Ottocento. Se indiscutibilmente la sua fama è in specie affidata –  se ancora lo è – a due opere, Le mie prigioni (1832) e I doveri degli uomini (1834), di alto rilievo storico ed etico ma non ascrivibili all’area della scrittura creativa, artistica, è pur vero che Pellico si cimentò soprattutto  in veste di drammaturgo e di poeta, impegnato nella prima parte della sua vita come vivace propugnatore e combattivo teorico del nuovo verbo romantico con la fondazione e la direzione de «Il Conciliatore» (1818-1819) in compagnia di Giovanni Berchet, Pietro Borsieri, Lodovico di Breme, Ermes Visconti. Della decina di tragedie composte da Pellico (molte le abbozzate), per lo più di ambientazione medievale (ma ne registriamo pure di argomento biblico, come una Erodiade,  e scopriamo un Tommaso Moro, dedicata alla Marchesa di Barolo che ne suggerì l’argomento e andata in scena nel 1834), la prima, Francesca da Rimini, «dinanzi ad un gran pubblico […] fu un trionfo clamoroso e memorabile» (Ravello) al Teatro Re di Milano la sera del 18 luglio 1815 grazie anche alla straordinaria interpretazione dell’eccelsa Carlotta Marchionni, che condusse al successo altre tragedie di Pellico, tra cui la Gismonda da Mendrisio nel febbraio del 1833, e ritirandosi dalle scene ancora giovane nel 1840 volle salutare i pubblici italiani proprio con la Francesa. Un successo vivissimo, trionfale anch’esso, al Teatro Carignano di Torino riscosse nel 1832 l’Ester d’Engaddi, di argomento biblico e non priva di suggestioni dal Saul alfieriano, redatta, come l’Iginia d’Asti, nel corso della reclusione nei Piombi veneziani prima del trasferimento allo Spielberg. Il teatro di Pellico, forse ingiustamente, non gode oggi di soverchio credito, ma, a ben guardare, il panorama teatrale italiano di quegli anni, con l’eccezione delle tragedie del Manzoni, non presenta particolari valori alternativi o preferibili, non nella allora popolarissima drammaturgia storico-patriottica del repubblicano Giovanni Battista Niccolini, classicistica di forma ma romantica di patos e sentimenti, e nemmeno nelle prove teatrali di Ugo Foscolo o Vincenzo Monti, pregevoli da un punto di vista letterario ma carenti di senso drammatico e funzionalità scenica (Alfieri è pur sempre un modello irraggiungibile).Di spicco non elevato – occorre ammetterlo – è la produzione lirica di Pellico (anche nella forma di vasti poemetti celebrativi), ispirata, con intensi e sinceri sentimenti, a temi religiosi, familiari, amicali, storici, patriottici, civili, ma di modesta invenzione creativa che, come si suol dire, poco aggiunge alla gloria dell’autore. Dove invece Silvio lasciò un’impronta personale, se non altro sotto l’aspetto del gusto e della testimonianza storica, è nella composizione delle novelle in versi che amò definire Cantiche. La novella in versi, o novella poetica, sorella minore del romanzo storico (l’ «ampia narrazione», Flora) con cui sostanzialmente condivide soggetti ambienti personaggi, fu, insieme con la romanza, il genere più di moda nel parnaso dell’età romantica non solo italiano. Nel nostro Paese – oltre a Pellico – trovò i cultori più eminenti in Carlo Tedaldi-Fores, Tommaso Grossi, Bartolomeo Sestini, Giovanni Torti, Cesare Cantù, Luigi Carrer, Agostino Cagnoli, Felice Romani, Vittore Benzoni e per quanto concerne la “scuola calabrese” (valorizzata dal De Sanctis e costituente un mondo specificamente a sé) in Vincenzo Padula, Domenico Mauro, Giuseppe Campagna, Biagio Miraglia, Giuseppe Selvaggi. La tematica della novella in versi romantica investe (con rare eccezioni) il riscoperto Medioevo cristiano e cavalleresco, con i suoi ideali eroici e patriottici (ovvio quanto cauto e allusivo riferimento alla contemporaneità risorgimentale), non senza un giustificato ricorso a uno dei mezzi espressivi più distintivi della tradizione letteraria nazionale, cioè l’ottava rima – prevalente nelle novelle, anche se non poche si strutturano, e non a caso, sulla terzina dantesca, mentre Pellico preferì sempre l’endecasillabo sciolto – in quanto metro peculiare della “narrativa” poetica, dai cantari trecenteschi al Boccaccio, al Pucci, al Boiardo, all’Ariosto, al Tasso. Le cantiche di Pellico – lodate e apprezzate da Monti, Byron, Mazzini, Tenca – ignorano le inserzioni e le coloriture vistosamente “gotiche”, demoniache, orrorose, cruente – altrove pullulanti per il pervasivo influsso byroniano e nordico – segnalandosi per un nobile patetismo e una delicata vena malinconica e sentimentale, attente più alla psicologia e ai sentimenti intimi che agli effetti esteriori, improntate a una religiosità attiva e operosa: non ci sarà quindi da stupirsi se, come per le tragedie, l’ispirazione del poeta si concreta con particolare felicità nella delineazione delle figure femminili, schizzate con empatia e ammirazione profonde.Quattro cantiche – Tancreda, Rosilde, Adello, Eligi e Valafrido – furono scritte durante la prigionia nei Piombi, le altre dopo il rientro in Italia.                                          

Tancreda, una sorta di Giovanna d’Arco piemontese non esente da qualche debito schilleriano, incarna l’eroina titanica tipica di Pellico nell’assumere atteggiamenti che la letteratura del tempo attribuiva solitamente al maschio: insieme con il padre, il prode Eudo, esorta i Saluzzesi sfiduciati nella lotta contro il saraceno Alzore apparendo nella veste di apportatrice di un messaggio divino, giacché nella concezione di Pellico è la donna la creatura che, stilnovisticamente, più di ogni altra eleva a Dio.

Eugilde della Roccia (1834) –  altro degno esempio di slanci eroici e sublimi, di disinteresse e sacrificio –  disperata perché il marito si è recato come crociato in Terra Santa per onorare il nome della famiglia e non se ne vede il ritorno (punta anche da qualche umana trafittura di gelosia), al culmine di una momentanea follia parte di nascosto alla volta dell’oriente in cerca di Enrico, che trova prigioniero del sultano. Si offre a questi in riscatto del marito prigioniero, che a sua volta rifiuta il compromesso, e viene in fine lasciata libera col suo sposo dal sultano commosso da tanta abnegazione (ma su di lui ha avuto anche il suo peso, non a caso, l’intercessione della moglie). Presso un altro narratore, più incline al gusto prettamente romantico dell’esotico nello spazio (oltre che nel tempo), ci saremmo quasi di sicuro imbattuti in caratterizzazioni orientaleggianti, in concessioni coloristiche e fantastiche: nulla di tutto ciò in Pellico, a cui preme l’urgenza dei sentimenti portati su un piano di assoluta esemplarità, paradigmi insigni di etica e virtù. 

Degna di nota è la Rafaella, compiuta in veste definitiva nel 1837 e tra le cose più gentili di Pellico tutta pervasa di lieve poesia, che comprende anche una sorta di prologo in cui l’autore espone apertis verbis la propria poetica: «Oh bell’arte de’ carmi! Onde l’amore, / Il dolcissimo amor, che sin dagli anni / D’adolescenza io ti portava, e afflitto / Da lunghi disinganni anco ti porto? / Non per la melodia misteriosa / Sol de’ soavi accenti, e non per l’aura / Degli applausi sonanti entro le sale / De’ colti ingegni e non per la più cara / Delle lodi – la lagrima e il sorriso / Delle donne gentili. Innamorato, / O bell’arte de’ carmi, hai la mia mente / Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo / È per me la parola alta e pittrice / De’ secreti dell’anima, ed un misto / Di semplice e di grande e di pietoso, / Che nessun’altra bella arte con tanta / Efficacia produce. A te ne’ voli, / Cui fantasia ti trae, tutte concede / Sue grazie il vero; e tu, se Poesia / Inclita sei, quella ond’amante io vivo, / Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle / Sai di delicatissimo splendore / Che non punto le offende e non le muta, / E pur le fa per molti occhi più dive, / Più affascinanti l’intelletto» (vv. 1 – 25). L’eroina eponima riesce col canto e le sue melodie a mitigare le ire e a placare la vendetta dell’imperatore Ottone II: «Rafaella tremanti avea le bianche / Mani sovra le corde, e uscia tremante / Dal dolce petto il modulato suono, / E le guance arrossiano e di pallore / Si ricopriano, e il grande occhio fulgente / Errava intimidito, e s’atterriva / Del re incontrando il formidato sguardo! / Quel gentil trepidar della fanciulla / Di tutte grazie adorna, inteneria, / E maggiormente a lei tutti amicava» (vv. 405  – 414). Di particolare rilievo, in questa cantica, è una delicatezza paesaggistica per cui la descrizione naturale non vive di realtà autonoma intrecciandosi a motivi intimi in un trapasso dai dati sensibili all’interiore risonanza morale e sentimentale, come si può cogliere in questo tramonto, l’ora più cara al cuore romantico insieme con l’imminente notte: «Il sole iva all’occaso, e detto avresti / Ch’ei discendesse in mezzo al gregge umano, / Tutto affollato sulla immensa terra. / Quella vista, e la splendida vaghezza / De’ nugoletti occidentali, e il molle /  Nell’aere della sera innominato / Religioso incantamento, e in blandi / Fremiti ormai converso il fracassìo, / Ed a que’ blandi fremiti commista / La grata dissonanza or de’ nitriti / Che le briglie scotendo alza, presago / Della vicina stalla, il corridore; / Or di persone salutanti, o mosse / A subitanee risa, or d’allungato / Grido di chi da lunge appellar sembra / Con dolce affetto un qualche suo smarrito, / De’ trovatori commovea lo spirto» (vv. 228-244). La fusione delle sensazioni visive con quelle acustiche (i nitriti, le grida) creano un’atmosfera di «religioso incantamento» che agisce intensamente sull’animo umano intriso di serena commozione, secondo un’inflessione fortemente romantica che il poeta delinea con delicata finezza laddove la natura non è soltanto espressione di stato d’animo ma è a sua volta creatrice di sentimento.

Altre cantiche ancora offrono tratti non trascurabili. In Eligi e Valafrido si rappresenta il sodalizio tra amici legati da fraterno affetto che può estendersi fino al sacrificio della vita, secondo un impianto che riporta alla tradizione cavalleresca dove già nella Chanson de Roland  Rolando e Olivieri sono «l’incarnazione epica del ‘compagnonnage’ feudale» (Roncaglia). Si è detto che Pellico si astiene dalla rappresentazione esasperata del satanismo  orrido e macabro, ma non ignora certo la presenza e le opere  del Maligno sulla Terra, per cui nell’interessante Ebelino (1837) recupera un tipico topos medievale – la scommessa tra Dio e Demonio per il possesso di un’anima –  orchestrandolo appunto come conflitto tra bene e male, senza cedimenti compiaciuti a pitture fosche e brividenti, sondabile come problema morale, come esigenza etica (incontreremo comunque il supplizio cruento di un innocente punito ingiustamente, ma  accolto a buon diritto in Paradiso a differenza del suo perfido accusatore). Un altro tema prettamente romantico, quello del viaggio (talora con la variante dell’esilio), viene affrontato in modo alquanto originale in Roccello (1837) che con simpatica arguzia lo ironizza in una sorta di divertissement con ripieghi amarognoli. La novella si fonda sul contrappunto spesso piacevole tra l’entusiasmo un poco ingenuo dell’eroe eponimo, cavaliere saluzzese (lontano erede di Don Chisciotte?) che fugge la patria caduta nell’oscurità ed è disposto a veder meraviglie (poi regolarmente smentite dall’esperienza) in ogni altro luogo, e il suo scudiero Gilnero (un aggiornato Sancio Panza?), più maturo e saggiamente disilluso, che gli rammenta essere la terra natia preferibile a ogni altra: sarà proprio Gilnero a sigillare la morale conclusiva profumata di un equilibrato buon senso manzoniano. I Saluzzesi (1837), suddivisa in nove sezioni, è la più vasta cantica di Pellico e l’estremo commosso omaggio, circa questo genere letterario, alla sua amatissima città natale. Il racconto, denso di fatti e di avvenimenti e dove spicca la figura del santo abate Ugo, si riferisce al tempo della discordia tra i Visconti e Roberto d’Angiò e si conclude con la «cacciata degli stranieri» dalla città desolatamente distrutta: cacciata che comunque «diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s’estinse a que’ giorni con Roberto la gloria della fatale casa d’Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinata l’Italia» (così l’Autore in una sorta di premessa).

Le figure del Tasso e di Dante furono indiscusse icone della cultura romantica italiana, ma quella del Tasso (cantata da lord Byron) non si trasformò in argomento per novelle poetiche, al contrario di quella di Dante. Egli «diventò per il romanticismo il vate e il poeta primitivo, l’autore della lunga lirica (come dirà il più grande dei romantici, il Leopardi), ma ciò avvenne dal Foscolo in poi. E la coscienza della sua potenza geniale e positivamente primitiva (secondo lo schema foscoliano) nascerà […] con i preromantici stranieri (Bodmer e gli svizzeri) e con la sua inclusione nel canone preromantico barettiano, cesarottiano ecc. (Dante, Shakespeare, Milton, Ossian, Omero)» (Binni). L’immagine dantesca assunse la funzione di guida morale e spirituale, oltreché estetica ed artistica; divenne la più sublime espressione del genio nazionale; si identificò, quale supremo emblema di italianità, col risorgimento che stava fermentando. Nel 1837 Pellico – notoriamente uno dei più tenaci e assidui byroniani italiani – riprese, modificandolo, lo schema della Prophecy of Dante, composta nel 1820 dal poeta inglese per compiacere la contessa Teresa Guiccioli, nella cantica La morte di Dante, che fu la sua ultima. È anche la più fiacca, la meno scolpita, del resto viziata in partenza, come il poemetto byroniano, da un intento oratorio tendente a soffocare lo sprigionarsi della poesia. In punto di morte Dante assume più che mai l’atteggiamento del vate ispirato e del gran maestro di principi etici, conforme a una concezione – propria di vasti settori della nostra cultura romantica – della letteratura come apportatrice di virtù morali, come fattore eminenentemente educativo: «Splendeva all’Alighier l’ultima aurora, / E sulle coltri sue muto ed assorto / Ne’ pensieri santissimi ei giacea, / Munito già del Dio che alle fedeli / Alme è quaggiù ineffabile alimento» (vv. 35-39). Intorno al letto dell’agonizzante si affollano un frate, il nobile Guido di Ravenna, i figli di questi, cavalieri e altri personaggi. Raccogliendo le estreme forze, l’ «egro venerando vate» fa un bilancio della propria esistenza, della situazione italiana, perdona i fiorentini, condanna i prìncipi italiani, esorta i sacerdoti a dare il buon esempio. In fine, a un giovane che gli chiede quale sia la causa più giusta e santa da seguire, l’Alighieri risponde : «Non chieder tanto: il ferro / E la mente consacra al natio prence, / Al natio lido, e lascia a Dio l’arcana / Delle sorti bilancia: ogni stendardo / Che non sia traditor guida a virtude» (vv. 248-252).

Non si giudichi il poeta saluzzese da queste prove retoriche e oratorie, sarebbe un oltraggio alla sua luminosa onestà etica e civile. Consideriamolo pure, a conti fatti, uno scrittore minore, ma in relazione alla sua epoca pur sempre uno dei più eminenti tra i minori.