Il sacro circonda tutta la nostra esistenza. Ci sono momenti particolarmente solenni nella nostra vita nei quali percepiamo una sacralità naturale, come l’amore per il partner, la nascita di un figlio, la fruizione o la creazione di un’opera d’arte, e così via. Ci sono persone che trovano la possibilità di aprirsi al sacro da sole davanti a un capolavoro artistico oppure in due nell’abbraccio dell’amore erotico. In tedesco esiste una parola intraducibile, Zweisamkeit, che indica lo stato di due anime che si ritrovano facendo un alone di solitudine tra loro, isolandosi dal mondo e bastando a sé stesse. In questo stato scoprono la magia dell’amore che le allontana dal grigiore del quotidiano. Fuori dai momenti di sacralità, il mondo è solo banalità, giorni che passano in fretta. E le persone non sono altro che ombre danzanti, come cantava Shakespeare. Nelle letterature antiche e medioevali era frequente il motivo ricorrente del sic transit gloria mundi, così passa la gloria del mondo. Pensiamo anche al finale del Romanzo di Belisario, un testo in greco moderno datato nella sua prima versione al XIV secolo d. C., che riscosse un enorme successo nel primo secolo di diffusione della stampa e racconta le gesta di Belisario in Italia e la liberazione per opera sua delle terre ancestrali dei romani conquistate dai goti. Alla fine però Belisario venne ingiustamente punito da Giustiniano. Come a dire che ogni gloria umana non è destinata che a finire.
Il lento fluire del mondo senza intensità particolare è il mondo senza principio antropico. L’essere umano ha in sé un principio che lo spinge, a volte, a trascendere il quotidiano e a innalzarsi oltre in momenti di sacralità tutti particolari. Se vogliamo rifarci alla filosofia di san Karol Wojtyla, l’uomo ha un intelletto e una volontà che gli permette di innalzarsi sui condizionamenti della natura, dell’ambiente e della società. Estendendo questo discorso, possiamo dire che l’uomo si innalza anche dal grigiore del quotidiano e inizia a brillare di Assoluto. Per alcune persone il sacro prende la forma di una religione ben formalizzata, nei riti della quale il fedele percepisce la solennità, che così ha un aspetto ben preciso. Anche se tutte le persone sono peccatrici e hanno difetti evidenti spesso a tutti, il fedele riesce a percepire nei riti officiati da un ministro del culto, sebbene peccatore, una cifra sacrale che innalza la vita strappandolo dalla banalità del quotidiano. La chiesa cattolica ha espresso questo mistero dicendo che i sacramenti (come la comunione eucaristica, il battesimo, e altri) hanno una efficacia ex opere operato, cioè per il solo fatto di essere compiuti, e non ex opere operantis, cioè per opera del ministro, il quale quindi può anche stare in una condizione di peccato senza inficiare la validità del sacramento.
I peccati riguardano i ministri di tutte le religioni e ogni uomo sulla faccia della terra. Gesù dice che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro, bisogna fare attenzione alla trave che è nel nostro occhio. Il fatto stesso che un bonzo buddhista non si comporti bene o che un rabbino non creda, nulla toglie alla esistenza di Dio e alla sua efficacia rituale nella vita dei fedeli. Tutti noi siamo peccatori bisognosi della “misericordia” di Dio, parola che etimologicamente vuol dire “avere il cuore rivolto alle miserie” delle persone, in ebraico biblico si dice rachamim, che vuol dire “viscere materne”, come se Dio si comportasse quale buona madre per amarci e perdonarci nonostante i peccati della cattiveria e le colpe commesse per la fragilità della condizione umana. Qualcosa di simile si ritrova nell’induismo, espresso dalla parola sanscrita prasāda. In tutte le religioni Dio deve aver misericordia dei suoi figli!
Le varie confessioni religiose della terra hanno come obiettivo, tra gli altri, quello di comunicare il messaggio a quante più persone possibile, invece le sette scelgono gli adepti in modo esclusivo. Lo scopo più recondito del monachesimo cristiano, nato come eremitico con sant’Antonio Abate e come comunitario con San Benedetto da Norcia, è anche quello di trasformare una persona in un angelo. Lo scopo degli angeli sarebbe quello di lodare la Gloria di Dio, di pregare in favore di tutti e di vivere solo in funzione di questi propositi. Anche il monaco deve astenersi da ogni occupazione principale, se non quelle stabilite dalla Regola, e pregare incessantemente il Creatore. Il monaco è chiamato a cantare di continuo a Dio partecipando alla liturgia degli angeli in Cielo. Per questo san Benedetto consigliava ai monaci di farsi assistere dagli angeli. In parte questa vocazione è riservata ad ogni cristiano, anche se questi permane nel mondo: Paolo diceva che la nostra patria è nei cieli (Lettera ai Filippesi 3, 20: ēmōn gar to politeuma en ouranois uparchei). Le varie confessioni religiose della terra hanno anche l’obiettivo di difendere le persone dal Male, opera che nel cristianesimo è detta Redenzione. Il cristianesimo ha una precisa visione del Male. Esiste un essere vero e proprio che è responsabile di tutto il male dell’uomo, e che viene chiamato con il nome di Satana. Si tratta di un angelo superiore il quale non riconobbe la superiorità di Dio e quindi peccò di superbia, venendo quindi relegato all’inferno. Un terzo degli angeli del Cielo lo seguì nella ribellione divenendo quindi diavoli dell’inferno. Ora, per invidia dell’uomo che ha la benedizione di Dio, Satana e tutti i diavoli hanno il compito di rovinare l’uomo e la terra sulla quale vive. Lo fanno mediante la violenza e la persecuzione (come quando Satana uccise i figli di Giobbe o come quando martirizza i fedeli), oppure mediante la seduzione, cioè l’inganno, le false dottrine che corrompono le menti e spingono le persone a rovinarsi con le proprie mani commettendo il peccato. Satana e i diavoli spingono l’uomo al peccato il quale ha il duplice scopo: quello di danneggiare l’esistenza terrena (satana distrugge l’uomo con quello che gli offre) e poi quello di ledere l’amicizia tra uomo e Dio, facendo in modo che l’anima umana decida liberamente di rinunciare a Dio per l’eternità. L’inferno è la libera scelta dell’anima di non amare Dio. Dio ama talmente tanto angeli e uomini che decide di non costringerli ad essere fedeli. Quindi angeli e uomini possono decidere di rifiutare il progetto di Dio, come ha fatto Satana, come hanno fatto i diavoli e le anime che vanno all’inferno. In questo scenario la preghiera incessante della chiesa, cioè quella degli angeli e dei cristiani vivi e defunti (che non sono “morti” ma vivono in Cielo), serve a allentare le forze del Male contro le persone ancora nella prova terrena ed evitare in questa maniera la loro dannazione eterna. Molte anime vanno all’inferno perché nessuno prega per loro. La preghiera è sia la lode disinteressata a Dio sia la richiesta della sua misericordia nei confronti dei peccatori. Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, si è incarnato duemila anni fa per permettere la salvezza di tutte le persone. I Padri della Chiesa affermavano che ciò che si è incarnato è stato anche redento. Già agli albori del cristianesimo per gli gnostici faceva scandalo che Gesù Cristo si fosse incarnato, cioè fosse diventato uomo. Alcuni ripudiavano anche la figura di Maria: non potendo negare l’esistenza della Santa Vergine e del suo parto, che sta nei vangeli, gli gnostici dicevano che Maria è stata come un canale attraverso il quale venne Cristo, quindi Cristo sarebbe venuto per Maria, “attraverso” Maria, e non ex Maria, “da” Maria. Invece è fede cristiana ortodossa che Maria sia stata vera Madre di Cristo, quindi vera Madre di Dio.
È dal sangue di Cristo sparso sulla croce che viene all’umanità ogni grazia e ogni misericordia. Ma tutta la chiesa ha il compito di collaborare alla Redenzione operata da Cristo e lo fa con le preghiere, ma anche in altro modo. Vi sono tre vie, infatti, per amare le persone: con la preghiera, con le parole e con le opere. La vera gioia si ha solo se la si dona agli altri. La gioia di essere e sentirsi amati da Dio e di donare tanto amore agli altri, è un anticipo di Paradiso già su questa terra.
Nella Santa Messa avviene la riproposizione fino alla fine del mondo terreno del sacrificio di Cristo sulla croce per i nostri peccati. Durante la Messa il pane e il sangue visibili sull’altare restano solo come accidenti, in quanto la loro sostanza viene cambiata nel Sangue di Cristo, che, spezzato e versato, si immola di nuovo per l’umanità. Il sacrificio della Messa è rappresentato da Cristo stesso, il quale avendo un corpo spirituale, cioè risorto dai morti, non ha limiti di spazio e tempo, quindi può comparire nel Corpo e nel Sangue eucaristici durante ogni Santa Messa.
Durante la Santa Messa il sacerdote unisce al Sangue eucaristico, cioè il vino nel calice, alcune gocce di acqua. Questo sta a significare la nostra umanità che partecipa al sacrificio di Cristo per la Redenzione di tutto il mondo. I cristiani sono “sacrificio vivente”, thusian zōsan (Lettera ai Romani 12, 1): mediante la loro sofferenza partecipano a ciò che manca alla croce di Cristo e mediante la preghiera si uniscono al coro degli angeli per implorare misericordia a Dio per i molti peccati dell’umanità. San Pio da Pietralcina diceva che il mondo non è stato ancora distrutto dalla Giustizia di Dio per via della Santa Messa. I peccati degli uomini sono molti e sono gravi, soprattutto oggi: solo il Sangue di Cristo e l’offerta dei cristiani può ottenere misericordia da parte di Dio! Nei Mosaici del Corpus Domini di Bologna il Paradiso è rappresentato da un grande calice della Messa dentro il quale vi sono gli angeli e i santi. Solo grazie al dono della propria vita, è possibile riacquistarla in pienezza nei Cieli. Dice Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Vangelo secondo Marco 8, 35). “Offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti”, ōsei ek nekrōn zōntas (Lettera ai Romani 6, 13).
La Santa Messa riecheggia gli antichi riti semitici di alleanza con il sangue per il quale due persone stipulavano un patto di sangue per divenire fratelli, consanguinei, parenti. Nella Messa i contraenti sono Dio e il popolo cristiano, i quali si impegnano a divenire consanguinei. Come? Mediante il sangue di Cristo, nel quale vi è una partecipazione dei fedeli. Questa nuova natura che riveste i fedeli, mediante l’alleanza con Dio, cioè una natura divina, ha come obiettivo la sconfitta del peccato. “Quindi (Gesù) prese un calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti: questo infatti è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti in (eis) remissione dei peccati” (Vangelo secondo Matteo 26, 27-28). La preposizione greca eis dà al sintagma un valore finale: la Nuova Alleanza ha come scopo la remissione dei peccati.
Imitazione di Cristo IV, 9, 2: “Signore, ti presento qui sul tuo altare di pace tutti i peccati e le colpe mie, che ho commesso dinanzi a te e ai tuoi angeli santi, dal giorno che ho potuto la prima volta peccare fino ad oggi, affinché tutti insieme tu li bruci e consumi col fuoco della tua carità, cancelli tutte le macchie dei miei peccati e purifichi la mia coscienza da ogni colpa, e mi ridoni la tua grazia, che ho perduto peccando, concedendomi una totale remissione e ammettendomi misericordiosamente al bacio della pace”. L’invocazione del perdono dei peccati personali si intreccia a quella del perdono dei peccati di tutti gli uomini. “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati, dōra te kai thusias uper amartiōn. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo, kathōs peri tou laou. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne” (Lettera agli Ebrei 5, 1-4).
Per le tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, Islam) lo scopo della vita terrena è di unirci poi al Creatore, in un luogo o condizione detto da alcuni Paradiso. Sulla terra ci affanniamo per tante cose inutili, dovremmo pensare molto di più al Cielo!
Per l’induismo è la Liberazione (mokṣa) dal ciclo delle nascite e il ricongiungimento con il Brahman, il Principio assoluto. E’ possibile ottenere la Liberazione in cinque modi: osservando i riti induisti, attraverso lo yoga, attraverso la devozione (bhakti), attraverso la conoscenza, attraverso la teurgia. Ma anche attraverso la poesia. Il più grande livello di Poesia è quella che ha il Rasa, cioè il Sapore, vale a dire che suscita delle emozioni particolari che spingono l’uomo a unirsi definitivamente con il Brahman.
Nello specifico:
- Suoni e Significati costituiscono il corpo della Poesia. I fonemi (varṇa), cioè i suoni della voce, si combinano in vocaboli (śabda), e l’unione di un vocabolo e di un significato (artha) dà una parola (pada).
- Un raggruppamenti di senso compiuto di parole dà luogo alla frase (vākya).
- Tutto questo non è che il materiale grezzo della poesia. Per essere un’opera di alto livello, cioè Poesia, deve esserci una virtù che conferisce il Rasa. Questa virtù è data dai rīti, “movimenti”, cioè dai procedimenti stilistici del grande poeta, come le metafore.
Il Rasa così suscitato non coincide con la Liberazione, ma la prepara per quell’animo particolarmente disposto all’unione con il sacro.
Il principe moghul Dārā Šikōn compose nel XVII secolo un opuscolo nel quale evidenziava come tra Islam e induismo non ci siano contrasti di fondo. Egli esponeva ben ventidue collegamenti tra le due dottrine.
Per la cultura indiana la Parola, in sanscrito Vāc, è la prima manifestazione dell’Assoluto. Essa è oggetto di un vero e proprio culto, per questo non stupisce che si crede possa portare alla Liberazione.
Il dio Kṛṣṇa è venuto sulla terra a far conoscere il suo nome, la cui ripetizione porta alla Liberazione. Il più sorprendente mese dell’anno, è chiamato nei Veda Kartika, o “mese di Damodara”, che inizia verso la metà di ottobre. In questo mese si adora Dhamodara, Kṛṣṇa da bambino. Questo mese è molto favorevole alla consapevolezza di sé e alle pratiche spirituali. Ogni voto preso è mantenuto, ogni pratica spirituale durante questo mese ha un potere amplificato di pulire la polvere accumulata da tempo immemorabile nel nostro cuore. Si sostiene che il beneficio ricevuto dalle attività spirituali, o dal servizio devozionale, nel mese di Kartika, sia molte volte maggiore del beneficio ricevuto dalle pratiche nel resto dell’anno. Il Signore Supremo è particolarmente misericordioso in questo incredibile mese e distribuisce facilmente e generosamente la sua misericordia senza causa. E il modo più semplice per soddisfare il Signore in questo mese che gli è caro è offrirgli ogni giorno una candela o un fuoco di burro ghee chiarificato e cantare per lui l’inno Damodarastakam.
Se il culto induista della Parola ha una dimensione religiosa, esiste anche un culto della parola dalla dimensione meno formalizzata, più sacrale in senso lato. Un proverbio arabo dice che la bellezza di un uomo sta nel suo linguaggio. Dalla ricerca della lingua perfetta nella cultura europea agli studi di linguistica e filologia. Le lingue del mondo e i testi prodotti dall’umanità serbano preziosità e a volte anche segreti assai interessanti e ricchi di folclore. Ci sono studiosi che hanno speso l’intera esistenza terrena a ricercare il significato delle lingue e delle parole.
Sapir sosteneva che la parola in sé non si può definire semplicemente come la espressione di un concetto: è impossibile definire la parola da un punto di vista funzionale perché essa può essere tutto, da un singolo concetto (anche relazionale, come “di”) a un pensiero completo (come il verbo “dico”). Quindi la parola è semplicemente una forma, un elemento formale che accoglie quel poco o molto di elemento concettuale che il genio di una lingua voglia darle. È per questo che elementi radicali e grammaticali, che esprimono entrambi concetti isolati, possono essere comparati tra le lingue, mentre le parole non possono essere comparate tra lingue diverse. Pertanto Sapir concludeva che gli elementi radicali, gli elementi grammaticali e le frasi sono le vere unità funzionali della lingua. Gli elementi radicali e gli elementi radicali lo sono in quanto struttura minima della lingua, invece la frase come espressione esteticamente adeguata di un pensiero unitario. Allora cosa è la parola? È l’elemento psicologico, vale a dire l’unità di esperienza appresa nella realtà.
In linguistica esiste poi tutto un dibattito su cosa sia esattamente il significato di una parola. Ogni parola ha un aspetto esteriore (suono o forma grafica: è il significante) e poi ciò che questo aspetto esteriore indica (è il significato).
Generalmente quando ragioniamo, non consideriamo tutti gli elementi di un insieme, ma contempliamo degli schemi concettuali che raggruppano gli elementi per alcune caratteristiche che sembrano ricorrere spesso. Si parla di prototipi. In una classe di uccelli, il prototipo è l’animale con le ali. In una classe di corvi, il prototipo è l’animale con le ali e di colore nero. La mente ragiona per prototipi:
• Per economia cognitiva: la categorizzazione è guidata dall’esigenza cognitiva di ottimizzare l’informazione relativa al mondo esterno. Nel momento in cui immaginiamo il centro di una categoria e questo centro assomma in sé tutte le caratteristiche di quella categoria e non possiede invece nessuna delle caratteristiche di un’altra categoria, abbiamo il massimo dell’informazione su quella categoria. Quindi funziona da punto di riferimento per tutte le altre entità che vogliamo inserire in questa categoria. Massimo di informazione con il minimo sforzo.
• Per presenza di salienze nel mondo percepito: noi percepiamo la realtà come informazione strutturata, dove alcuni stimoli sono più salienti degli altri. Gli input che riceviamo dal mondo esterno non ci arrivano come qualcosa di caotico, ma come qualcosa di strutturato in cui ci sono elementi cognitivamente più salienti (da salio ‘saltare’, quindi gli elementi salienti sono quelli che balzano alla nostra attenzione). L’informazione che percepiamo non è caotica ma strutturata perché ci accorgiamo, a livello inconscio, che esistono delle caratteristiche che tendono a cooccorrere e contraddistinguono entrambe un’entità, correlano. Questa correlazione può essere sia in positivo che in negativo, con differenti gradi di probabilità. Per esempio categoria degli uccelli: ‘avere le ali’ e ‘deporre le uova’ è una correlazione positiva molto probabile. Viceversa, ‘avere le ali’ e ‘non volare’ è meno probabile, ma esiste (pinguino). Alcune correlazioni sono invece impossibili, es. ‘avere quattro zampe’ e ‘volare’. In questo senso sono correlazioni probabilistiche. La cosa più importante è che il prototipo, ad eccezione di quelle impossibili, ce le ha tutte: il prototipo avrà le ali, deporrà le uova e volerà. Avrà tutti gli elementi che caratterizzano la categoria in positivo. Le caratteristiche poco probabili contraddistingueranno i membri periferici.
Quindi una categoria è tanto più efficiente quanto più rispecchia le salienze percepibili nella realtà, massimizzando le somiglianze e le differenze interne ed esterne, cioè esprimendo il maggior numero possibile di attributi condivisi dai suoi membri e il minor numero possibile di attributi che condividono con altre entità (membri di altre categorie).
Questa teoria del prototipo risponde molto bene alle caratteristiche della vaghezza del significato e della possibilità di variazione linguistica anche all’interno di costruzioni sintattiche: ha avuto un grandissimo successo. L’unico problema è la natura del prototipo: la stessa Eleonor Rosch, una dei pionieri della teoria, ha messo in guardia da interpretazioni troppo rigide. Il prototipo non può essere identificato del tutto con il significato di una parola e ha trovato un buon compresso: il prototipo non è né un’entità reale né uno schema del centro concettuale di una categoria. Il prototipo non andrebbe identificato con un membro concreto della categoria o con un’entità mentale reale. Non esiste qualcosa come il prototipo (è un’etichetta linguistica di comodo), ma solo i giudizi dei parlanti riguardo al grado di prototipicità: gli elementi che individuiamo come prototipo non sono essi stessi il prototipo, ma lo sono le caratteristiche che noi attribuiamo a questi elementi in base alle quali riconosciamo in esse il prototipo.
La linguistica ha spesso dei grandi problemi e delle relative problematiche costituite dagli studiosi che cercano di risolverli. Facciamo un esempio. Il geroglifico egiziano non è ancora del tutto chiaro, ci sono solo ipotesi, quelle che si trovano nelle attuali grammatiche sono quelle della Scuola di Berlino. Tra i tanti problemi, gli studiosi discutono ancora sulla ridondanza del geroglifico. “Testa” si scriverebbe soltanto con due segni: T, P. Ma troviamo anche un segno in più, quello della testa, TEP, che non trova giustificazione fonetica. Perché esiste questa ridondanza? Linguisticamente la ridondanza serve a eliminare il rumore, cioè il disturbo del segnale. Funzionalmente la ridondanza del geroglifico egiziano è stata spiegata con il principio dell’horror vacui. Il geroglifico ha paura degli spazi vuoti, infatti si scrive in modo da formare un quadrato: per esempio, un segno verticale e un segno orizzontale non sono disposti uno accanto all’altro perché non formerebbero un quadrato, bensì uno sopra l’altro. Ora, nel caso della testa, si inserisce la figura della testa (con valore fonetico TEP) in sostituzione del segno T per un principio di armonia grafica (se ci solo la testa, si formerebbe una figura graficamente monca). A questo punto il segno isolato P non servirebbe, ma è conservato per l’armonia: e diventa un complemento fonetico. In genere se un complemento fonetico è seguito da una vocale non si scrive, invece se è seguito da una consonante viene scritto.
L’egittologia e la linguistica egiziana sono piene di problemi e problematiche. Facciamo un altro esempio. Di solito i volti rappresentati nella scrittura geroglifica hanno lineamenti più africani che vicino orientali: labbra carnose, naso schiacciato. Questo ha fatto ipotizzare qualche studioso che la scrittura egiziana sia nata nell’Alto Egitto, cioè nella parte meridionale dell’Egitto, quella più vicina alla Nubia e quindi alle stirpi negroidi. Il geroglifico conserverebbe traccia della antica origine.
Nella mente umana le parti del corpo sono molto importanti per indicare lo spazio, quindi le preposizioni nelle varie lingue traggono spesso origine da parti del corpo. In arabo la preposizione fi, “in”, significava in origine “faccia”, similmente alla preposizione egiziana hr. La vocalizzazione convenzionare di questa parola egiziana è HER. L’egiziano antico non scriveva le vocali, quindi non ne abbiamo in molte parole egiziane, allora gli egittologi hanno da tempo inserito una vocale convenzionale, la E. Oggi i linguisti egiziani hanno ricostruito (o ipotizzato) molte vocali originarie dell’egiziano antico: dovevano essere solo 3 (e curiosamente non c’era la E). La vera pronuncia della preposizione doveva essere allora HAR. Ma oggi gli egittologi sono soprattutto archeologi e non linguisti, quindi non conoscono la pronuncia scientifica di molte parole, allora nelle loro pubblicazioni continuano a inserire questa E convenzionale, anche in quei casi dove sappiamo quasi con certezza l’esatta pronuncia vocalica.
Abbiamo portato questi esempi per mostrare come la parola, specie quella antica, può essere oggetto di una specie di “culto” che si dispiega tra le pagine delle pubblicazioni scientifiche. Molti studiosi hanno speso la vita a studiare e cercare di capire le parole del presente e le parole del passato. E gli argomenti di solito sono talmente complicati che una sola vita non basta per porre fine a una questione. Sono secoli ormai che si discute perché la parola KA, lo spirito di una persona, si esprima in geroglifico con due braccia aperte. Sono stati scritti mari di carta. Per alcuni sono due braccia verso l’alto in preghiera per qualche dio. Per altri indica due braccia così aperte per portare un vassoio non rappresentato. Perché? Quando un egiziano moriva, il corpo ritornava alla terra; il ba andava nel regno dei morti in Occidente; il ka invece faceva tutte e due le cose, cioè stava sia nel regno dei morti sia accanto al defunto. Per questo nelle mastabe, in una stanza vi è il cadavere, ma nella stanza attigua vi è la statua del defunto, cioè il suo ka, che fa da mediatore tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi, quindi i parenti offrivano alla statua del pane, del miele e dei fiori. Si credeva che il defunto si nutrisse del cibo e del profumo dei fiori (l’usanza di portare fiori ai morti è di origine egiziana).
Ritornando al sacro religioso, gli indigeni tukano del Vaupes, detti desana, sono una tribù di circa mille individui nelle foreste pluviali del Vaupes nell’Amazzonia colombiana. Il loro territorio è il bacino del Rio Papurì ma si estende anche a sud fino al Rio Tiquié in Brasile. Per i desana il creatore dell’universo è il sole: page abé (padre sole). Questa personificazione divina non manca di debolezza morale (ha commesso incesto). È un dio antropomorfizzato che è passato da uno stato di purezza al peccato e poi nuovamente alla purezza. Il sole è sempre esistito. Era uno stato, la luce gialla, e da essa emanò la creazione senza un fermo proposito. Dopo aver compiuto questo atto il sole stabilì i cicli della vita e le norme secondo cui vivere. Il sole creatore non è il sole che vediamo noi oggi. Quel creatore oggi è invisibile perché poi si ritirò in Axpikon-dìa. Da lì invio il suo rappresentante eterno (quello che vediamo noi) e attraverso lui esercita il suo potere. La creazione è costituita da 4 elementi fondamentali che combinandosi fra loro compongono l’universo e la vita (terra, acqua, aria, energia). Il nostro mondo è formato da terra e acqua (terra maschile, acqua femminile). L’opposizione sessuale stabilisce un sistema di relazioni reciproche: I datori contro i ricevitori. L’aria sta a metà strada, è asessuato. È l’elemento di comunicazione tra il mondo e quello soprannaturale. L’energia sta sopra di tutto, è la caratteristica del sole, è un potere essenzialmente benefico e protettore che produce la vita. L’energia della creazione- procreazione è un potere maschile che fertilizza l’elemento femminile costituito dal mondo.
Per i desana l’universo consiste in tre zone cosmiche sovrapposte: Zona superiore o celeste, Zona intermedia (terra), Zona inferiore (paradiso). L’elemento strutturale più importante della zona superiore è la via lattea, concepita come una gran
matassa di fibre di cumare (astrocaryum) che galleggia in una corrente inarcata sopra la terra. Questa corrente si chiama vento matassa e viene dalla zona inferiore dirigendosi da est a ovest. Le fibre simboleggiano il seme virile. La via lattea è intesa come flusso seminale che fertilizza la zona intermedia. Questo principio di fertilizzazione ha carattere ambivalente. La via lattea è la zona della comunicazione fra esseri terrestri e soprannaturali e perciò è
identificata come la zona delle allucinazioni e visioni. Questa regione è dominata da Vixò-maxse. Il payé (sciamano) nei suoi stati di trance vi va per chiedere a Vixoò-maxse di fargli da intermediario con gli altri esseri. La via lattea però è anche dimora delle malattie. È un grane fiume in piene nelle cui acque galleggiano rifiuti in putrefazione. La putrefazione è la malattia e Vixò-maxse può canalizzare le acque verso la terra. Nella via lattea stanno le aquile vecchie che si alimentano di carogne portando via le malattie dalla terra. Vixò-maxse può causare sia bene che male. Nelle allucinazioni l’uomo può ottenere sia il bene che il male. Per i desana ogni inseminazione (cioè legato alla via lattea) ha il carattere di un contagio patogeno. L’atto sessuale è pericoloso in ogni circostanza. Alla via lattea si attribuisce il colore azzurro, intermedio fra il giallo solare e il rosso terrestre. L’azzurro per i desana è associato sia al cielo che alla putrefazione, al vomito, alle ferite. Il fumo azzurro del tabacco fa da comunicatore con la via lattea. Oltre la via lattea c’è la zona celeste in cui girano il sole e la luna. Scendendo tutti i giorni e giungendo al paradiso il sole perde la sua luce di fronte allo splendore del sole creatore. Lo stesso accade alla luna, che è solo una rappresentante della prima luna che assistette il sole nella creazione.
La zona intermedia (la terra) forma un solo piano nel quale si distingue appena il settore occidentale come una sua suddivisione interna. Questa regione è detta parte oscura, dominata dalla gente della notte. In questa zona hanno origine molte malattie poiché si accumulano molti residui patogeni.
La zona inferiore del cosmo è divisa in tre parti: l’elemento femminile (axpikon-dià), l’elemento maschile (axpikon-yebà) e un grande involucro che li ricopre (axpikon wi’i). La radice ax, axp,gaxp in lingua desana è molto importante, attorno ad essa si articolano concetti legati al sesso: gaxkì: pene, axpirì: seno, axpì: coca, axpikon: latte materno. La coca, come il seno materno, toglie la fame. Axpìkon-dìa letteralmente vuol dire fiume di latte. È il paese bagnato eternamente da una luce verde tenue, come le foglie di coca. Tale luogo è fertilizzato da axpikon-yeba, terra di latte. Entrambi sono racchiusi da axpikon wi’i (casa di latte), immagianato come una placenta. Lì vanno le anime dei morti, rientrando così nel paradiso uterino.
Il sole, come divinità e realtà che sta alle radici di tutto, si chiama go’ à mee (dio, forza suprema), go’à=osso + mee= il potere di produrre qualcosa. Il simbolismo desana opera a diversi livelli: metaforico: tacita comparazione, e uno più astratto legato alla procreazione. Al primo livello il nome si riferisce dunque all’osso, allo scheletro che sostiene la società. La divinità è un axis mundi, è stabilità. L’osso divino è paragonato anche a un tubo: è detto infatti pure ve’e go’à. Ve’e è una canna tubolare come quella dei flauti, che crea connessione fra la sfera divina di sopra e di sotto. Il di sotto è axpikon-dià e l’osso tubolare (la divinità) vi penetra verticalmente nella forma di un immenso fallo. Tra il mondo visibile e quello invisibile c’è una relazione sessuale. Fulmine è l’eiaculazione del sole che può fertilizzare la terra ma anche distruggere. Nel luogo dove cadono I fulmini gli sciamani cercano cristalli che vengono nascosti perché non causino malattie- la maraca dello sciamano contiene frammenti di cristallo che possono diventare agenti patogeni se introdotti nel corpo di una vittima. Il potere del sole costituisce un circuito chiuso a cui partecipa tutta la biosfera. Questo circuito ha una carica fissa di energia. L’uomo deve sottrarre
quindi solo la poca energia che gli serve e poi reintrodurla nel circuito. Qualunque azione umana produce effetti sulla natura, la quale agisce nuovamente sulla società.
Il circuito è chiamato bogà (corrente). Tale termine designa in generale l’effetto di un fattore causante. Implica un’idea di trasformazione e creazione, di contatto e comunicazione. La via lattea è mirunye bogà (vento-corrente). Essa mette in contatto e possiede il potere di portar via le malattie attraverso le correnti. Il bogà è un’energia percepibile attraverso I sensi, che si muove in un circuito. Alcuni animali “possiedono bogà” cioè furia, pericolosità (giaguari, spiriti della foresta). Il bogà ha due significati, uno buono, uno cattivo. Il gufo è il cattivo, rappresenta lo spreco del bogà. Spreco del bogà: diminuire l’energia totale senza nessun riequilibrio. Quando una persona vuol far male a una donna gravida, invoca la matassa nera (bogà nyi’i), un potere negativo che oscura la matassa gialla. Qualunque oggetto conico che contiene qualcosa si definisce pogà. Rappresenta la vulva. Il focolare è inteso simbolicamente come utero trasformatore, idea di trasformazione e di luce (anche persone che emanano energia luminosa come il payé) e si dice peamé bogà. Vivere e fare sesso si dice oxokariri bogà: idea di contatto che crea vita e di corrente, ciclo vitale. Il bogà è un concetto femminile. È il risultato di un’altra forza: tulàri, principio maschile complementare. Tulàri è forza, autorità, comando, potere di dirigere. Un payé possiede tulàri perché può dominare grazie ai suoi poteri. La corrente centrale di un fiume si definisce DEXKO TULARI BOGA: acqua-forza-corrente. Tulari è l’impulso, bogà il risultato (la corrente del fiume). Tularì è la foresta, I mammiferi, l’energia maschile. Bogà il fiume, I pesci, l’energia femminile. I due elementi insieme sono la fertilizzazione, la grande corrente che circola.
Nell’antico Egitto gli dei non sono sempre esistiti: i testi religiosi suggeriscono l’idea che possano nascere e morire, che i templi si costruiscano e abbiano una fine, così come il mondo. Non c’è un’opera unitaria egiziana che parli della teogonia, la storia deli dei ci è nota per frammenti e in maniera indiretta.
Gli egizi concepivano l’eternità in forma duale: c’è un tempo lineare e un tempo ciclico, il primo rimanda al passato, il secondo all’avvenire. Il dio demiurgo è colui che viene all’esistenza dopo il tempo ciclico e non scompare. Tutta la creazione era vista come il termine di un ciclo dopo il quale sorge un’altra creazione. Il demiurgo egiziano ponendo le basi di una creazione, la crea fragile perché l’increato continua a sussistere e si pone in maniera ostile verso il creato, e questo non per malvagità, ma perché la creazione ne restringe il potere.
Non sappiamo con esattezza quanti dei egiziani vi fossero. Il demiurgo siede accanto a un milione di sue creature. Nella lingua egiziana con “milione” si intende un numero infinito di creature, quindi anche gli dei sarebbero potuti essere stati concepiti secondo una logica infinita.
Gli dei egizi avevano un corpo. La forma divina creata dal demiurgo costituisce una globalità che non può essere colta perché costituisce l’essenza del dio. Ma può essere colta imperfettamente e indirettamente dalle proiezioni, kheperu, corrispondenti alla successione delle identità che il dio può assumere momentaneamente. Il kheperu fa in modo che il dio possa agire sul piano visibile proiettando una sua azione. Questa proiezione visibile è detta iru e fa in modo che il dio possa essere visibile agli umani.
Gli dei egiziani non erano rappresentati dagli antichi egiziani in un luogo ben preciso. Nei primordi si parlava di esseri che vivevano in alto (uccelli, astri) e esseri che vivevano in basso (uomini, animali). Gli dei facevano parte della prima categoria.
Gli dei agiscono fisicamente e verbalmente in maniera del tutto pragmatica. Il gesto e la parola divini, intimamente legati, procedono da un pensiero spontaneo totalmente elaborato a priori, al tempo stesso onnisciente e presciente, che dispensa dalla riflessione su ciò che è stato fatto e resta da fare. I pensieri segreti degli dei sono il “sapere intimo” che risiede nelle loro viscere. La totalità di ciò che è concepibile coincide con la totalità di ciò che è posto in essere dagli dei. Tuttavia il conoscibile e il noto non coincidono mai perfettamente. Gli dei hanno una conoscenza totalizzante di tutto, ma agli uomini non tutto è noto di ciò. Il tutto della conoscenza è presente nei libri di Thoth, ma essi non sono del tutto posseduti dagli uomini, che quindi devono ricercare incessantemente il sapere. A questo scopo Thoth lascia cadere dal cielo dei libri e altri li fa scoprire dagli umani abbandonati in camere misteriose, aiutandoli nella ricerca del sapere.
In egiziano antico con la parola sia si designa la capacità degli dei di conoscere istantaneamente gli avvenimenti e le loro ragioni profonde. Il sapere esiste nel cuore, ma esiste un organo ancor più profondo, le viscere degli dei, nelle quali dimora l’heka, un potere specifico che attinge all’energia vitale. Questo potere coincide con un sapere intimo e personale, diverso dal sia: sia è universale e può essere usato da tutti. Invece l’heka è un sapere pragmatico che serve a proteggersi e a avanzare nel mondo in maniera personale. È per esempio il vero nome della divinità, che è segreto, in quanto carico di quella energia misteriosa che, qualora scoperta, può far restare un dio in balia dell’avversario.
In questo scenario gnoseologico, Thoth si pone come l’intermediario tra il sapere totale e il sapere da conquistare. Thoth è sia il detentore della conoscenza totale (rekh), sia il detentore del sapere sia.
Bibliografia
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