Cinquant’anni fa, quando chi lottava per il cambiamento conosceva i suoi obiettivi, nel giro di sette mesi il parlamento varò due leggi di straordinaria importanza, la prima sul fronte dei diritti sociali, la seconda su quello dei diritti civili. Erano lo Statuto dei Lavoratori e il Divorzio. Da meno di un anno il primo uomo aveva messo piede sulla Luna, e tutto ci sembrava possibile. Mezzo secolo dopo ci siamo mangiati ogni idea di futuro. Le forze politiche non hanno il cambiamento nei loro programmi, non saprebbero verso dove e perché, e quindi non ne parlano, tutelando, sovvenzionando e garantendo il presente. Il futuro può aspettare: del resto, chi lo conosce? E così tutti hanno concordato di puntellare chi oggi produce, aziende e lavoratori, e di sussidiare chi ha perso il posto, o ha visto ridursi le entrate della sua attività. Sono attenzioni sociali importanti, nel solco della Cig e della Naspi, ma poi anche degli 80 euro, di quota 100, del reddito di cittadinanza. Ma insistono tutte sulla stessa platea, i lavoratori dipendenti e il sistema di cui fanno parte, nel bilanciamento tra sindacati e mondo dell’impresa. Solo che questo manto sociale avvolgente lascia interamente scoperte le categorie di coloro che un lavoro non ce lo hanno ancora, lo cercano, lo testano da stagisti, tirocinanti, precari. Per loro nessuna tutela, e infatti i soli posti che durante il lockdown sono saltati erano i loro. Di tutte le vertenze che abbiamo visto negli ultimi vent’anni, mai nessuna si è conclusa con l’impegno- oltre al resto – di assumere dei giovani. Miopia egoista di un paese che si mangia il futuro per nutrire il presente, e invecchia irreversibilmente
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