Valerio Ochetto scrisse il primo saggio organico sulla vita di Adriano Olivetti che un maestro severo come Edoardo Ruffini, in una delle nostre frequenti conversazioni canavesane, definì «una delle personalità più complesse, vive ed affascinanti degli anni ’50 non soltanto in Italia», dopo aver lamentato la mancanza di una approfondita ricerca storica sulla sua figura.

Ochetto, malgrado l’indagine scrupolosa che è alla base del suo lavoro, non ha tuttavia pienamente focalizzato il significato di quello che l’autore definisce «il vero Adriano».

Per capire la figura di questo imprenditore-intellettuale, assolutamente atipico nella storia italiana, sarebbe stato infatti indispensabile inquadrarlo in quella temperie politico-culturale del Canavese che ebbe negli Albertini, negli Olivetti, nei Ruffini e nei Carandini i suoi punti di riferimento.

Senza aver conosciuto quel mondo, schivo ed appartato ma non elitario, è difficile riuscire a ricostruire l’attività frenetica e l’appassionato impegno civile di Olivetti.

Olivetti morì ad appena 58 anni: una vita bruciata con febbrile intensità, malgrado le amarezze e i disinganni che dovette subire dopo tante speranze andate deluse.

Succeduto al padre Camillo, fondatore della Società “Olivetti”, alla guida dell’azienda, egli si rivelò un imprenditore d’avanguardia nel campo della razionalizzazione produttiva, adottando i nuovi sistemi appresi durante il suo soggiorno negli Usa che seppe però interpretare alla luce di un autentico umanesimo del lavoro.

Olivetti capì, fin dall’inizio, che esiste uno stretto rapporto tra fabbrica e territorio. Nel suo libro fondamentale L’ordine politico delle Comunità, pubblicato nel ’46, l’autore osservava: «La Comunità intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato di una determinata zona ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale priva di elementi di solidarietà». Ivrea e il Canavese divennero il “laboratorio olivettiano” ed ancora oggi in molti centri canavesani è rimasta l’impronta civile lasciata da Adriano e dai suoi collaboratori, malgrado le devastazioni successive.

Giovanissimo, sentì un’avversione quasi epidermica, nei confronti del fascismo. Se pensiamo alle denunce di Carlo Rosselli contro la «borghesia cieca e retriva» che aveva figliato le squadre d’azione di Mussolini, abbiamo chiara l’idea democratica, non priva di venature socialiste, di Adriano che, non a caso, nel 1926 partecipò con Parri e Pertini alla spericolata impresa, voluta da Rosselli, che mise in salvo il vecchio Filippo Turati, facendolo espatriare clandestinamente in Francia.

Quando Benedetto Croce lo conobbe a Pollone, osservò: «È uno dei più ingenui progettisti di grandi riforme sociali da mettere in atto con mezzi semplicissimi. Non credo che tra gli illuministi settecenteschi fosse un tipo pari. E dire che è un industriale e conduce bene la sua azienda molto rinomata». Dopo aver conquistato molte amministrazioni comunali del Canavese (lo stesso Adriano fu Sindaco di Ivrea), il movimento tentò la grande avventura delle elezioni politiche del 1958, riuscendo a conquistare un solo seggio che, poco tempo dopo, Adriano, deluso dalla vita di Montecitorio, cedette a Franco Ferrarotti. Si trattò di un grave insuccesso politico.

Durante il periodo della dittatura mantenne la sua ostilità al regime, distinguendosi come un grande imprenditore, anche se fu costretto a prendere la tessera fascista.

Ha scritto nel 1980 Luciano Gallino che di Olivetti fu amico: «Oggi che dell’industria si vogliono spesso sottolineare anzi tutto le bruttezze, va ricordato che fin dagli anni ’40 le fabbriche di Olivetti mostrarono che industria non è necessariamente sinonimo di nocività, di lavoro brutale, di degradazione estetica ed ecologica dell’ambiente». Sono passati degli anni ma il giudizio resta più che mai valido anche rispetto anche a certi fondamentalismi verdi rivelatisi inconcludenti. In modo lapidario lo storico di Camillo Olivetti, Tito Giraudo, ha così sintetizzato il programma di Adriano: «conciliare il progresso industriale con il progresso dell’uomo».

Fondatore del Movimento di Comunità, Olivetti profuse le sue migliori energie e la e la sua ricchezza personale per diffondere le idee che apparvero a molti come quelle di un mecenate sognatore.

Di fronte alla crisi dei partiti e alla scarsissima partecipazione dei cittadini alla vita politica si può fosse invece sostenere che le sconfitte di allora furono dovute al fatto che Adriano ebbe la capacità di anticipare il futuro.

I temi delle autonomie locali e di una democrazia reale, non inquinata dalla partitocrazia, si trovano delineati in modo netto e puntuale nei suoi libri e nei suoi discorsi.

Un altro dei tratti caratteristici dell’uomo (forse solo paragonabile a Filippo Burzio) fu la sua straordinaria capacità di coniugare insieme cultura tecnico-scientifica e vasti interessi umanistici.

Uno dei grandi dolori di Olivetti fu il tradimento della moglie Paola Levi, che si innamorò del pittore Carlo Levi di cui era divenuta anche la modella. Olivetti riconobbe la figlia nata dal rapporto tra la moglie e Levi; nel 1938 si separerà. Fu – mi disse Mario Soldati – molto amico di Levi «una pagina assai poco edificante per l’artista torinese».

Io ebbi modo di conoscerlo nel 1958 nel pieno della sua battaglia comunitaria e rimasi colpito, pur avendo appena 11 anni, dal fascino dell’uomo di cui non capivo i discorsi che, per la verità, mi sembravano molto noiosi: preferii infatti andare a giocare in giardino.

La sorte ha voluto che dieci anni dopo incontrassi sulla mia strada un altro Olivetti: Arrigo. Fu allora la scelta della mia vita perché quell’incontro significò “Il Mondo” di Pannunzio.

Arrigo Olivetti era molto diverso da come lo descrisse con tanta severità Ochetto. Tanto idealista e dotato di carisma fu Adriano, tanto pragmatico, laico, disincantato, ma pur tenacissimo nelle sue idee, fu Arrigo.

Anzi, in Adriano c’era persino uno spirito profondamente religioso che emerge in alcune sue pagine che meriterebbero un attento studio.

Come industriale rivelò capacità eccezionali. Non solo perché Olivetti pagava alti salari ed offriva ai suoi dipendenti servizi sociali avanzatissimi, ma anche perché seppe scegliersi i collaboratori giusti, preoccupandosi, oltre che della produzione, del design, della pubblicità e delle vendite: dal 1946 al 1958 le sue fabbriche in Italia aumentarono la produzione globale di 13 volte.

Sono dati su cui riflettere e che ci portano a pensare a lui come ad un grande imprenditore di livello europeo e mondiale.

Fu un uomo dotato di uno stile e di una raffinatezza umana ed intellettuale davvero eccezionali. Forse, anche per questo, egli è così poco ricordato.

Tuttavia il movimento di “Comunità” e la sua rivista sono state un vero semenzaio di intelligenze che spesso si sono sviluppate in senso diverso da quello olivettiano. Un esempio per tutti è rappresentato da Paolo Volponi che accettò la direzione della Fondazione “Giovanni Agnelli” di Torino nel 1975, dichiarando pochi mesi dopo il suo voto al Pci. Tanti olivettiani meno noti, ma più coerenti, dal filosofo Lodovico Actis Perinetti a Tito Gavazzi – che fu il primo assessore cultura d’Italia nell’olivettiana “città a misura d’uomo” di Ivrea – restarono un esempio limpido di intelligente capacità di sviluppare in modo originale, adeguandolo ai tempi, il pensiero di Olivetti.

Il mondo politico in particolare, confrontandosi con lui, avrebbe molto da perdere. La sua lungimiranza ma anche la sua concretezza lo resero un animale politico di una specie ormai estinta.

Ma se andassimo a rileggere le sue opere, ci accorgeremmo che tra le tante “utopie” generose del dopo Liberazione – pensiamo a Capitini – la sua fu contemporaneamente la più vicina e la più lontana a quella di Tommaso Moro: come fu detto, egli fu un utopista positivo, non un astratto e velleitario ingegnere di impossibili felicità.