In questi giorni, in cui la burrasca travolge gli alpini, il mio pensiero corre indietro nel tempo. Il cenone del 2019 si era da poco concluso che si iniziò a parlare di Covid. Mi sembra di risentire il radiogiornale delle 8:00 del 21 febbraio 2020: “Primo caso a Codogno. Si cerca il paziente zero”. Improvvisamente, una cortina di ferro era calata sul lodigiano. Poi era emerso un caso all’ospedale di Alzano Lombardo in provincia di Bergamo. Ma, in questo caso, non venne istituita nessuna zona rossa, malgrado nelle ore successive fossero rimbalzate sui social le foto dei mezzi militari diretti in val Seriana. La magistratura sta ancora indagando su quei fatti, che trascinarono la Città dei Mille in un baratro oscuro. Solo a Mapello, il comune in cui risiedo, i decessi nel marzo 2020 eguagliarono quelli di tutto l’anno precedente. I posti all’ospedale erano un miraggio. Amici e conoscenti mi riportavano le storie di chi aveva preferito passare le ultime ore di vita a casa vicino ai propri cari, piuttosto che morire in isolamento in un nosocomio. Ricordo ancora le campane a morto che suonavano ogni giorno, la paura di uscire a fare la spesa e il resto del mondo, a cui si poteva accedere solo tramite una finestra o uno schermo. Ma, tra tanti timori, ci aveva sollevato l’animo la notizia che gli Alpini erano riusciti a realizzare nel giro di pochi giorni un ospedale da campo alla fiera di Bergamo, completo di respiratori e tutto ciò che sarebbe servito a fronteggiare la pandemia. Mentre divampava la polemica sulle responsabilità regionali o statali alla base della nostra personale strage, gli Alpini avevano costruito un ospedale vero. Per aiutarli erano accorsi numerosi volontari e il miracolo si era realizzato. Quando penso al corpo degli Alpini, mi vengono in mente quei momenti. Oppure penso ai gruppi alpini presenti in molte comunità della mia provincia. Dove vivo le penne nere operano nell’ambito della solidarietà. Per esempio, hanno contribuito attivamente ed economicamente al restauro del nostro santuario mariano quattrocentesco, dove gestiscono anche un punto ristoro. E credo che il loro sia il miglior locale del mio paese, con il suo ambiente familiare e i suoi tavoloni di ferro immersi nel verde, a cui ci si può fermare a chiacchierare, leggere, giocare a carte o a mangiare un panino con il salame accompagnato a un bicchiere di gazzosa. Sarà per questo che le notizie degli ultimi giorni mi hanno molto colpita. Non perché creda impossibile che possa essere accaduto qualche fatto, che richieda l’attenzione delle forze dell’ordine e della magistratura. D’altra parte l’adunata aveva portato a Rimini e San Marino quattrocentomila presenze. Ma perché la colpa, mi hanno insegnato, è sempre individuale. Sarebbe quindi sbagliato far ricadere le colpe dei singoli su un intero gruppo. Invece, sembra che in questi giorni tutta l’ANA sia sotto accusa. Allora, se questo ragionamento fosse corretto, si dovrebbero vietare le manifestazioni, visto che spesso ci sono scontri con la polizia o, peggio, alcuni manifestanti danneggiano vetrine e auto. O si dovrebbe vietare la movida, in cui spesso si consumano molestie più o meno gravi, risse e accoltellamenti. Come mai in questi casi non si realizza una levata di scudi? Mi viene da pensare, mestamente, che pure in questo caso il vero obiettivo non sia la difesa di noi donne.
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