Nell’ultima settimana di gennaio, a Gerusalemme, in altri Paesi d’Europa e d’oltre Oceano, si è ricordato con numerose e significative  manifestazioni il 75° Anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa.

 Il campo di sterminio situato in Polonia, a 60 km circa da Cracovia, è diventato il simbolo della tragedia del popolo  ebraico, quasi annientato dalla furia nazista. Con l’apertura, il 27 gennaio 1945, delle porte dell’inferno di Auschwitz, la Storia ha scritto pagine grondandi di sangue innocente e di dolore immane.

E’ giusto e doveroso  ricordare, sempre, questo crimine mostruoso, senza incertezze o ambigui revisionismi e condannare con fermezza quanti si sono macchiati di queste infamie, che miravano, con sistematica pianificazione, ad eliminare un popolo intero.

In questo quadro di violenza cieca, in cui la Germania sembrava avvolta dalle tenebre di un folle e, nel contempo, razionale odio, non tutti i tedeschi obbedirono  al volere di Hitler e, rischiando la propria incolumità, salvarono dalle retate gli ebrei, li fecero fuggire dai ghetti e li nascosero.

Ricordare queste persone è  un atto di obiettività storica, perché, se fosserro state scoperte, e in alcuni casi è avvenuto, esse sarebbero andate incontro a un destino altrettanto crudele, senza possibilità di scampo.

E’ stato  Moshe Bejski,  Presidente della Commissione dei Giusti a Gerusalemme, a dare un volto e un’identità a questi tedeschi, che avevano deciso di ascoltare la loro coscienza invece di obbedire a implacabili ordini di morte e sopraffazione.

 Ebreo polacco, scampò alla deportazione, perchè  era  uno dei 1200 nomi che comparivano nella  famosa “lista di Schindler,” l’imprenditore tedesco protagonista  del    toccante e drammatico film di Spielberg”. Riconoscente verso colui che lo aveva strappato alla morte, insieme a centinaia di altri suoi compagni, Bejski si è battuto con determinazione per tributare grande onore a Schindler e ha dedicato tutta la sua vita a  cercare chi aveva tentato di salvare un ebreo dalla ferocia nazista.

 Nessuno doveva essere dimenticato, non gli importava che fossero persone perfette o degli eroi, e a lui si deve  anche la creazione del  “Giardino dei giusti” sulla collina di Gerusalemme, dove ogni albero piantato ricorda il nome di un “Gentile” che aveva aiutato il suo popolo.

 Solo conservando “la memoria del Bene”, così pensava, si poteva offuscare il Male e dare una speranza per gli anni a venire alle nuove generazioni.

 Tra i 14.000 salvatori di ebrei rintracciati in ogni parte del mondo, Bejski trovò qualche centinaio di tedeschi, non solo semplici cittadini o religiosi, ma anche uomini  che avevano indossato la divisa nazista o che avevano ricoperto cariche importanti sotto la dittatura di Hitler.

Dopo la guerra, non fu facile per questo instancabile ricercatore del Bene ricostruire il passato di questi uomini, attraverso testimonianze, documenti, fotografie, lettere, interviste. Molti di loro preferivano tacere o per modestia, sensi di colpa, vergogna; altri millantavano gesta, che in realtà non avevano compiuto oppure lo avevano fatto per uno scopo non certo nobile.

Altrettanto arduo fu convincere la maggior parte dei membri della Commissione, molto resttii a conferire il titolo di “giusto” ad un tedesco.

 Bejski  non si lasciò scoraggiare dagli innumerevoli rifiuti e proseguì nella sua estenuante ricerca. Grazie a lui, vennero alla luce i nomi di tanti  cittadini del III Reich che  non avevano dimenticato la pietà e la generosità verso i loro simili e agirono con coraggio e umanità.

 Ripercoriamo  qualcuna delle loro storie.

Eduard Schultze era un imprenditore con migliaia di operai ebrei alle sue dipendenze; in occasione di un incontro in Slesia con ufficiali nazisti venne a conoscenza del piano di eliminazione degli ebrei con il tristemente famoso  Zyklon B,  che sarà appunto usato nelle camere a gas.  Sconvolto dalla notizia, si adoperò per far conoscere all’estero questo perverso progetto e consegnò in Svizzera ad un suo amico ebreo una lettera con tutti i dettagli, esortandolo ad avvertire i responsabili delle comunità ebraiche. Queste informazioni furono  inviate anche ai  governi inglese e americano, che reagirono però  con molta diffidenza e incredulità, ritenendo  infondate tali voci.

L’industriale tedesco  aveva chiesto di rimanere anonimo per timore di rappresaglie alla sua famiglia o di essere fucilato per alto tradimento, e anche dopo il conflitto volle restare nell’ombra. Soltanto negli anni ‘80, Bejski  rintracciò il suo nome, ma troppo tardi perché  Schultze era già morto e così  gli fu dato postumo il titolo di “giusto”.

Particolarmente difficile per Bejski  fu far accettare alla commisione ebraica l’onorificenza ad un tedesco con il passato di nazista e che aveva aderito alle SS.

 Georg Ferdinand Duckwitz, convinto seguace di Hitler, era delegato per gli Affari marittimi dell’ambasciata tedesca a Copenaghen.

 La Danimarca era stata occupata dalla Germania agli inizi della guerra; vi risiedevano 7200 ebrei che vivevano integrati e in pace con il resto della popolazione danese.   Duckwitz, nel 1943,  venne a conoscenza dell’ imminente deportazione di tutti  gli ebrei; grazie alla sua carica, tentò in tutti i modi di scongiurare tale pericolo, prima contattando il ministro degli Esteri tedesco, poi recandosi in Svezia per chiedere aiuto se la deportazione fosse realmente iniziata.  Si rivolse anche a due importanti politici danesi e si premurò di informare i massimi esponenti  ebrei, i quali però  all’inizio stentavano a credere alla notizia, perché sembrava altamente improbabile. La situazione, però, in seguito precipitò; quando iniziarono le retate, tutto il popolo danese, eroicamente, si prodigò per nascondere gli ebrei  e farli salpare poi  per la Svezia, dove trovarono accoglienza e riparo.

Il diplomatico tedesco, che era stato scoperto e accusato di tradimento, fu costretto a fuggire per non essere fucilato dalle SS.

 Bejski riuscì a fargli  ottenere il titolo di “giusto”, perché  egli aveva riscattato il suo passato mettendosi dalla parte delle vittime.

 Particolarmente controverso fu  invece  capire  se Alfons Zundler, soldato delle Waffen- SS, avesse agito per reale compassione o per intenzioni piuttosto subdole, quando salvò ad Amsterdam decine di donne dalla deportazione nei campi di sterminio.  

Zundler era sorvegliante di un campo di raccolta di 50.000 ebrei in attesa del trasferimento ad Auschwitz. Alcuni sopravvissuti testimoniarono in suo favore, sottolineando il suo aiuto concreto durante le retate e la sua collaborazione  con l’organizzazione clandestina ebraica.  Altri lo accusarono di corruzione e di richieste di prestazioni sessuali alle donne  in cambio della libertà.

 Essendo il caso  ambiguo, non gli fu conferito il titolo di giusto, ma Bejski volle inviargli una lettera a nome della Commissione in cui si riconosceva positivamente il suo operato.

Kurt Gerstein, anche lui appartenente alle Waffen-SS, fu un altro caso particolarmente delicato, perché egli era il responsabile dell’ acquisto  e  trasporto del   famigerato  Zyklon B.

Per il suo incarico, Gerstein ebbe modo, al campo di Belzec, di assistere personalmente all’atroce morte di oltre 5000 ebrei uccisi nelle camere a gas e il giovane SS ne fu letteralmente sconvolto.

 Decise quindi di  far conoscere all’estero  la terribile sorte degli ebrei nei lager nazisti. Cercò di mettersi in contatto con svedesi, inglesi, personalità della Chiesa protestante e del Vaticano, ma inutilmente. Si trovò davanti un muro d’incredulità o impotenza.

Nonostante avesse fatto sotterrare una grande quantità di Zyklon B, con la scusa del suo deterioramento,  per non farlo utilizzare, continuò però il suo spregevole lavoro e, alla fine del conflitto, accusato di essere un criminale di guerra, si impiccò in cella.

Kurt Gerstein fu un uomo coraggioso che aveva combattuto a modo suo i più efferati strumenti di morte o uno dei tanti, troppi, corresponsabili dei crimini nazisti?

 Il tribunale dei giusti di Gerusalemme, anche se si alzarono più voci in sua difesa, non ritenne il nazista meritevole del titolo,  perché era stato un esecutore di ordini spietati, senza opporsi.

Wilm Hosenfeld, ufficiale della Wermacht, invece è il clemente e sfortunato tedesco, il cui altruismo e coraggio sono narrati nel famoso e struggente film di Polanski “ Il Pianista”.

 Se il  celebre musicista polacco Wladyslaw Szpilman riuscirà a scampare alla morte, lo dovrà proprio a quel soldato, insegnante nella vita civile, che durante l’occupazione della Polonia aiutò molti polacchi ed ebrei, fornendo loro un lasciapassare o salvandoli, con svariati pretesti, dalle esecuzioni sommarie. I suoi diari, in cui narrava di  quel tragico periodo, furono inviati alla moglie, prima della disfatta tedesca, e contribuirono a ricostruire la  sua personalità e i suoi ideali di giustizia e rispetto per il prossimo.  I russi lo catturarono e morì dopo 7 lunghi anni di dura prigionia in un campo a   Stalingrado nel 1952,  torturato e picchiato dagli ufficiali sovietici, perchè non credevano alle sue affermazioni di aver salavato dalla morte un ebreo.

Wilm Hosenfeld,  nel perseguire il Bene, contribuì come altri suoi compatrioti a ricordare al mondo che c’erano anche tedeschi, che  avevano scelto di mantenere alta la loro dignità di uomini, opponendosi all’odio indiscriminato e alle efferatezze perpetrate.

E’ scritto nel Talmud: “Chi salva una vita, salva il mondo intero” e loro lo hanno fatto.

Luisa Cavallo