Si è da pochi giorni  conclusa a Grinzane Cavour la XXI Asta del tartufo bianco d’Alba che raggiunge ad ogni edizione cifre da capogiro per l’aggiudicazione dei “pezzi” più significativi della ricerca. Magnati e ristoratori da piazze internazionali si contendono  il tartufo più grande  in un’ avvincente gara che porta alle stelle le quotazioni legate alle dimensioni dei tartufi. Il clamoroso lotto finale, del peso di 900 grammi, è stato conquistato da un imprenditore di Hong Kong per l’incredibile cifra di 100.000 euro, portando a quasi 500mila euro il ricavato complessivo  dell’Asta benefica. Cosa attribuisce a questo tardivo frutto della terra, valori e significati così incredibilmente apprezzati sin dalle epoche più remote? Certamente il fatto di essere un’autentica, e squisita,  stranezza naturale: nasce e  si sviluppa sotto terra, in una molteplicità di pezzature in base ai terreni ospitanti, operando un mutuo scambio di elementi con piante simbionti (querce, pioppi, carpini, salici), ma non è un tubero, è infatti un fungo ipogeo, ma del fungo non ha né forma né tantomeno l’incredibile profumo, anzi, è sostanzialmente profumo,  di complessa definizione, ma tanto persistente e stimolante da suscitare ed evocare imprevedibili  seduzioni a tavola e non solo. La rarità inoltre: ci sono annate, quelle siccitose, in cui la raccolta è scarsa e i prezzi, comunemente già stratosferici ( mediamente dai 1.500 ai 3.000 euro il kg) raggiungono cifre iperboliche, così da garantire a pochi abbienti palati la grazia dell’assaporamento. Infine l’alone di  mistero che circonda la sua  notturna ricerca da parte di trifolau in compagnia di cani, un tempo maiali, che vanno alla cerca solitari, in tutta segretezza  nelle fitte tenebre e soprattutto  nelle notti di luna piena, così da non abbisognare di luci artificiali. “Il tartufo” scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” “è un essere misterioso che rende misteriosi anche gli uomini nell’andarne a caccia” tra finte rincasate pomeridiane e ingannevoli sortite notturne in compagnia solo del fidato meticcio, nel tempo in cui la terra si appresta al riposo invernale. Tanta originalità ha destato nei millenni curiosità, sviluppato ipotesi   mitologiche e ricerche scientifiche  e nel contempo esaltato – o respinto – i palati di ogni epoca, in un inebriante rapporto di fascino, gusto, ricercatezza.Per Alexandre Dumas, fare la storia del tartufo, scrive nel suo Le grand dictionnarie de cuisine 1875, “… sarebbe come intraprendere quella della civilizzazione del mondo”: testimoni muti del passaggio dei grandi imperi antichi, scomparsi e negletti nel corso delle invasioni barbariche per riapparire gloriosamente  nel XVIII secolo. Il Centro Nazionale di Studi sul Tartufo con sede ad Alba  ci offre informazioni storiche e tradizioni locali: conosciuti ed apprezzati quasi certamente già dai Sumeri, considerati “cibo degli dei” dai Greci che ne  attribuivano l’origine a fenomeni atmosferici: piogge, tuoni e fulmini secondo Teofrasto allievo di Aristotele e Plutarco di Cheronea; definiti dall’erudito Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia  “callo della terra”, per l’impossibilità apparente del tuber di vivere senza radice alcuna, non potendosi dire a suo avviso se fosse altro da terra. Consigliati da medici come Galeno, inseriti dal gastronomo  Apicio nel suo De re coquinaria tra le portate più ricercate e costose, osannati  dal poeta  Giovenale che ne fu  infatuato al punto da affermare che fosse preferibile la mancanza di grano piuttosto di quella dei tartufi, ipotizzandone l’origine dal fulmine di Giove scagliato nel ventre della Madre Terra, da cui sarebbero derivate le virtù che lo rendono così prezioso al palato e vieppiù quelle afrodisiache tanto congeniali al padre degli dei! Cibo del demonio nel Medio Evo, ma nel contempo autentico propiziatore di voluttà, come apprendiamo da Eros e Tartufi di Giordano Berti, che prende in esame trattati di medicina, consigli di speziali e alchimisti e la stessa produzione  letteraria dell’epoca che tramanda la credenza  delle virtù afrodisiache del tartufo, la sua fama si afferma e diffonde nel Rinascimento, laddove una cucina ricercata e preziosa rilanciò il tartufo presso le corti e le tavole nobiliari, conquistando il primo posto tra le pietanze più ricercate e raffinate. Il tartufo nero pregiato apparve sulle mense dei signori francesi tra il XIV ed il XV secolo, mentre in Italia in quel periodo si stava affermando il tartufo bianco. Dal Cinquecento si moltiplicano gli studi e i trattati che ne indagano l’origine e le caratteristiche. Alfonso Ceccarelli, medico e naturalista umbro, nell’Opusculus de tuberis (1564) descrive  il suo aroma come una sorta di “quinta essenza“, aura misteriosa che esalta la mente, ma è il Settecento il secolo del trionfo degli studi: nel 1780 il medico piemontese Vittorio Pico classifica per primo il tartufo bianco che da allora è noto come Tuber Magnatum (ossia dei “magnati”, persone abbienti) Pico e nello stesso anno il naturalista polacco Michel Jean Compte de Borch  pubblicò “Lettres sur les truffes du Piemont“, studio dedicato interamente al tartufo bianco del Piemonte, descritto come il più profumato, aromatico e pregiato. La prima opera sistematica sui tartufi fu pubblicata a Milano nel 1831 per merito del naturalista dell’università di Pavia Carlo Vittadini che nella Monographia Tuberacearum descrisse 51 specie di tartufi, mettendo così le basi scientifiche dell’”idnologia”. Le sue ricerche furono proseguite dal francese  Louis Tulasne che scopri l’apparato, il micelio, da cui il tartufo trae sviluppo  e nel 1892 Gaspard Chatin lo inserì definitivamente nella famiglia delle Tuberacee. Quando Anthelme Brillat Savarin scrive nel 1825 La fisiologia del gusto, a Parigi la fama e la passione per i tartufi è alle stelle; per il grande gastronomo è il “diamante della cucina” in grado di evocare nei due sessi ricordi golosi ed erotici; per Rossini è il “Mozart dei funghi”; per Napoleone glorioso afrodisiaco per le tenzoni amorose. Da allora e per tutto il Novecento le ricerche scientifiche e tematiche si susseguono, così come la fama e l’apprezzamento del pregiato “tuber” sulle tavole dei ristoranti e degli appassionati estimatori. Autentico e brillante “padre” della fortuna e della fama del tartufo bianco, da lui definito “d’Alba” , fu Giacomo Morra che lo trasformò negli anni Trenta del secolo scorso in oggetto di richiamo turistico e gastronomico, grazie anche all’originale idea di  inviare ogni anno a personaggi famosi a livello internazionale un pregiato tartufo: Harry Truman, Winston Churcill, Marilyn Monroe…A noi, golosi contemporanei, questo tesoro tardivo continua a regalare infinite sfumature di gusto, tante sono le sue proprietà e proposte in cucina,  tante sono le varietà: delle nove ammesse al commercio, due prevalgono per eccelsa qualità e fama internazionale: il Tartufo bianco e il Tartufo nero. Il Tuber Magnatum Pico o tartufo bianco  è considerato universalmente il  più pregiato ed apprezzato per il suo profumo inconfondibile e le sue inestimabili doti culinarie. Sue zone di elezione sono le Langhe, con epicentro la città di Alba, il  Monferrato, e Moncalvo il centro più noto dove la fiera in suo onore si svolge ininterrottamente dal 1594, gli Appennini di  Marche, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Molise e Campania. Per Giovanna Baldini, autrice di “Un diamante sporco di terra” è l’autentico fiore all’occhiello della gastronomia italiana ed è certamente il suo profumo, inafferrabile  sostanza fonte di infinite suggestioni, a rappresentare, ben prima del gusto, il suo fascino indiscutibile: toni odorosi che ricordano vagamente il formaggio grana, sentori agliacei, aromi fungini, spezie e metano, un bouquet da intenditori complesso e armonioso. Proprio per la difficoltà di definirlo e  di  coglierne l’anima, il noto chef Carlo Cracco ha parlato di “Araba fenice della gastronomia internazionale, utopia dei sensi”. E’ perfetto se consumato crudo o su tiepide pietanze delicate che ne esaltino tutti i complessi aromi, anche con pochissimi grammi per porzione, ed è magnificenza al palato quando incontra i vini giusti in abbinamento. Quali vini? Spumanti, bianchi e rossi, aromatici e persistenti, dal gusto setoso e dalla struttura mai eccessiva, che non devono sovrastare la delicatezza e  i sapori delle portate. Perfetti gli abbinamenti regionali, ma la fantasia del gourmet può esplorare nella Penisola i vini più  soddisfacenti in un ventaglio di gusto e stile. Nella tradizionale cucina piemontese un antipasto imperdibile è la carne cruda con tartufo bianco: poche pregiate scaglie per un accostamento esaltante. L’accordo con il vino sarà con un bianco di media struttura, dai vividi profumi, come un gratificante  Chardonnay delle Langhe, un Gavi o un Albarossa  monferrino giovane, succoso e persistente. Con l’uovo al tegamino e tartufo bianco, vera e propria accoppiata “magica” ineguagliabili le bollicine di un fresco e sapido spumante  Alta Langa Metodo Classico con lunga permanenza sui lieviti, per prolungare i sentori del tartufo  con le tipiche note di fragrante mineralità  del vino che si insinuano piacevolmente nel sapore delicato, dolce,  ma distinguibile  dell’uovo. Altra preparazione in cui le varie componenti trovano accordo vincente  sono i tajarin (tagliatelle) all’uovo e tartufo bianco. Le sensazioni olfattive dei condimenti si esaltano con le note speziate del tartufo e richiedono gli accenti minerali e gradevolmente  sapidi  di un Timorasso Colli Tortonesi o i profumi decisi di un Roero Arneis o, per chi predilige i rossi, una Barbera d’Alba fruttata o un Dolcetto morbido e beverino.Il tartufo nero pregiato invernale o Tuber Melanosporum Vittadini, più noto come Tartufo di Norcia  o Truffe du Périgord, è una delle specie più preziose e prelibate. La sua storia è più internazionale rispetto a quella del tartufo bianco essendo il più conosciuto e diffuso al mondo: Umbria in primo luogo, Molise, Marche, Spagna, Bulgaria, Croazia e in quantità minori in tutta l’Italia settentrionale. Il suo profumo rispetto al bianco è meno pungente, fruttato, lievemente speziato con ricordi di humus e muschio, un’aromaticità delicata che lo ha fatto definire tartufo dolce. Ha eccezionali doti culinarie in quanto i suoi aromi non si alterano con il calore e lo rendono quindi adatto anche a cottura, pur essendo ottimo anche da crudo. I primi sono i piatti più indicati per far esplodere le note dolci  e speziate del Melanosporum: con il  risotto al tartufo, ricco di aromi dei vari ingredienti, sicuramente vincente  l’abbraccio sensoriale con un Pinot nero, un Vino Nobile di Montepulciano di media evoluzione, un Montepulciano d’Abruzzo o, tra i bianchi, un Verdicchio dei Castelli di Jesi, una Vernaccia di San Gimignano. Con la fonduta di formaggi, la complessità sensoriale  della preparazione  si scioglie letteralmente a contatto del tartufo nero e può essere esaltata da un vino dai  sentori intensi a livello olfattivo e con bouquet ampio a livello gustativo: un Rosso di Montalcino di giusta tannicità,  un Barbaresco equilibrato e  principesco. E con un appetitoso arrosto tartufato? Occorre perdersi nella saporosità generosa di un Brunello di Montalcino, di un Sagrantino di Montefalco, di un Aglianico evoluti. Nel corso di questa esposizione abbiamo accuratamente escluso i denigratori del tartufo – che non sono così poco numerosi – ipersensibili o intolleranti alle tipiche note penetranti e sulfuree di “metano”, basti pensare all’opinione espressa da Isabel Allende nel suo  Afrodita  definendoli “funghi insignificanti che maiali e cani allenati annusano e dissotterrano…il loro è un odorino di aglio e sudore che ricorda la metropolitana di New York”. Del resto, si sa, così accade ai caratteri dotati di forte e incomparabile personalità: o li ami o li odi, nessuna mezza misura. Noi abbiamo da tempo deciso  da che parte schierarci.