Che il regionalismo italiano vada rivisto appare oramai ineludibile. Diventate luogo di corruzione, sprechi, malaffare e inefficienza, le Regioni stanno dando il peggio di sé anche in questa terribile epidemia, dall’approvvigionamento di tamponi e mascherine un anno fa alla gestione e alla somministrazione dei vaccini ora. È infatti mancata un’organizzazione unitaria che impartisse la linea e le priorità da cui partire. Sono ora sotto gli occhi di tutti i ritardi, le disorganizzazioni, le difformità: ognuna sta procedendo in ordine sparso. Alcune hanno infatti somministrato oltre l’80 percento delle dosi totali, altre sono ferme al 70 percento. Guardando al numero di anziani over 80 vaccinati, scopriamo, per esempio, che Campania e Lazio hanno superato ampiamente il 20 percento, mentre Toscana è ferma addirittura al 5 percento. A destare ancora più scalpore è il fatto che proprio nella patria di Dante, non sono stati privilegiati i più vecchi, i più fragili, i malati, bensì alcune categorie professionali, come quella degli avvocati, dei magistrati e dei giornalisti. Non si sta dunque tenendo in considerazione l’età anagrafica, bensì il potere di vere e proprie caste. I vari governatori, non solo in questa terribile epidemia, hanno dimostrato di comportarsi come dei piccoli monarchi, delle cui scelte non rendere conto a nessuno: i partiti locali, coi loro esponenti, sembrano interessati unicamente a soddisfare il proprio elettorato con scelte miopi volte a sostenere il proprio status quo. La vicenda di Aria, la partecipata della Regione Lombardia deputata alla campagna vaccinale, è emblematica. Sorta 2 anni fa dall’unione di 3 società pubbliche, è divenuta in questi giorni il simbolo della spartizione di potere di un’oligarchia locale che ha sostituito la meritocrazia con l’obbedienza. «Persistono purtroppo importanti differenze tra Regioni, che sono molto difficili da accettare. Mentre alcune seguono le disposizioni del Ministero, altre trascurano i loro anziani in favore di gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale», ha ammonito duramente questa mattina il presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato. È l’ennesimo cortocircuito tra Regioni e governo centrale. Ma quali sono i motivi che hanno portato alla nascita di queste entità territoriali? Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare che il nostro Stato è di tipo regionale, come viene sancito dagli articoli 5 e 114 della Costituzione. Ci vollero però parecchi anni prima che queste venissero istituite: nate nel 1970, erano la risposta a quell’anomalia tutta italiana che Alberto Ronchey, allora editorialista al Corriere della Sera, avrebbe ribattezzato pochi anni dopo il «fattore K», ovvero la questione comunista. Con questa espressione si indicava l’impossibilità dell’alternanza tra i due grandi partiti della Prima Repubblica, la Dc e il Pci. Per la posizione internazionale dell’Italia (sulla base della conferenza di Yalta e del Patto Atlantico), la Democrazia Cristiana era destinata ad essere il baricentro di governo e la guida del Paese, rendendo impossibile per i comunisti andare al potere. È in questo contesto che va analizzata la lottizzazione della Rai e, appunto, la nascita delle Regioni: era un modo per consentire anche alle sinistre di governare, seppur a livello locale. Concepite inizialmente prive di eccessivi poteri e mansioni, furono al centro della riforma voluta da D’Alema del Titolo V della seconda parte della Costituzione. Tale modifica ha dato loro autonomia legislativa esclusiva e concorrenziale su innumerevoli materie, che prima erano esclusivamente in seno allo stato centrale. Questo “federalismo imperfetto” è una delle cause dell’arretramento socio-economico del Paese. L’incertezza delle norme e della responsabilità degli attori in gioco scoraggiano gli investimenti e deprimono la fiducia di cittadini e imprese. Numerose competenze di legislazione concorrente, come la produzione di energia, la gestione e la tutela della salute e del trasporto pubblico sono state per anni vittima di un ping-pong istituzionale, a cui solo la Corte costituzionale, di volta in volta, ha potuto mettere mano. Sia Berlusconi sia Renzi provarono a modificare il nuovo Titolo V, non soltanto riducendo le materie di competenza regionale, ma soprattutto istituendo una clausola di supremazia grazie a cui lo Stato sarebbe potuto intervenire se avesse ravvisato un interesse nazionale da tutelare. Entrambi questi tentativi di riforma, posti a referendum, vennero però bocciati dagli elettori. Il risultato è stato un aumento incessante della spesa pubblica e della burocrazia. Echeggiano le parole del liberale Giovanni Malagodi, che già nel 1962 ammoniva sui rischi di istituire le Regioni. Parlando di quelle a statuto speciale, già in vigore all’epoca, osservò: «oggi spendono 135 miliardi di lire, cioè il doppio di quello che spendevano cinque anni fa; e cinque anni fa spendevano tre volte tanto quello che spendevano all’inizio». Aveva capito in anticipo che non sarebbero state in grado di rispondere alle diverse esigenze del Paese e che sarebbero invece state causa di maggiore disuguaglianza e inefficienza. Fu purtroppo inascoltato.
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