Il periodo del liceo, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, non solo foggiava dei nuovi studenti, eruditi e colti ma arricchiva di sensazioni e di aperture nuove i giovani, calandoli nella realtà ed educandoli all’amore della musica, del cinema, della latinità, della istituzione religiosa e sociale, del bello e delle cose che servono alla vita di ogni giorno. “Il meraviglioso dei tempi moderni e degli spiriti di domani non è solamente studiare, ma anche viaggiare in luoghi lontani, conoscere nuovi paesi, nuove città”, diceva il nostro preside, Norrandino Barone Adesi, quando veniva ad ispezionare le classi. L’avventura della gita in Sila della durata di tre giorni, era l’occasione più propizia per consentire al preside di dimostrare tutto il suo liberalismo e tutto il suo anticonformismo. Non c’era mai stata prima una gita così lunga lontano da Cittanova, con pernottamento in albergo. Al massimo per il passato avevamo fatto una passeggiata vicino all’istituto scolastico ma erano state soluzioni dell’ultimo momento, di ripiego, in occasione di qualche rara e inaspettata nevicata. Questa volta invece la “supergita” era stata organizzata con cura e senza limitazioni di mezzi e di spesa. Il programma, approfittando di un “ponte” festivo, comprendeva tre giorni in montagna nella grande Sila, con possibilità quindi di effettuare lunghe escursioni nei boschi incontaminati nell’alto piano silano e di sciare utilizzando nuovi impianti di risalita, che solo da poco tempo avevano fatto la loro apparizione in Calabria. La partenza fu programmata per le cinque del mattino. La comitiva scolastica viaggiò verso la Sila con tre pullman pieni, in ogni ordine di posti, di studenti e insegnanti. Le ragazze furono rigorosamente separate dai ragazzi durante tutto il viaggio: secondo il giudizio dei professori, la promiscuità avrebbe potuto generare situazioni imbarazzanti, favorendo rapporti intimi fra i due sessi. Prima della partenza avevamo dovuto giurare solennemente davanti al preside che non avremmo mai, per nessun motivo, cantato le canzoni della goliardia e tenuto alcun comportamento o atteggiamento di tipo goliardico durante l’intero viaggio. Iniziato il viaggio, si levarono subito i primi canti di canzoni napoletane; si passò poi ai canti del folclore ed infine i canti della montagna. I canti erano così belli che molti di noi avevano le lacrime agli occhi. Esaurito il repertorio dell’arco alpino, si passò ai canti goliardici, venendo meno al giuramento fatto prima della partenza. L’impegno interpretativo di questi ultimi canti fu tale che alla fine anche i professori furono trascinati nel vortice delle “osterie” e degli “aerei che atterravano sui campi di grano”… Arrivammo all’albergo intorno a mezzogiorno, completamente distrutti, ma felici e in uno stato di euforia tremendamente contagiosa. Il primo giorno fu incantevole, il sole sfavillante tagliava la montagna a strisce che sembravano nastri di fuoco, e si rifletteva sulle case bianche ricoperte di neve. Camigliatello mi appariva per la prima volta immersa nella luce, coperta dall’azzurro del cielo, sbocciata come un sogno di poeta durante il sonno leggero di una notte d’estate. Passammo tutto il giorno all’aperto, sulla neve, sciando e facendo mille giochi festosi. Non potevamo stancarci di quello spettacolo. Al calar del sole rimanevamo chiusi nell’albergo, davanti ad un pianoforte, rispolverato per l’occasione da un mio compagno di classe, Marcello, che pur non avendo mai studiato musica, riusciva a suonare “ad orecchio”, magnificamente, qualunque canzone o brano musicale gli venissero richiesti) Da allora sono passati molti anni, ho amato, sono stato amato, ho sofferto. Ho avuto grandi gioie, grandi dolori. Altre gite, altri viaggi hanno illuminato il mio scuro cammino, ma niente ha offuscato la gioia, la felicità e il senso di libertà di quella prima gita, lontano da casa, con i miei compagni di scuola. Il ricordo di quella gita scolastica è rimasto indelebile nella mia mente; è come quei fuochi che la distanza libera da ogni fumo e che risplendono tanto più, quanto più si allontanano da noi. Dodici anni dopo feci ritorno in Sila e vi cercai le tracce di quel vecchio albergo. La costruzione era caduta in rovina e non mostrava più che un cumulo di pietre grigie e una grande tettoia, sotto la quale i caprai durante le piogge conducevano al riparo le capre. Il tempo cancella in fretta quanto c’è sulla terra, ma non cancella mai le tracce di un primo amore nel cuore che l’ha provato. Sono passati tantissimi anni, ma ogni anno, un giorno dell’anno, rivado col pensiero ai ricordi di quella gita è un sentimento profondo fa zampillare nel mio cuore una sorgente di luce, un astro luminoso, la stella cometa della mia vita.
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