I.
‘Libera Chiesa in libero Stato’. Quando i bersaglieri di Raffaele Cadorna entrano in Roma attraverso la breccia di Porta Pia, sembra essersi realizzato il progetto del più grande statista della storia dell’Italia moderna, Camillo Benso conte di Cavour. < In Roma, aveva detto nel memorabile discorso alla Camera dei Deputati il 25 marzo 1861, concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali: tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia dio una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato>.La storiografia più ‘filosofica, per così dire—che paradossalmente ha avuto i suoi maggiori esponenti, da Benedetto Croce a Giuseppe Galasso, proprio in quella Napoli oggi vivaio di una patetica minoranza neoborbonica– ha meditato a lungo su queste parole e giustamente vi ha visto l’espressione del liberalismo ’adulto’ della Destra storica, che la libertà di coscienza aveva eretto a fondamento della convivenza civile.(Si pensi che al tempo di Cavour la Svezia privava i cattolici dei diritti di cittadinanza). Curatore di un volume ormai introvabile nelle librerie, Un secolo da Porta Pia (Ed. Guida 1970), un grande pensatore oggi dimenticato, Pietro Piovani, commentando la celebre formula cavouriana, scrive che per Cavour< la Chiesa libera non sarà una chiesa mezzo ‘nazionalizzata, mezzo adattata: sarà la Chiesa che avrà, nella libertà e per la libertà, trovato la sua essenza, ritrovato il suo compito universale. In Italia, nell’età moderna, pochissimi hanno avuto tanta fede nei nuovi destini ella Chiesa quanto questo liberale abituato a nascondere i suoi convincimenti e le sue passioni sotto il velo, o tenue o resistente, di una scanzonata ironia, ora ingannevole ora ingannantesi>.E,nella seconda parte del suo saggio, Da un temporalismo all’altro, Piovani mostra come la Chiesa non abbia colto l’occasione storica che le offriva Cavour e–quasi anticipando le tesi di storici contemporanei delle relazioni Stato/Chiesa come Roberto Pertici–come l’apertura al sociale l’abbia portata a sottrarre ”al messaggio del vangelo, per se stesso, ogni mistica eroicità, quasi consentendo con l’idea che il misero prima che essere un testimone tragico del Cristo, debba essere un assistito della previdenza sociale”. Ma questo è altro discorso.
A far pensare, oggi, sono le ragioni per le quali il 20 settembre non ha ispirato, nella saggistica e sui grandi quotidiani quasi nessuna riflessione. Eppure si è trattato di una data che ha azzerato un potere temporale che durava quasi da 1400, dal tempo di Gregorio Magno. Tanti articoli sulla breccia, sul fatto d’arme, sulle impressioni dei bersaglieri che vedevano l’Urbe per la prima volta, su Kanzler e sulle reazioni di Pio IX, ma quasi niente sul significato storico e culturale di Porta Pia
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e su quello che rappresenta oggi nelle coscienze dei cittadini. In un Colloquio interessantissimo, organizzato da Marco Pannella nel 2008, Roma, 20 settembre. Data epocale del mondo contemporaneo? Eredità e attualità (le trascrizioni si trovano in Internet ma sarebbe auspicabile una pubblicazione, dopo un buon lavoro di editing), Giuseppe Galasso, in un intervento videoregistrato a cura del compiano Massimo Bordin, ha centrato il problema..
Sennonché non c’è solo questo. In realtà, finito quell’anticlericalismo che aveva portato a esultare per la fine dello stato pontificio (‘Viva Maria, Viva Gesù, er regno de’ preti nun ce sta più”), il papa, oggi, è ritenuto (a ragione o a torto) un prezioso alleato contro il capitalismo rapace, lo sfruttamento del terzo mondo, la distruzione della natura, il razzismo, il sovranismo etc etc. Gioire per l’umiliazione subita dal suo predecessore con la breccia non rientra più nella sensibilità collettiva. Ma c’è ancora un altro tema da prendere in considerazione. Il compimento dell’unità d’Italia, con la presa di Roma, è il trionfo dello stato nazionale e lo stato nazionale, ormai, è divenuto sinonimo di frontiere, di passaporti, di chiusura all’esterno, di diritti civili e politici riservati solo a quanti vivono intra moenia. In un mondo dove la dimensione politica—che nello Stato trova il suo riferimento privilegiato—è delegittimata dall’universalismo dei diritti, dell’economia, dell’etica—quanti si sono impegnati per l’”unità e la potenza delle nazioni” (e tra questi c’era l’apostolo dell’unità d’Italia, Giuseppe Mazzini, che guardava alla nostra quarta sponda mediterranea, la Tunisia) rischiano seriamente di vedere abbattuti i loro monumenti. Almeno in questa parte del globo, la politique non è più d’abord e persino tra gli scienziati politici c’è chi contesta l’esistenza di uno specifico interesse nazionale—che è come contestare l’esistenza di una persona per il fatto che, mutando nelle varie età e cambiando le sue opinioni e la percezione di ciò che le torna utile, non è più la stessa, come il fiume eracliteo.
L’immagine ieratica di Pio XII che, in visita ai quartieri romani bombardati, eleva le braccia al cielo ha rimosso quella di Pio IX prigioniero in Vaticano. Simbolicamente è stato il ritorno (ambiguo) all’universalismo e il pur comprensibile ripudio del nazionalismo, finito sotto le macerie dell’innaturale alleanza col nazismo.
II.
Giorni fa sul ‘Foglio’ è apparso un articolo di Walter Brandmueller, La Breccia che segnò la fine
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dello stato pontificio, in cui l’autorevole prelato (arcivescovo e cardinale dal 2010 e Presidente del Pontificio Comitato di Scienze storiche dal 1998 al 2009) sostiene che, ben lungi dall’essere un reazionario, «l’ultimo papa re previde gli orrori gli orrori del Ventesimo secolo e restituì la pietà popolare dopo l’aridità illuminista» e che i critici del Sillabo (1864) nei «nostri tempi dovrebbero poter comprendere le intenzioni di Pio IX, leggendo il documento per quello che intende. Una cosa è doveroso dire: da un punto di vista della comunicazione, la forma letteraria del Sillabo fu in tutto e per tutto sbagliata e disastrosa, un vero e enorme “flop mediatico”. Poi: le accuse tanto in voga che il documento avrebbe “condannato” tante conquiste dell’epoca moderna sono dovute a una lettura inadeguata, ignorante del linguaggio teologico scolastico». In realtà, il Sillabo ha sorpreso e addolorato tanti cattolici non solo nei nostri tempi. Un ‘rosminiano’ come Marco Minghetti in Stato e Chiesa (1878) scriveva senza mezzi termini: «La chiesa cattolica, che un tempo capitanava la scienza e la società, s’è a poco a poco allontanata da esse, e ha finito coll’osteggiarle entrambe. |…|Nel Sillabo infatti tu trovi formulate e sottoposte ad anatema tutte le proposizioni più essenziali degli statuti moderni e i diritti più gelosamente custoditi dai popoli . Coll’infallibilità del Papa poi è tolto ogni sostanziale diritto ai fedeli, al clero, all’episcopato stesso nel reggimento della chiesa. Roma sola pronunzia, e alla sua parola dee ognuno inchinarsi, sotto pena di essere divulso dalla società religiosa. Ora questo accentramento diviene tanto più esiziale poiché Roma stessa si è stretta a un partito politico, collegando le sue sorti con quelle istituzioni che il mondo civile ripudia dovunque».
In effetti, leggendo oggi l’elenco dei «principali errori dell’età nostra» compilato da Pio IX, si rimane interdetti. «E’ libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla base del lume della ragione, avrà reputato essere vera» « E’ da separarsi la Chiesa dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa». «Le leggi civili possono e debbono prescindere dall’autorità divina ed ecclesiastica». «Il vincolo del matrimonio non è indissolubile per diritto di natura, ed in vari casi può sancirsi per la civile autorità il divorzio propriamente detto». Ed ecco gli «errori che si riferiscono all’odierno liberalismo»: «In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano». «Però lodevolmente in alcuni paesi cattolici si è stabilito per legge che a coloro i quali vi si recano, sia lecito avere pubblico esercizio del culto proprio di ciascuno». «È assolutamente falso che la libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti concessa di manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo.». Minghetti aveva chiosato, a proposito della varietà delle confessioni religiose, «ma questo suddividersi delle sette religiose è poi un male assoluto? Ovvero non
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rappresenta i molteplici aspetti della verità religiosa dirimpetto alla diversità infinita che si riscontra nell’umana natura?».
Sarebbe ingiusto, però non riconoscere che alcuni ‘errori’ sono incompatibili anche con la civiltà liberale, tanto invisa al Pontefice. Ad es., «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato». E un discorso analogo va fatto per le proprietà ecclesiastiche. E tuttavia era pur vero che la laicità non rientrava nelle corde non solo, va da sé, del Capo della Cristianità ma altresì di quei cattolici conservatori, come Vito d’Ondes Reggio che, nel suo discorso alla Camera del 6 luglio 1864, ammoniva : se «ciascuno può interpretare a modo suo le dottrine religiose, la rivelazione delle medesime più non esiste; il cristianesimo va a perdersi nella religione naturale e non rivelata. Cattolicismo e cristianesimo indissolubili sono»; e che faceva derivare dall’ art.1 dello Statuto albertino (La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi) il dovere dello Stato di imporre,« colla forza materiale la esecuzione delle prescrizioni della Chiesa».
Nel campo (laico) di Agramante, tuttavia, l’avversione irriducibile alla Chiesa nasceva dal netto rifiuto di una libertà che De Sanctis così definiva ironicamente: «tutte le opinioni hanno la loro legittimità; tanto vale l’una quanto l’altra; in ciascuna ci è qualche cosa di vero; l’affermarsi con passione, con convinzione, dirimpetto ad avversari, sia di spiriti limitati, che veggono un lato parziale, imperfetto delle cose». Insomma, misera cosa era il pluralismo delle fedi e delle idee: l’abbattimento del potere temporale dei papi doveva rientrare in un progetto ambizioso di riforma morale e intellettuale degli Italiani, ben colto dall’insigne storico Carlo Arturo Jemolo che ricordava, in un memorabile saggio del 1970, che per molti patrioti, Roma significava la « missione di spazzare la superstizione, cioè la religione, di divenire la capitale del libero esame: tutte idee vaghe, confuse, senz’alcun piano concreto, senz’alcuna possibilità di raggiungere i fini propostisi»; come quella, del resto, che «la fine del potere temporale» comportasse «un avvenire pacifico per l’Italia», « un volger di cose per cui la religione sarebbe divenuta affare tutto privato, un piccolo set-tore dell’uomo senza influenza nelle sue azioni esteriori».
E nondimeno il grande De Sanctis, parlando alla Camera l’8 luglio 1867, faceva rilevare, con toni quasi tocquevilliani, come la società fosse «polverizzata», come tutti i «grandi corpi», le grandi organizzazioni, che facevano da antemurale al dispotismo dei principi e del clero fossero sparite «Dirimpetto alla Chiesa non c’è che una sola associazione e si chiama lo Stato. Tutto il resto, atomi erranti, individui abbandonati a se stessi» «Negazione del nostro ordine di cose», la Chiesa è la sola organizzazione rimasta in piedi dinanzi all’individualismo moderno».
In fondo era questa la vera tragedia italiana: non poter costruire lo Stato nazionale sulle fondamenta etiche e culturali di un credo religioso di cui era depositaria la Chiesa di Roma ostile ai
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principali istituti della società moderna e, nello stesso tempo, doversi affidare a una morale laica–quasi da ricostruire ex novo nelle scuole, nei simboli, nelle ideologie ufficiali—che tanto nelle sue declinazioni nazionaliste quanto in quelle internazionaliste avrebbe mostrato tutta la sua debolezza. Giacomo Barzellotti, il filosofo massone prima spiritualista poi neokantiano, in uno scritto apprezzato da Federico Chabod, L’idea religiosa negli uomini di Stati del Risorgimento (1887) rilevava con rimpianto come tutti i liberali moderati italiani, dal Capponi al Cavour al Minghetti, fossero «d’accordo coi più insigni uomini di Stato e di scienza dell’Inghilterra, i quali, credenti o no, considera(va)no diversamente dall’opinione che domina tra noi e in Francia, il sentimento religioso come una delle forze più vivaci e ancora più integra della società contemporanea»
La libertà, aveva scritto Tocqueville, in America «vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi e i costumi come la garanzia delle leggi e come il pegno della sua durata». E’ una risorsa che la democrazia in Europa (continentale) non ha avuto.
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