Sono passati quasi 55 anni da quel 5 giugno 1968, notte in cui in un hotel di Los Angeles venne ucciso Bob Kennedy, ma il suo assassino rimarrà in carcere. A Sirhan Sirhan è stata respinta per la sedicesima volta la libertà vigilata. L’uomo ha 78 anni, oltre i due terzi dei quali passati in prigione. La sua legale ha tentato invano di convincere la commissione che il suo assistito è ormai consapevole di ciò che ha fatto e che gli psichiatri da decenni ritengono improbabile che possa rappresentare un pericolo per la società. Ma la Corte non si è lasciata intenerire. Ad opporsi la vedova, alcuni dei suoi figli e il governatore della California, che aveva definito il detenuto una «minaccia per la società», una persona che «non si era assunta la responsabilità di un crimine che aveva cambiato la storia americana». Quel 5 giugno del 1968 Sirhan, immigrato giordano di origine palestinese, sparò al senatore Kennedy da poco vincitore nelle primarie democratiche per le presidenziali; l’attentatore dichiarò di aver agito per la causa palestinese. «L’ho fatto per il mio Paese», disse, aggiungendo di essersi sentito tradito dal sostegno di Kennedy a Israele nella Guerra dei Sei Giorni. Come quello del fratello John, l’assassinio di Bob Kennedy ha generato da sempre sospetti, ipotesi e teorie complottiste, di fatto mai asseverate. Nel 1972 Sirhan fu condannato a morte, pena commutata in ergastolo alcuni anni dopo. Da allora, per sedici volte, gli è stata negata la libertà vigilata. Stavolta la commissione ha stabilito che dovrà rimanere in carcere per tre anni, ma potrà presentare una nuova istanza anche prima di quel termine. C’è da domandarsi se un uomo che ha passato quasi tutta la vita in prigione, privo ormai di contatti, fuori da ogni possibile rete di connivenze e accoliti, reduce da una realtà storica e geopolitica mutata, possa rappresentare una minaccia. L’unico pericolo che ravvedo è nella sua capacità di reinserimento in un tessuto sociale ormai completamente differente, lontanissimo da quel periodo storico di cui si è reso protagonista, che lo farebbe sentire come Capitan America che, riportato in vita dopo l’ibernazione, è stato catapultato dagli anni ’40 ai giorni nostri. Molto lontana dalla nostra idea di prigione come percorso rieducativo quella statunitense, nonostante le dichiarazioni buoniste e i riinvii a “fra tre anni”, per vedere se il detenuto sarà in grado di “istituzionalizzarsi”. Sono convinta che non ci sia la volontà di permettergli di tornare a casa, ma solo un lento e inarrestabile accompagnamento verso “l’uscita con i piedi d’avanti”, perseguita con subdola lentezza e determinazione. Spero di avere torto…