Bentornati a un nuovo appuntamento con “Cinema Tips”, la rubrica che trovate esclusivamente su Toscana Today e Pannunzio Magazine. Questa settimana spazio al cinema “psicologico”, quello in grado di scavare l’identità di una personalità estremamente complessa figlia di una situazione sociale tipica del nostro tempo. Il titolo in questione è “Split”.

Scritto e diretto da M. Night Shyamalan, il film, uscito nel 2016, è il secondo all’interno di una trilogia che si compone di “Unbreakable – Il predestinato” (2000) e “Glass” (2019). Nel nostro caso l’attore protagonista è James McAvoy che, in questa interpretazione, vive un autentico stato di grazia dato che si ritrova a incarnare ben 24 personalità. Il suo straordinario lavoro attoriale, infatti, nel corso del film gli permette di cambiare molto spesso i vari personaggi (sia psicologicamente che fisicamente) con un passaggio repentino gli uni dagli altri. La figura si ispira liberamente a Billy Milligan, criminale statunitense affetto da disturbo dissociativo dell’identità. Questo disturbo generalmente tende a svilupparsi in seguito a violenze subite durante l’infanzia e così è anche per il personaggio protagonista del film.

La qualità di questo lavoro vive soprattutto nel fatto che è stato realizzato senza un budget particolarmente elevato e sono presenti ritmo e intensità talmente forti da tenere incollati alla poltrona. Questo a dimostrazione che non servono milioni di dollari per realizzare interessanti progetti, ma servono idee e volontà. E queste caratteristiche il regista Shyamalan sicuramente sa quanto siano importanti visti i suoi trascorsi durante la carriera.

Le tematiche della sofferenza e del bullismo sono sicuramente le protagoniste in questo plot e danno luogo alla forte tensione che si consuma durante la visione che, lo dico adesso, non è per stomaci deboli. La superficialità con cui certe questioni vengono viste e affrontate da persone che ritengono di essere superiori rispetto a chi magari presenta delle debolezze apre grandi spazi per comprendere quanto questa società potrebbe essere migliore se queste persone fossero più umili e comprensibili. Il dolore è un sentimento che appartiene a tutti indubbiamente, ma autoproteggersi manifestando superbia sfogandola contro i deboli si rischia di pagarne le conseguenze: il disturbo si trasforma, plasmato da un dolore covato nell’odio nelle profondità delle proprie anime, per diventare distruzione e morte. Sofferenza e violenza non solo non portano a niente, ma generano a sua volta altra sofferenza e altra violenza. Il film, nella sua intimità, ci vuol dire proprio questo, ossia che questa non sarà mai la strada giusta per migliorare la nostra società.

Un film indubbiamente avvincente, ma ancora una volta lo voglio ripetere, più idoneo per chi riesce a reggere una tensione alle stelle e ha uno stomaco d’acciaio, ma comunque carico di significati importanti.