Ho sempre molto invidiato coloro che dei vini sentono tutte le sfumature, dei cibi riconoscono la scansione delle materie prime e tante altre sottigliezze che non sto ad elencare, ma che fanno parte del bagaglio dei gourmet, dei giornalisti enogastronomici, nonché della schiera di critici che distribuiscono stelle, forchette e tastevin, per fare la fortuna oppure la fine dei malcapitati che incautamente entrano in quel giro.
La spinta che mi ha fatto diventare un gourmet da strapazzo, fu la fame.
Come qualche mio lettore sa, sono del 1941, anno d’inizio della guerra. Per la maggior parte degli italiani, significò le tessere annonarie con la sola alternativa della “borsa nera”, un’importante istituzione truffaldina che consentì l’uscita dall’atavica povertà di tanti contadini, secondo il detto saggio che: “tutto il male non vien per nuocere”.
Mia madre mi raccontava che in quegli anni mi sognava con la il becco spalancato senza mai potermi dare da mangiare.
Le cose andarono meglio quando sfollammo a Campo Canavese, ma anche li scarseggiavano le proteine. Per non parlare poi dell’immediato dopo guerra che vide mio padre disoccupato e quindi impossibilitato a garantirci il tenore di vita anteguerra.
Il mio desiderio per il cibo iniziò in quegli anni.
Provengo da una famiglia di piccoli borghesi, in cui il buon cibo è sempre stato in tavola, a parte la parentesi bellica e immediatamente post resistenziale.
In quegli anni di penurie tuttavia, c’erano delle eccezioni: le feste comandate.
Soprattutto il Natale e il Capodanno.
Erano riti gastronomici officiati dai miei genitori e dalle mie zie materne. Papà era addetto agli agnolotti, mamma all’insalata russa e ai secondi, mia zia Toja (Vittoria per gli inconsapevoli foresti), gestiva in solitaria il pranzo di Capodanno; essendo claudicante era la cuoca a tempo pieno in casa delle zie, le tre sorelle nubili della mamma.
Gli agnolotti di papà avevano una lunga gestazione. Un paio di giorni prima preparava l’impasto che doveva insaporirsi e poi, come si usava allora, comprava la sfoglia che in quel tempo a Torino vendevano i panettieri.
Ne uscivano delle sberle di agnolotti 10×10.
Penso che Gualtiero Marchesi li abbia plagiati nel suo “agnolotto aperto”: Probabilmente per evitare da parte di mio padre una denuncia per plagio trovò l’escamotage di non mettere la sfoglia superiore….
Di quegli agnolotti esagerati, se ne mangiava a Natale e a Santo Stefano.
L’insalata russa della mamma, rispecchiava la sua creatività con un insieme di ingredienti che oltre alle tradizionali verdure aggiungeva: il finocchio bollito, l’insalata belga, il tonno e udite, udite arrosto tritato.
Francamente, i pranzi di zia Toja non li ricordo, e non perché non fossero sublimi, quanto perché era talmente brava nel cucinare che la mia memoria fatica a focalizzare.
Dunque, i miei primi ricordi di bambino sono tutti gastronomici e fonte, tra le tante, di quella che è stata la mia principale mania.
Proseguendo nei miei ricordi mangerecci, devo fare un salto di una decina di anni per parlarvi della mansa della Olivetti. So di ferire tanti amici estimatori di quella grande azienda che riempiono su Face book pagine elogiative più che giustificate, tuttavia in quella mensa si mangiava male: la pasta era scotta con il sugo sciapo, l’arrosto si differenziava dal bollito solo per un sugo anonimo quanto allungato, c’erano poi delle enormi polpette imparentate con quegli arrosti e quei bolliti, insomma, un copione deludente anche per un gourmet da strapazzo come me. In compenso, in quei locali progettati da una grande arkistar, finito il pranzo potevi frequentare corsi di lingue e se ti spostavi al salone dei 2000, assistere all’esibizione di attori e musicisti. Va detto inoltre che mentre io guardavo il pelo nell’uovo olivettiano, alla Fiat si mangiava nel baracchino. Da qui, per gli imberbi ignoranti, i dipendenti di casa Agnelli vennero denominati “Baracchini”.
Naturalmente mi guardai in giro. Allorché qualche soldo girava nelle mie tasche evasi verso qualche ristorante a buon mercato. Ivrea e l’Alto Canavese, non hanno mai brillato per passione enogastronomica, tanto meno all’epoca, così nel fine settimana che trascorrevo a Torino iniziai a guardarmi in giro.
Il primo vero ristorante entrato nel mio bagaglio di ricordi mangerecci fu: Il “Gran Bar”, una brasserie che allora era in Piazza Castello, a Torino, ai piedi del “Grattalittorio” che domina quella piazza tra la via Viotti e l’inizio di via Pietro Micca.
La proprietaria era la signora Sattanino, distinta moglie di un noto commerciante vinicolo il cui figlio diventerà campione mondiale dei Someiller. Chiedo venia se non ricordo tutti i piatti, quelli che mi sono impressi furono “le scaloppe con i funghi e la cozze in salsa aurora”, due piatti che non avevo mai mangiato e che mi entusiasmarono. Per la verità quelle cozze ricoperte di salsa rosa non le ho più mangiate così buone, ma anche le scaloppe con i funghi ebbero ben pochi rivali anche nelle mie frequentazioni ristorative più blasonate.
Quando ad Ivrea iniziai a fare politica a differenza di quanto successe a Torino, il mio panorama enogastronomico mutò di poco salvo per un pranzo politico in occasione di una campagna elettorale.
Un pranzo con Ferruccio Parri
Da: Nel Futuro Magazine
Erano gli anni ‘60. Da poco ero impegnato in politica. Responsabile della mia discesa in campo: il Professor Ferdinando Prat che insegnava Cultura Politica al CFM, la scuola professionale della Olivetti. Ero un pessimo allievo ma la cultura politica mi intrigava e Prat era mitico. Miope come una talpa, girava in Lambretta, il Padre: il Conte Prat era stato uno dei primi azionisti della Olivetti di Camillo.
Prat era reduce da Buchenwald, dove era stato spedito dai nazisti perché faceva parte della Resistenza canavesana. In quei tempi era un Socialista nenniano. Grazie a lui mi iscrissi al PSI di Ivrea diventando il segretario dei giovani socialisti di quella città.
Prat, nei primi anni ‘60 si presentò alle elezioni amministrative provinciali. Noi giovani lo aiutammo nei comizi. Io, in particolar modo, mostravo chiari segni di quel “trombone” che sarei diventato in seguito, e quindi mi toccò di fare un comizio per sera e due comizi nel fine settimana.
A sostenere Prat venne a Ivrea Ferruccio Parri, il grande capo della Resistenza e primo Presidente del Consiglio dopo la liberazione.
Fisicamente mi deluse. Era un ometto dai capelli bianchi che tutto aveva, salvo la figura dell’eroe partigiano. Avevamo organizzato un comizio dove avrebbero parlato lui e Prat, io li presentai e di ciò mi pavoneggiai per un mesetto.
Finito il comizio, andammo a pranzo all’Hotel Sirio. Un ameno Hotel in riva al lago Sirio, lago morenico appena sopra ad Ivrea. Non ricordo bene cosa ci disse Ferruccio, a parte una frase che non ho mai dimenticato: “Nel ‘43, noi Resistenti eravamo quattro gatti, ma nell’ultimo mese del ‘45, tutti diventarono partigiani, anche quelli che avevano fatto i Fascisti”.
Ricordo poco anche quello che mangiammo, a parte i Capunet, un piatto tipico del Canavese. Vi voglio dare la ricetta per gentile concessione.
Capunet alla Parri (titolo su due piedi con poca fantasia)
Prendete un cavolo verza. Deve essere rigorosamente di Montalto Dora. Sempre a Montalto, andate a comperare un “salam dl Duja” nella salumeria che troverete all’ingresso del Paese se provenite da Ivrea.
Sbollentate le foglie del cavolo, poi preparate un ripieno con carne avanzata di arrosto ma in mancanza di quello, anche di bollito, il salame nel grasso sminuzzato un uovo e se è il caso un po’ di pan grattato per legare, finire con la noce moscata. Adagiate il ripieno sulla foglia di cavolo che poi arrotolerete, proseguite in questo modo a seconda dei convitati. Infornate per una decina di minuti a 180° e terminate con il grill, fintantoché sulla foglia non s’è formata una crosticina. Mangiate rigorosamente caldo. Ma se avanza potete riscaldare.
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