Si ha la sensazione che non possa esser vero. Già tanto tempo così, il ricordo del carismatico, sornione Ugo Tognazzi. Ci manca da trent’anni, ha lasciato una grande nostalgia per il garbo e la sincerità dei suoi personaggi, anche per i più biechi. E per lo spirito godereccio, vissuto senza il minimo rimorso. Un’intensa vita che andava di pari passo con un’intensa attività cinematografica, non serve fare l’elenco dei premi, sebbene la “Palma d’Oro” a Cannes nel 1981 per La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci sia una citazione doverosa. Tognazzi, nei panni di un piccolo imprenditore al quale è stato rapito il figlio, è lo specchio del conflitto generazionale che scuoteva la società italiana, dell’impotenza di un medio borghese che reagisce con pragmatismo e autismo di fronte alla pazzia del terrorismo. Interpretazione in cui non ha avuto paura di burlarsi, irresistibilmente e goliardicamente, sempre con l’espressione di disgusto stampata in faccia. Ricordiamo le parole dello stesso Bertolucci, apprendendone la notizia della scomparsa, il 27 ottobre del 1990, nel sonno, a Roma, per una emorragia cerebrale: Aveva una grande umanità ed una grande gioia di vivere, ma anche una tendenza alla solitudine ed alla malinconia che lo avvolgeva fin da quando girammo il nostro film che era in pratica tutto sulle sue spalle: alla fine delle riprese mi resi conto che il nostro progetto era molto più difficile e complesso di quello che pensassi, perché all’inizio la mia intenzione era quella di privilegiare un tono minore. Grazie alla sua interpretazione de “La tragedia di un uomo ridicolo” Ugo vinse meritatamente la “Palma d’oro” come migliore attore al Festival di Cannes e quando fu informato del premio fu preso da una specie di timidezza che nasce quando ci sono grandi riconoscimenti: ne era come intimidito, ma naturalmente anche molto fiero ed orgoglioso, immaginando che questo riconoscimento avrebbe finalmente spazzato via l’idea che fosse un attore solo comico e quindi superficiale. Tognazzi è stato uno degli interpreti più brillanti della “commedia all’italiana”; ha saputo divertire ed emozionare, con la sua battuta pronta, a volte molto tagliente ma sempre piena di garbo e classe, con quella sua espressività pacata ma vivacissima. Insieme a Sordi, Manfredi, Mastroianni e Gassman ha creato un genere di commedia popolare e al tempo stesso profonda, descrivendo vizi e virtù di una Italia scomparsa, che ricordiamo con nostalgia. L’Italia degli amori estivi consumati nelle cabine, sui pedalò e nelle balere, l’Italia dei tradimenti boccacceschi senza violenze, l’Italia del Tutto il calcio minuto per minuto ascoltato dai nostri padri la domenica, quando scoprivano la macchina dal telo di protezione e portavano orgogliosamente moglie e figli a spasso, vestiti da festa…. Ugo Tognazzi. Non era bello, ma piaceva. Sapeva di genuinità, di virilità, magari un po’ spessa, era un donnaiolo, ha avuto tre mogli, l’ultima la sua compagna romana Franca Bettoja. Edonista e goloso, assetato di vita e di divertimento, ma anche padre affettuoso, lavoratore accanito e ottimo cuoco che invitava amici e colleghi a spiritose e abbondanti cene a casa sua. 150 film in 40 anni di carriera, studi interrotti, una cultura che si era un po’ costruita autonomamente, grazie a una curiosità senza limiti, Tognazzi, figlio di un ispettore assicurativo, impiegato presso un’azienda di salumi, già da adolescente covava in sé il “genio dell’umorismo”, quel talento raro e prezioso di dissacrare e demolire il potere, di alleggerire la vita e il mondo circostante con le sue battute, di impersonare i ruoli più diversi, con impressionante naturalezza e energia. Cominciò nel teatro, poi si gettò a capofitto nel cinema esordendo nel 1950 nel film I Cadetti di Guascogna, diretto da Mario Mattoli, che diresse altri mattatori come Totò e da lì non si staccò più dal grande schermo. Tognazzi si compiaceva delle proprie origini e infilava, se poteva, qualche parola in dialetto nelle sue maschere tragiche o nelle performance da cabarettista, per cui aveva lasciato l’impiego da ragioniere nel salumificio Negroni. Per lui la recitazione era stata sempre un hobby da dopolavoro o una distrazione durante la guerra, quando, richiamato alla leva, organizzava spettacoli di varietà per i commilitoni. Il cameratismo virile e talvolta becero è poi la caratteristica di tante sue interpretazioni, come quella di Raffaello Mascetti nella trilogia di Amici miei, firmata da Mario Monicelli e Nanni Loy. Nobile decaduto, costretto a vivere nel sottoscala e mangiare a sbafo, alle spalle di Duilio Del Prete, Gastone Moschin, Philippe Noiret e Adolfo Celi, il conte di Tognazzi è un uomo dalla vita improvvisata, come i tanti interpretati da Sordi, ma più sadicamente raffinato: se non ha riguardo a far morire di fame la famiglia, riesce a digiunare per orgoglio di casta. Tra i suoi personaggi più riusciti, in quel decennio degli anni ’70, lo sfortunato e dignitoso Conte Mascetti, nobile decaduto e assai impoverito, passava il suo tempo dilettandosi in “zingarate” infantili e a volte patetiche con il suo clan di amici. Nel secondo episodio Tognazzi “prevede” la sua fine, infatti, come lui, il Conte Mascetti verrà colpito da un ictus. Le pellicole, il cui soggetto venne firmato dal grande Pietro Germi, oltrepassano abbondantemente il genere comico sfociando in tematiche esistenziali e filosofiche, nonostante il linguaggio spesso molto “scollacciato”, che però mirava a ridicolizzare la vena grossolana e infantile dei suoi protagonisti, in fuga dalle responsabilità e dal lato serio e severo della vita. I registi sfruttarono la sua verve provocatoria, affidandogli anche parti imbarazzanti, come quella del protagonista ne Il petomane (1983) di Pasquale Festa Campanile, o macchiettistiche spinte. È il caso della trilogia de Il vizietto, parodia del mondo omosessuale, che oggi sarebbe marchiata come intollerabile e omofoba. Il sodalizio con Marco Ferreri, suo grande amico, finì poi per amplificare la venatura maschilista dei suoi personaggi, per cui le donne figurano per lo più come oggetto di piacere e di disturbo. Ne sono emblema La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1966), L’harem (1967), e Non toccare la donna bianca (1974). Discorso a parte merita La grande abbuffata (1973), uno dei film più socialmente profetici del secondo Novecento, in cui Ferreri lo scelse nel ruolo di cuoco e quindi di carnefice, quando i quattro uomini annoiati decidono di uccidersi mangiando. Da segnalare le interpretazioni in Policarpo ufficiale di scrittura, diretto dallo scrittore e regista Mario Soldati, il suo sodalizio con Raimondo Vianello, l’amicizia molto affiatata con Luciano Salce, futuro regista dei capolavori tragicomico-sociali Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, che lo diresse in vari film, in classici della commedia anti-sistema come Il federale. Si autodiresse in cinque film: Il mantenuto, 1961; Il fischio al naso, 1966; Sissignore, 1968; Cattivi pensieri, 1976; I viaggiatori della sera, 1979, e nella serie televisiva FBI – Francesco Bertolazzi investigatore,1970. Non solo attore, ma anche mattatore, regista, commediante tutta la sua vita, durata solo 68 anni, lavorò anche per radio e per il teatro riversando la sua energia in un talento recitativo di grande freschezza, immediatezza e talento. Ci manchi Ugo Tognazzi… e con il tuo sorriso sornione chissà cosa avresti detto dell’Italia di oggi, con quella tua capacità di divertire senza offendere, nell’analizzare pregi e difetti di un Paese che, a trent’anni dalla tua morte, sembra irriconoscibile, più arido, spesso privo della luce del tuo umorismo e della tua autoironia, straordinario attore italiano.
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