Il discorso poetico di Silvio Aman colpisce anzitutto per la pacatezza dei modi e dei toni; una pacatezza, come si scopre andando avanti nella lettura di Garten (Puntoacapo Editrice 2022, saggio introduttivo di Luigi Fontanella), che dissimula – fin quasi a capovolgerla – l’intuizione tragica dell’esistenza e dei suoi caleidoscopici valzer: proprio ciò di cui si nutre, con gioia occulta ed occulto dolore, l’arte di questo insolito poeta (1). Una Weltanschauung che per certi aspetti non è lontana da quella del grande scrittore svizzero di lingua tedesca Robert Walser, studiato da Aman (2). Se consideriamo anche solo opere come Die Spaziergang (La passeggiata) o Poetenleben (Vita di poeta), le analogie appariranno subito evidenti. Veniamo infatti a trovarci in una dimensione pericolosamente affabile, persino confortevole, e tuttavia sospesa su un minaccioso abisso, il cui primo nome è solitudine. Le liriche di Garten ci mettono in contatto con un io umile, rimpicciolito fino a rischiare la sparizione; un io che non ha tuttavia nulla in comune con la grossolana e autocompiaciuta «crisi di identità» del soggetto che ha infestato intere epoche letterarie. L’arido intellettualismo, impegnato a fare tabula rasa di quanto zampilla dalla tradizione, è del resto più estraneo alla poesia di Aman che un meteorite in rotta verso gli anelli di Saturno. C’è poi qualcosa di oltremodo delicato e prezioso che emerge dalla prosodia del nostro autore: una sottile eco – non priva di ironia – dei grandi visionari del XIX secolo, specie francesi. Penso ad esempio al magistero di Théophile Gautier e successivamente dei simbolisti. Nella loro poesia, così come nella prosa, la dimensione fantastica si fonde in modo inestricabile alla cosiddetta realtà, l’osservatore vi aderisce e vi sprofonda; la voce del poeta, liberata da inutili zavorre, prende il volo e ci mostra l’Invisibile, incarnatosi per un giorno o per un’ora nelle forme visibili che ci vengono incontro: persone, animali, case, onde, boschi, giardini… Per fornire un’idea dello stile di Aman, sarei infine tentato di proporre un ossimoro: pensosa leggerezza. Mi riferisco in sostanza a una temperatura mentale in perpetua oscillazione e alla tecnica compositiva che la registra, guardando ai maestri lombardi e ticinesi del secondo Novecento, Luciano Erba e Giorgio Orelli in particolare. Tracciate simili coordinate, come potrebbe sottrarsi l’io stesso del poeta – e di coloro che si sintonizzano con lui – a un vaporoso senso di inafferrabilità nel teatro della natura, là dove fra l’altro incombono presenze mitologiche altrettanto sfuggenti? Un enigma irrivelato, che Aman accarezza come una teiera di porcellana, per poi offrirci qualche sorso della preziosa bevanda in essa fluttuante. Garten riunisce e in parte rinnova i frutti dell’intensa esperienza creativa del nostro autore. È una sorta di summa, cui va affiancata la silloge dei Sonetti fosforescenti (Puntoacapo Editrice, 2022). Ma è tempo di interrompere questo tentativo di delineare le caratteristiche generali del libro, tastando ora il polso ad alcune sue pagine. Torna più volte, soprattutto nella prima sezione, l’aggettivo «opaco», parola chiave che sintetizza «il nostro misterioso dissonare» (Nursery vegetale). Ebbene, che cosa permette di non chiudersi nella mestizia come in una tomba, di ritrovare slancio e perfino una strana vitalità, se non la sacra follia che di verso in verso edifica il ponte chiamato poesia? Un ponte che collega, come leggiamo altrove, i vivi e i morti, «nel folto di quest’Ade senza oblii» (Improvviso scioglimento). Anche le protagoniste dei miti antichi partecipano al singolare commercio fra visibile e invisibile, dove le case «Sembrano navi ancorate alla fonda» in attesa di salpare: «al bivio in cui vagavo a passo lieve / […] la Sfinge ha mormorato dolcemente / che il dispiacere è un bene: / mi porterà lontano, / agli archi trasparenti delle origini, / oltre la terra e il mare». E ancora: «Mi è apparsa in mezzo ai flutti del ricordo / Venere stesa su uno scafo ovale / a forma di conchiglia / come se andasse in gondola…» (3). Ma in questa fantasmagoria di apparizioni, «Il volto che trapela all’orizzonte / è il mio sguardo stesso: / un mondo irraggiungibile» (Giorni di mare). Non soltanto Venere, Melusina (4), Persefone (5) o Alcina (6): a partire da Germogli (quinta sezione), assistiamo al dialogo con misteriose presenze femminili il cui nome non ci è dato conoscere, come la destinataria di Invito: «Stai sempre chiusa in te, luttuosa / nel tondo peristilio della notte / e lì distilli il limo / che i giorni del passato ti conducono…». Questa ed altre figure analoghe da un lato intrecciano la propria tematica con quella dei Sonetti fosforescenti, dall’altro ribadiscono la paradossale finalità che unisce l’io («uno che giunge a un tratto / da un suo lavoro oscuro») agli indecifrabili «tu»: «cercare in noi, nascosto, / il sogno che ci muove» (Narcisi, ma non solo). Alle donne prive di nome fanno seguito l’affascinante Ursula di Alpenglühen, la provvidenziale Edvige di Visita al parco, o Clizia, che «[…] raccoglie frammenti insabbiati, / residui dell’ignoto e dei legnetti, / ma come caramelle ormai succhiate, / di cui non s’individua più l’origine». E il poeta? Egli è come il giardiniere del componimento eponimo (Garten), assorto nel rammemorare la «straniera incuriosita» dalle sue «felci arboree». Questa lirica, una delle più potenti di Aman, è giocata con sapienza intorno a tre simboli: le «specie rare» che il giardiniere ha «raccolto dentro l’Arca», la straniera di cui s’è detto e «il sangue verde del ruscello» che fa «da madre alle ninfee». Grazie all’arte poetica, l’assenso alla vita – astratta e realissima – conduce a una certezza, per quanto azzardata e forse folle: «Qua senti come è bello dir di sì: / tu curi attentamente ogni dettaglio / e la risposta è buona». Ovvero, prestando orecchio a una delle creature senza nome: «A te parrà impossibile / ma quando l’aria culla piano i rami / e il buio è nelle cose che si sciolgono / credo sia bello vivere, / passare lentamente in questa voce / e andare via lontano / oltre le cose vane» (La coda maliziosa). Una sottile leggiadria proustiana si insinua nelle prime strofe di Involucro marino, versi con i quali prendo malvolentieri commiato da quest’opera unitaria e multiforme, rigorosa e divagante, cupa e intimamente aurorale. Leggere Garten significa infatti potersi anche concedere il lusso di un’inattesa, inopinata libertà: «Le camere alberghiere / estranee a chi va e viene per lavoro / mi paiono cabine di velieri / verso le terre da sempre promesse… / Ma quando appariranno, / se adesso anch’io non voglio più partire? // Il rito di esplorarle / innova la mattina, / e il letto in stoffa verde mi consola: / la testa sui cuscini ammonticchiati, / vedrò da sguinci lati la marina, / l’eterno suo lambire».

Note

1) I versi che verranno citati sono tratti dalle seguenti sezioni dell’opera: I (Gli albeggianti), II (Orli notturni), III (Il nocchiero), V (Germogli), IX (Devozioni), X (La sconosciuta), XIII (Acquatici).

2) Silvio Aman, Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Casagrande 2009.

3) Idrologia ciprigna. Venere torna, molte pagine dopo, in Ich will.

4) «Dal viso che si schiude / appare ad ogni istante nei profili / un senso d’imprevisto / […] Difficile sapere chi mai sia» (Melusina).

5) «È il giorno in cui Persefone risale, / i freschi mazzi in grembo / a rinnovare il ciclo» (Persefone).

6) «Poi mi rinfranco e dico: Alcina, / ciò che hai salvato in questa nave immobile / non sono cose indebolite, e qui / io perdo volentieri la mia spada» (I giardini di Alcina).