«Centellina le parole, specchi di verità. / Centellina le parole, larve di menzogne»: dai Dodici piccoli comandamenti che Sergio Gallo ha posto in esergo alla sua nuova raccolta (Amnesia dell’origine, Puntoacapo Editrice 2021), estraggo quello che esplicita la duplice caratteristica del dire, e a maggior ragione del dire poetico, la sua capacità di svelare squarci del Vero, o al contrario di esserne un acerrimo nemico, ampliando il verminaio della Menzogna. Questa natura, inchiodata alla polarità ancipite che la nobilita o la rende ingiuriosa, mi pare costituisca un efficace angolo visuale da cui prendere in considerazione e azzardare una breve analisi dei temi e dei simboli principali rintracciabili nei versi del nostro autore. Sebbene «Nessun tesoro o mausoleo / furono mai trovati», scrive Gallo ne Il labirinto di Porsenna, «occorre calarsi in quel buio / ancestrale», credere con ostinazione alla sua occulta esistenza. Solo a patto che venga esercitata una simile fede in ciò che l’esperienza e il buon senso negano, si potrà infatti tentare l’indispensabile «misurata poesia: / […] minuscola zattera per restare a galla / fra marosi alti come palazzi» (La presenza di Erato). Anatomia, chimica, zoologia, antiche vicende mitiche vengono chiamate in causa dal poeta nel susseguirsi dei versi per dare slancio a quella zattera, a bordo della quale scruteremo lo spettacolo vertiginoso delle ere remote e gli enigmatici frammenti che ci hanno consegnato, a partire da noi stessi. Affiorano altresì, catturate e issate a bordo della zattera poetica («Embrionale diamante / in grado di volgersi / in grafite, e viceversa»), vivide immagini del nostro tribolato presente. Valga per tutte quanto si legge in Mala tempora currunt (sed peiora parantur), che andrebbe citata per intero. Ma il tratto più intenso, più originale e convincente di questa raccolta – che si fregia di un’esaustiva prefazione di Fabrizio Bregoli – emerge a mio avviso dalla naturalezza con cui il poeta si immedesima nella protostoria biologica da cui deriviamo, evocandone dall’interno le grandiose e terribili meraviglie: «Come pesce labirintico / raccolgo ovociti in fuga / e brevi versi guizzanti / riponendoli con cura / in nidi a bolle flottanti». Si vedano altresì, nella stessa direzione, le calibratissime strofe di Gechi famelici, acerbe parole. È comunque il parallelismo con una patologia assai diffusa e per nulla “poetica” ad ispirare a Gallo una poesia che sarebbe piaciuta a Gottfried Benn: Candida albicans, la quale si conclude con un colpo di scena cui ci hanno in parte predisposto le composizioni che la precedono. Quella del fastidioso fungo delle mucose è infatti «La stessa algida bellezza / con cui insolenti i cristalli / di ghiaccio infrangono / le simmetrie dell’acqua. // Di versi che pur zoppicanti / azzannano per cimento / verbosi detriti / inassimilabili». A partire dalla terza, e soprattutto dalla quarta sezione, prende quota il tema centrale del libro (coinvolgente la fisiopatologia così come la filosofia della scienza), vale a dire la perdita della memoria, quel lento sgretolarsi dell’orizzonte temporale che qui è anche simbolo della dissennatezza con cui gli esseri umani assistono indifferenti al crollo progressivo delle condizioni necessarie alla persistenza della vita sul globo terracqueo. Un’acuta tensione morale ed emotiva pervade allora le asciutte cadenze di Sergio Gallo scalfisce – a nostro beneficio – il suo sguardo abitualmente distaccato, come quando evoca la figura del padre in Qaddish, coniando fra l’altro un ardito ossimoro: «Che possa riposare in pace / ora che è nel buio di Dio». Nessuna luce, dunque, nemmeno in presenza dell’Altissimo. Le «camere ardenti / della memoria», individuale e collettiva, saranno tuttavia esorcizzate dall’arte poetica, poiché questo è il suo compito e il suo ineludibile destino.
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