Immaginate una sera del novembre 1945 in quel di Villarbasse, una leggera nebbiolina che aleggia sulle campagne, qualche cane che abbaia in lontananza, le famiglie che si apprestano a cenare nelle loro case. Un quadretto idilliaco che trasmette la pace che cala in campagna dopo una dura giornata di lavoro. Ma per la famiglia dell’avvocato Massimo Gianoli, proprietario della cascina Simonetto, 65 anni, fino al 1940 dirigente dell’Agip Piemonte, non sarà decisamente una sera come le altre. L’avvocato sta cenando servito dalla sua domestica, Teresa Delfino, mentre nella casa del suo affittuario Antonio Ferrero si sta festeggiando la nascita di una nipotina e insieme a lui sono presenti la moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Mariotti e Fiona Maffiotto, un bimbo e il nuovo lavorante Marcello Gastaldi. Nell’oscurità della sera 4 uomini (in seguito identificati come Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala) fanno irruzione nella cascina per sequestrare i presenti e compiere una rapina, poiché sapevano che l’avvocato era solito custodire in casa ingenti somme di denaro. Ad un rapinatore, il basista, cadde la maschera che ne celava il volto e fu riconosciuto con un sussulto da una delle donne che vide in lui l’uomo che, fino a pochi giorni prima, aveva lavorato lì come garzone.

Vistisi scoperti i rapinatori decisero di uccidere tutti i presenti e le altre persone che stavano giungendo alla cascina in quanto potenziali testimoni e li condussero giù per le scale coi polsi legati dal fil di ferro; lì, ad uno ad uno, li colpirono brutalmente con un bastone (oggi conservato al Museo Lombroso di Torino). Gettarono poi i poveretti ancora semicoscienti in una cisterna per l’acqua piovana che si trovava nell’aia. Solo il piccolo fu risparmiato dall’atroce destino. Gli assassini rubarono poi 200mila lire, orecchini d’oro e altre cose di poco conto.

Le Forze dell’Ordine di primo acchito pensarono che il delitto fosse stato perpetrato da partigiani ancora fedeli alla rivoluzione. Gli inquirenti pensarono anche ad un sequestro di massa, questo almeno finché il giovane mugnaio Enrico Coletto non si calò nella cisterna, facendo la macabra scoperta. In una vigna lì accanto fu poi rinvenuta una giacca insanguinata con la scritta di una sartoria di Caltanissetta, un indizio utile a capire la provenienza degli assassini. Quattro mesi dopo i Carabinieri risalirono a D’Ignoti, grazie a un frammento di tessera annonaria semi carbonizzato in una soffitta da lui affittata in Via Rombò a Rivoli e con uno stratagemma (gli fecero credere di essere l’ultimo arrestato anziché il primo) lo indussero a fare i nomi dei complici.

Tutti, meno il Lalla che era tornato in Sicilia ed era stato ucciso in un regolamento di conti mafioso, furono arrestati, tradotti al Carcere Le Nuove di Torino e condannati alla pena capitale.

Questo delitto è celebre oltre che per la sua efferatezza, anche per la storia del Diritto Penale in Italia, in quanto poco dopo il fatto, la pena di morte sarebbe stata abolita con l’entrata in vigore della legge del gennaio 1948.

All’epoca dell’arresto la pena di morte era già sospesa, ma l’atrocità di questo crimine verso inermi cittadini spinse il Presidente De Nicola a rifiutare la grazia.

Pertanto alle 7 e 45 del 4 marzo 1947 i tre assassini accompagnati dal cappellano delle Nuove, Ruggero Cipolla, andarono incontro al loro destino. Nel poligono di tiro delle Basse di Stura a Torino, gli spari dei fucili misero fine alle loro vite.

“Per l’ultima volta la giustizia italiana ricorre alla pena di morte” anche se, secondo alcune fonti, fu la penultima.