La prima lettura della Messa di domenica 11 aprile era tratta dagli Atti degli
Apostoli e rievocava lo spirito che animava la comunità cristiana delle origini: ”nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune“. Papa Francesco l’ha commentata, dicendo che quello era vero cristianesimo e non comunismo, suscitando parecchie reazioni. E’ cosa risaputa che i primi cristiani condividevano volontariamente i propri beni, come, per altro, è storicamente assodato che via via quell’esempio rimase nelle comunità monastiche, ma non ebbe seguito nella vita civile ed economica di società pur considerate cristiane. Il binomio libertà – proprietà finì di prevalere, anzi il raggiungimento del benessere individuale venne considerato un legittimo diritto la cui realizzazione migliorava le condizioni di vita non solo di chi acquisiva dei beni, ma dell’intera società nel suo insieme. Chi volle proseguire l’esperienza degli Apostoli poté farlo liberamente ,anche se la stessa Chiesa finì per doversi adeguare a una logica in cui la proprietà privata ha un suo ruolo ineliminabile .
L’eliminazione della proprietà privata tornò in alcuni pensatori dell’Umanesimo: pensiamo alla “Città del Sole“ di Campanella e all’ ”Utopia“ di Moro. Soprattutto quest’ultima opera divenne sinonimo di sogni politici poco realizzabili. Nel contempo il realismo di Machiavelli fondato sull’essere e non sul dover essere, sull’uomo così come è e non come dovrebbe essere, venne considerato demoniaco. Se escludiamo la parentesi giacobina che attentò al diritto di proprietà , bisognerà ‘ attendere i pensatori dell’utopismo socialista – pensiamo a Proudhon – che si arrovellarono per conciliare una società socialista con la libertà. Il discorso di una società socialista che si rivelò subito incompatibile con la libertà, venne vigorosamente ripreso da Marx e dai suoi discepoli e continuatori che, seguendo la strada della violenza rivoluzionaria, crearono in Russia il primo regime socialista nel 1917. Quel regime fu quanto di più lontano dal Cristianesimo che venne perseguitato in nome dell’ateismo di Stato. E alla fine quel” socialismo reale” sovietico che aveva calpestato i più elementari diritti umani senza migliorare le condizioni di vita delle persone, finì di implodere dopo aver provocato milioni di morti. Il fine anche qui era proprio quello indicato negli Atti degli Apostoli in cui si parlava di una distribuzione di beni “ secondo il bisogno” che era anche il fine ultimo dell’utopia marxiana.
Appare fuori luogo che in una visione pauperistica della società in cui stiamo scivolando si debbano ascoltare certi commenti secondo cui quel modello evocato dalla lettura domenicale ,resta un punto di riferimento di valore sociale anche oggi. Può restare una scelta di vita liberamente praticata senza imposizioni, ma non può certo essere indicata sulla base della esperienza storica come una soluzione dei problemi sociali. La stessa povertà può trovare giovamento da un miglioramento delle condizioni di vita che solo il lavoro, il merito, la proprietà conquistata può consentire. Anche l’esperienza cinese in cui convive il liberismo più sfrenato (neppure confrontabile con le economie occidentali) con una dittatura comunista molto dura dimostra che il marxismo è morto, ma che soprattutto è impraticabile a tal punto da generare come reazione i magnati russi o i nuovi ricchi cinesi. L’ironia della storia ,avrebbe detto Hegel. Dal disfacimento dell’economia socialista non è nata una società liberale, ma qualcosa di molto lontano. Anche l’esperienza cubana e dei paesi dell’America latina non rappresentano certo dei modelli a cui guardare anche se nei loro confronti sopravvive un pregiudizio favorevole senza fondamento. Solo l’Occidente, anzi parte di esso, è riuscito a far crescere libertà politica e relativo benessere individuale, magari anche con contraddizioni ed errori gravi perché le dittature fasciste del ‘900 pesano e ci indicano come la libertà sia sempre in pericolo. Quest’anno ricorre il bicentenario della Comune di Parigi che durò pochi mesi e che alcuni considerano la prima esperienza di autogestione da parte di socialisti libertari. Fu anche conseguenza della sconfitta francese a Sedan dell’anno precedente che segnò la fine del secondo impero napoleonico.
Seppur molto limitata nel tempo e repressa nel sangue, quella esperienza è sicuramente degna di interesse per gli storici, ma non può rappresentare nulla per ciò che riguarda la politica di oggi. Anche i comunardi volevano una società fondata sull’eguaglianza forzata e su un’economia collettivistica su basi rigorosamente laiche. Fu una meteora che oggi nessuno potrebbe riproporre, anche se c’è chi sta rievocando e celebrando quell’evento tanto effimero quanto violento. La grande lezione liberale inglese resta invece nella storia e nell’attualità come un pensiero che continua ad indicarci più che mai oggi la strada del progresso nella libertà. E’ la lezione di cui Luigi Einaudi è stato la più alta espressione in Italia. Ricordo, en passant, che Einaudi era credente e praticante ed aveva una visione morale della vita e dell’economia molto rigorosa. E la cosa non stride affatto.
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