1. I ricchi non devono mantenere i poveri…
È sacrosanto: la liberalità non è un obbligo. Dono quando voglio e a chi voglio, anche a prescindere dallo stato di bisogno in cui si trova o non si trova il destinatario del mio dono. C’è su tutto questo un’ampia letteratura, a cominciare dalla parabola del figliuol prodigo. Anzi, volendo essere un po’ spiritosi, può invocarsi la storiella del povero che, morto, pur avendo condotto una vita da delinquente patentato, pretenderebbe di entrare in Paradiso, perché, a scagionarlo da ogni suo peccato, invoca la condizione di povertà che più povertà non si può. A questo punto San Pietro chiama Francesco e spiega come, per desiderio del Paradiso, si possa da ricchi diventare poveri che più poveri non si può. Il sedicente povero alza le spalle e, bestemmiando, va incontro al suo destino. Va bene. Sul piano della logica il ragionamento non fa una grinza.
2. Pero però
Però si sa che, per ben riuscire, le frittate vanno rigirate. A rigirare questa frittata, sorge la domanda: ma devono i poveri mantenere i ricchi? Mi pare che la risposta sia ovvia. Credo che non si debba essere socialisti per ammettere che, se i ricchi non sono tenuti a mantenere i poveri, a maggior ragione i poveri non sono tenuti a mantenere i ricchi! Hanno già tanti problemi per i fatti loro!
Sono ricco e pago perché un altro faccia il lavoro che dovrei fare io. Ma io che faccio? Lavoro a mia volta e il lavoro che svolgo contribuisce, sia pure in minima parte, al mio benessere e a quello del povero che lavora per me? Oppcure sto a casa a sbirciare il soffitto, stanco della vita e delle preoccupazioni che essa comporta? Nel secondo caso mi guadagnerò il disprezzo del servitore, nel primo invece, per quanto le cose non vadano completamente a posto, c’è una qualche ragione che rende il fatto plausibile. Sono un medico, lavoro in ospedale, l’ospedale funziona egregiamente e chi lavora per me, può perfino sentire gratitudine, specie se gli capita di doversi valere del servizio che l’ospedale pubblico gli mette a disposizione. Se però sono un “padrone” e da padrone mi comporto, il servitore lavorerà solo per la paga.
Se ne deducono alcune “verità” per quanto riguarda la situazione che attualmente si vive in Italia.
L’esercito di quanti lavorano per lo Stato e che per di più pagano le tasse che sono trattenute alla fonte è esente dalle critiche che vanno al datore di lavoro che contravvenga a certi obblighi. Si tratta di circa otto milioni di individui che prima o poi si ridesteranno da un torpore in cui da decenni vivono, soddisfatti dei privilegi, sempre più presunti che derivano dal “posto fisso”. Lavorare per lo Stato significa infatti garantire dei servizi al cittadino, cosa che comunque sia fatta, offre delle tutele a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici o privati che siano. Il discorso è diverso quando parliamo degli imprenditori.
L’imprenditore deve investire sulla sicurezza degli impianti e degli spazi in cui lavorano i suoi dipendenti e curarsi di offrire ai lavoratori che si spendono per lui le garanzie necessarie a impedire un incidente sul lavoro. Secondo l’Istat nel 2021 ci sarebbero stati in Italia 1221 morti sul lavoro e 1090 nel 2022. Stando a quanto si legge sui giornali, si tratta per lo più di lavoratori che operano nel settore dell’edilizia o nelle industrie. Una percentuale non irrisoria è costituita da alcuni che svolgono mansioni di soccorso o militari in addestramento che rientrano nel novero dei pubblici dipendenti. C’è poi un “sommerso”, costituito da morti non denunciate nello stesso interesse dei parenti del defunto, la cui posizione “irregolare” rende ancora più irregolare quella dei congiunti residenti in Italia senza alcun permesso.
Il numero reale di “morti bianche” è dunque maggiore di quello che appare dai dati ufficiali. La situazione è tale da far ritenere che ci sia, tra tanti, qualche datore di lavoro che, non avendo fatto il suo dovere, è tuttavia sfuggito alla giustizia. I controlli che nella pubblica amministrazione sono, o dovrebbero essere, continui e ricorrenti, sono, nel privato, affidati di fatto alla discrezionalità del datore di lavoro, cioè al suo buon senso, e a controlli occasionali a cui l’azienda può essere sottoposta. Si aggiungano poi incidenti comuni, spia di un malcostume consistente nell’incuria dell’imprenditore. Ci si ricordi del crollo della funivia di Mottarone, che non significa che certi comportamenti costituiscano la regola, ma che purtroppo possono verificarsi. È ovvio che poi le responsabilità vanno accertate ma la notizia di disastri di pesante entità è comunque spia di qualcosa che non va. Vedi il crollo del ponte di Genova.
Le imprese sono utili e questo è fuori discussione ma a volte creano danni.
L’imprenditore che evade il fisco ruba ai suoi dipendenti e in genere ai dipendenti pubblici perché le tasse servono a far funzionare i servizi e a pagare gli stipendi ai cosiddetti “statali”. Quanto maggiore è l’evasione fiscale, tanto più grave è il danno apportato alla società.
Nell’Ottocento l’industria acquisiva, comprandoli o affittandoli, gli stabilimenti in cui lavoravano gli operai che trattavano la “materia prima”, altro acquisto dell’industria, dalla quale uscivano poi essenzialmente due cose: il prodotto finito, che, immesso sul mercato, incrementava il capitale; e i materiali di scarto e di rifiuto. Oggi questi ultimi sono notevolmente aumentati e smaltirli è in teoria obbligo dell’imprenditore che gestisca un’impresa che, per quanto vistuosa si sforzi di essere, produce inquinamento. A tutto questo si aggiunga il fatto che, col consumismo, il prodotto finito immesso sul mercato, impacchettato e carinamente confezionato è in buona parte spazzatura. Si pensi ai dolciumi, alle uova di Pasqua che, tra involucro di carta, fiocco decorativo, bicchierino di sostegno e “sorpresa” impacchettata anche quella, presentano una quantità di cose inutili che vanno a finire nella pattumiera.
Se a tutto questo aggiungiamo il malaffare, il panorama complessivo si fa desolante. Si deve infatti concludere che, del tutto irragionevolmente in Italia i poveri mantengono i ricchi.
3. Sporcarsi le mani
Se ci domandiamo quale sia l’origine di tanti mali, scopriamo che tutto nasce dal disprezzo per il lavoro manuale e dalla esaltazione del lavoro intellettuale, secondo una prospettiva che venne a delinearsi in Italia e nel resto d’Europa con lievi differenze da paese a paese, nel Seicento. È l’epoca in cui inizia la rinascita della filosofia, una filosofia che, diversamente da quella socratica che ha un’anima popolare, rinasce come sapere erudito, passatempo prediletto della nobiltà della toga, che venne definendo il suo ruolo proprio in quell’epoca, entrando in competizione con la nobiltà della spada. In questo quadro nessuno stupore suscita l’idea che si potesse acquistare la “mano d’opera”, espressione che nella sua durezza contiene anche le ragioni storiche della crisi economica che attraversa il mondo occidentale. Il concetto di mano d’opera ha di sbagliato l’opinione che il lavoro manuale sia un lavoro di livello inferiore a quello intellettuale. Si nasconde del tutto ipocritamente una verità che a me pare palese: la mano e la mente si coordinano e la persona (intelligente) non è quella che guida la mano, comunque questa sia, sua o di altri. È infatti la persona a svolgere il lavoro manuale, mettendoci la sua intelligenza, cosa che la mette in condizione di far meglio il proprio lavoro, arrivando a misurare lui / lei lo sforzo fisico, motorio, cognitivo, che gli consenta di fare sempre meglio.
Il mito del lavoro intellettuale contrapposto a quello manuale ha fatto perdere di vista la realtà che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire che nel mondo dell’industria sono reclutati sempre più spesso non bravi ma bravissimi artigiani, alcuni dei quali assai ben pagati per il lavoro, anzi per la prestazione d’opera compiuta. Non sono artisti per la semplice ragione che i tempi di consegna del loro lavoro non consente più di tanto l’esercizio di quella lima che serve a “perfezionare” l’opera (d’arte), che, varata come tale, viene poi proposta al pubblico come opera dell’ingegno (ohibò, che parolone!) che, uscita dall’anonimato appartiene all’autore, cosa che non accade dell’artigiano che presti occasionalmente la sua opera. Parliamo di egregi disegnatori che lavorano nel campo della moda, di designer prestati al mondo dell’industria per dare forma agli oggetti più disparati, dagli orologi ai biscotti; dalle scarpe alle posate da tavola.
Queste cose che erano assai chiare all’intelligenza di un filosofo come Giordano Bruno, sono state messe in ombra in un’epoca che non ha saputo fare del lavoro né un gioco né un’arte, ma un’esecuzione di ordini che persone, costrette a vestire i panni dell’idiota, hano per secoli dovuto portare a termine per accontentare idioti talvolta più idioti di loro che presumono per il grado sociale a cui appartengono d’avere maggiori conoscenze, maggiore agilità di pensiero di chi, pagato, esegue i loro ordini. Ed ecco che chi “paga” si sente in diritto di pretendere che il povero artigiano faccia come dicono loro, per poi rimproverare all’artigiano, che aveva pure tentato di metterlo sull’avviso, un lavoro mal riuscito. I fatti sono fatti e vanno ricordati.
Cominciamo da Giordano Bruno, le cui disgrazie iniziarono il giorno che incontrò il meno dotato degli allievi in cui possa incappare un povero professore. Bruno conosceva la mnemotecnica, cioè l’arte di potenziare la memoria e questo suo allievo, che era un nobile veneziano, non riusciva a impadronirsi delle tecniche necessarie a ravvivare, destare e potenziare la propria memoria e si sentì preso in giro dall’insegnante. Avendo quindi scoperto che il suo professore aveva idee pericolose, come fanno gli imbecilli, pensò di vendicarsi e denunciò Giordano Bruno all’Inquisizione. Per il poveretto fu la fine e, al tempo stesso, il principio. La fine perché, dopo otto anni di sofferenze e patimenti, sarebbe stato giustiziato nell’orrendo modo che sappiamo. Il principio perché gli inquisitori che non ne conoscevano l’opera andarono a leggersela e, pur non essendo di ingegno particolarmente vivace, capirono che le idee propugnate dal frate erano “pericolose”, anzi “pericolosissime”, destando però in tipi curiosi la voglia di leggere quel che era “proibito” e che si rivelò nei secoli successivi molto interessante. È proprio Bruno a dire che l’uomo deve la sua supremazia rispetto agli altri animali alla mano che lo ha messo in condizione di creare e potenziare gli strumenti di comuicazione con i suoi simili. Oggi apprendiamo da Yuval Noah Harari, autore di un bestseller sulla storia dell’umanità (Sapiens. Da animali a dei, apparso in traduzione italiana già nel 2014), che il segreto del nostro successo, come specie animale, è l’immaginazione e che 70.000 anni fa ci sarebbe stata una “rivoluzione cognitiva” con cui si gettarono le basi a quel tipo di rappresentazione – comunicazione che sfrutta il disegno.
Non c’è che dire: la manipolazione, lo sporcarsi le mani, è una scelta con cui l’uomo ha aguzzato l’ingegno risolvendo tanti suoi problemi. Ed è questa una verità di tutti i tempi.
4. Come l’industria sfrutta le grandi intelligenze
Venendo alla situazione di oggi, è noto che nel mondo dello spettacolo si muovono, non viste, grandi intelligenze che lavorano per “divi”, cioè per creare e mantener viva l’immagine di divi, alcuni dei quali hanno meriti obiettivi che però mancano ad altri che, grazie a queste intelligenze che si muovono nell’ombra, restano comunque a galla.
Tanto per dire, gli italiani sono persuasi che i cantautori scrivano sia la musica, sia i testi delle canzoni. In realtà il cantautore è chi esegue le sue musiche in pubblico, senza l’intermediazione di quel particolare tipo di interprete che era il cantante tradizionale, dalla bella voce impostata. Pare sia stata Mina, stanca di essere inseguita da bravi compositori di musiche per canzoni a suggerire n a tanti di loro di provvedere da sé all’esecuzione del brano musicale, il cui paroliere è spesso ignorato, sebbene riscuota consistenti diritti d’autore che gli paga la SIAE. Se si sa che i testi di molte delle canzoni di Lucio Battisti sono di Mogol, che è una figura leggendaria di questo mondo sommerso dei parolieri, si ignora dalla maggior parte degli italiani l’opera da tanti “parolieri” prestata a Celentano, de Andrè, Modugno, Paoli, Gaber e a numerosi altri.
Se si considera che “Azzurro” di Paolo Conte è per molti italiani di Celentano e che Moricone ha “abbellito” le canzoni da spiaggia di Edoardo Vianello, con tutto il rispetto per personaggi di sicuro valore come sono Celentano e Vianello, direi che a Mogol, a Conte e a Moricone si può motivatamente riferire più di un soffio di autentica genialità. Se dal mondo dello spettacolo passiamo a quello dell’editoria, scopriamo che l’editing, l’operazione con la quale si dà a un romanzo la veste definitiva, è stata per lungo tempo condotta da egregi scrittori che hanno in tal modo affinato le loro capacità, ma che oggi è sempre più spesso affidata all’autore, non avendo tanti editori la possibilità di garantire l’editing agli autori di cui pubblicano l’opera. Se passiamo ai prodotti della moda e dei beni che acquistiamo al Supermercato, la situazione non è granché diversa. Se ne conclude che oggi il lavoro intellettuale non è meno sfruttato di quello manuale.
Se poi andiamo al mondo di quel lavoro intellettuale che è l’insegnamento, ovvero quello del pubblico funzionario che esercita, come un tempo si diceva un lavoro di concetto o svolge in un ufficio mansioni direttive, scopriamo che siamo vicini alla proletarizzazione di chi fa un lavoro “prettamente” intellettuale. Col che i fatti restituiscono finalmente la verità. È, comunque sia, chi lavora a produrre ricchezza, anche se questa ricchezza non sarà mai sua.
L’mprenditore, che senza sua colpa, ha magari un titolo di studio inferiore a quello conseguito da chi lavora per lo Stato, ha agevolazioni fiscali negate ai pubblici dipendenti, per la ragione che dà lavoro, con ciò mantenendo (cosa che è tutta da dimostrare) la pace sociale. A me pare che questa sia compromessa in un paese che come il nostro presenta tante imprese a conduzione familiare, dove i minori e gli anziani prestano gratuitamente (o quasi) la loro opera. Queste piccole imprese, a volte costituite da persone oneste che si impegnano nel loro lavoro, sono quelle realmente virtuose.
5. I signori migranti
Si aggiunga che tra i migranti, cioè l’attuale sottoproletariato, sono diversi coloro che hanno un medio-alto livello di istruzione e che in Europa si adattano a lavorare per padroni più ignoranti di loro. Del resto i costi del viaggio della speranza sono obiettivamente elevati e i poveri autentici che nel loro paese s’ammazzano tra loro per un bicchiere d’acqua non possono permettersi il lusso di impegnare cifre assolutamente proibitive per chi abbia il problema di far fronte a bisogni autenticamente elementari. Siamo di fronte a due economie chiuse che non hanno strumenti per dialogare tra loro.
Per quanto in particolare riguarda l’Italia, posso dire d’aver insegnato per diversi anni all’estero e che, a un certo punto il governo italiano, presieduto da Berlusconi, operò una stretta sui lettorati nelle università straniere e sugli istituti di cultura all’estero. Mi permetto di dire che fu un errore che adesso scontiamo. Nelle ex – colonie francesi, inglesi, spagnole ecc. s’erano voltate le spalle alle lingue imposte dai dominatori e l’italiano, per quanto lingua di nicchia, ma anzi proprio per questo, era preso in considerazione come lingua da studiare da tanti studenti che volevano imparare la storia, la musica, la storia dell’arte, non solo italiana ma anche del loro paese, essendoci in Italia raccolte d’arte e di documenti storici provenienti da tutti i paesi del mondo. Chi abbia ficcato il naso anche soltanto una volta all’Archivio segreto vaticano lo sa benissimo. Io ricordo una sala, detta sala degli indici, e uno studioso che, vedendomi in difficoltà, mi disse “eh, sì! Questi indici sono poveri e lacunosi!” Oggi so che aveva ragione perché l’indicizzazione dei documenti è una scienza assai poco praticata e un indice ben fatto può, a buon diritto, essere più ampio dell’opera a cui fa riferimento. Si perse allora l’occasione per selezionare in loco personale altamente qualificato da reclutare senza paura in Italia. Questo personale venendo in Italia, conoscendone abbastanza bene bene la lingua e la cultura, avrebbe potuto costituire un sicuro punto di riferimento per quei connazionali che avessero avuto interesse a venire in Europa, a cominciare da quanti, acquisita la cittadinanza italiana, avrebbero potuto garantire per loro. Si preferì a una politica culturale una politica di mercato, sapendo perfettamente che il mercato, compreso quello della mano d’opera, è in parte fisiologicamente “mercato nero”. E in virtù di un’economia chiusa, incapace di intendersi con un mercato regolato da altre esigenze, il “mercato nero” prospera e tanti “entrano” in Italia non si sa come, alimentando la manovalanza della criminalità più o meno organizzata, mentre chi approda con documenti in mano è “clandestino” non si sa bene perché e in che senso.
Il paradosso è che il neo-capitalismo non ha niente a che fare con il liberalismo da cui pure è nato, ma ha molto a che vedere con l’economia chiusa del Medioevo. Non a caso ha creato di nuovo privilegi di cui godono solo certe categorie di persone.