Nel mese di novembre del 2005 Cesare Salvi e Massimo Villone, al tempo entrambi senatori del partito dei Democratici di Sinistra, pubblicarono un libro titolato “Il costo della democrazia“; sottotitolo: “Eliminare sprechi, clientele e privilegi per riformare la politica” (Arnoldo Mondadori, Editore).
La scelta del titolo era significativa: non si parlava di “costi della politica”, ma di “costi della democrazia”. La logica implicita in questa scelta è che in un sistema democratico è comunque inevitabile che una parte dei costi dell’attività politica gravi sul bilancio dello Stato e sui bilanci delle Regioni e degli Enti locali. Si tratta, quindi, di ragionare sui numeri. Ciò che, dal mio punto di vista, è inaccettabile è che si adoperi l’esigenza di “partecipazione democratica” come pretesto per giustificare qualunque tipologia di spesa, per un numero sempre maggiore di beneficiari.
Salvi e Villone scrivevano che la “Politica S.p.A.” è ormai diventata la più grande azienda pubblica italiana. «Emerge, dall’insieme dei dati che abbiamo raccolto, che quasi 200 mila sono le persone che in Italia sono retribuite per essere state elette o per avere un incarico di governo» (si veda pag. 50).
Mentre l’articolo 69 della Costituzione prevede soltanto una indennità per i parlamentari, Salvi e Villone osservavano che «quello di eletto sta diventando un posto di lavoro di nuovo genere, una carriera che assicura a un numero crescente di persone lo stipendio, la pensione, la liquidazione, l’assistenza, i benefit e anche privilegi non funzionali al mandato popolare. La rappresentanza elettiva diventa attività professionale retribuita» (si veda pag. 51).
I duecentomila politici “di professione”, quantificati da Salvi e Villone alla fine dell’anno 2005, non sono spariti. Hanno altre facce, altre storie politiche, ma sono sempre lì.
Il 20 e 21 settembre prossimi gli Italiani saranno chiamati a decidere, nell’apposito Referendum, se confermare, o meno, la modifica costituzionale approvata dal Parlamento con la procedura dell’articolo 138 della Costituzione (doppia deliberazione di ciascuna Camera, ad intervallo non inferiore di tre mesi tra l’una e l’altra, e approvazione almeno a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nella seconda lettura). La posta in gioco è: A) ridurre il numero dei membri della Camera dei deputati da 630 a 400, con contestuale riduzione dei deputati eletti nella Circoscrizione Estero da 12 a 8; B) ridurre il numero dei membri del Senato da 315 a 200, con contestuale riduzione dei senatori eletti nella Circoscrizione Estero, da 6 a 4.
Per quanto mi riguarda voterò “Si”, ossia per la conferma della riforma costituzionale. Tengo a precisare che avrei sostenuto con convinzione ed entusiasmo una proposta esclusivamente finalizzata a ridurre il numero dei parlamentari, chiunque l’avesse formulata. Destra, Sinistra, Centro, bolscevichi redivivi, “camicie nere” redivive, eccetera. Il fatto che la proposta sia partita dal Movimento Cinque Stelle, di conseguenza, non mi fa né caldo, né freddo.
In occasione dei due Referendum confermativi, rispettivamente tenutisi nel giugno del 2006 (su un testo del governo Berlusconi) e nel dicembre del 2016 (su un testo del governo Renzi), sono stato contrario a progetti di modifiche costituzionali, i quali pure avrebbero comportato una consistente riduzione del numero dei parlamentari, proprio perché si trattava di riforme complessive della Costituzione, dalle quali, secondo me, sarebbe risultato, non un miglioramento, ma un peggioramento degli assetti costituzionali.
In questo caso, invece, la questione è circoscritta: la riforma si risolve in quanto detto, cioè in una riduzione della quantità dei parlamentari, e lascia invariato tutto il resto delle disposizioni della Costituzione.
Molti autorevoli docenti universitari di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico hanno sottoscritto un appello per il “No”. Si sono lamentati, tra l’altro, perché la riforma sarebbe ispirata da una “logica punitiva nei confronti dei parlamentari”. Sì, lo confesso, io sono ispirato anche da questa logica. Sì, lo confesso, il mio giudizio sull’attuale ceto politico parlamentare, considerato nella sua media, è molto negativo. Il debito pubblico fuori controllo è soltanto uno dei tanti, possibili, indicatori oggettivi della cattiva qualità dei parlamentari. Potremmo parlare anche dell’inflazione normativa, dell’approssimazione con cui vengono scritte le leggi, delle finalità clientelari che caratterizzano la maggior parte dei provvedimenti di spesa, eccetera.
Maturi docenti universitari, i quali per un fatto miracoloso assumono le fattezze di Alice nel Paese delle meraviglie, asseriscono che la riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a votare il 20 e il 21 settembre comporterebbe, se approvata, un “fatale svilimento del ruolo del Parlamento”. Stiamo forse scherzando?
I maturi docenti universitari hanno mai sentito parlare della legge elettorale Calderoli (legge 21 dicembre 2005, n. 270), cosiddetta “Porcellum”, in applicazione della quale i parlamentari sono stati eletti tre volte, costituendo poi le due Camere nelle legislature, dalla quindicesima alla diciassettesima? Ne dovrebbero aver sentito parlare, dal momento che la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime alcune disposizioni di quella legge elettorale, con sentenza n. n. 1/2014. I parlamentari erano eletti in liste “bloccate”, senza che gli elettori potessero esprimere alcuna preferenza. La legge medesima consentiva ad una stessa persona di essere candidata in una pluralità di circoscrizioni; così il vertice del partito poteva riservarsi un ulteriore potere decisionale: quello di determinare la scelta del candidato risultato eletto in più circoscrizioni, facendolo optare per una, piuttosto che per le altre.
A partire dalla dodicesima, fino all’attuale diciottesima legislatura, c’è stata una china soltanto discendente nella qualità dei parlamentari e ciò per le perverse norme che stabilivano i criteri di selezione della rappresentanza. Che qualità possono esprimere dei parlamentari scelti in base alla fedeltà al capo del partito che li ha “nominati”? Che prestigio possono avere dei parlamentari, la cui funzione si esaurisce nell’essere presenti al momento delle votazioni, nelle Commissioni e in Aula, e nel premere i bottoni giusti del sistema di voto elettronico, secondo le indicazioni dei partiti di appartenenza? Li hanno chiamati “peones” e meritano questo appellativo. Tagliarne 345 non sarà una gran perdita per la comunità nazionale.
Mi viene da ridere, osservando dei sedicenti difensori della democrazia rappresentativa, o democrazia parlamentare, o “democrazia liberale” tout court, schierati a difesa della Costituzione vigente contro le asserite manovre eversive del Movimento Cinque Stelle.
Questi profondi conoscitori della democrazia liberale, se fossero veramente tali, dovrebbero sapere che in Italia viene in considerazione una ormai molto vasta letteratura, che parte dalla fine del diciannovesimo secolo e che ha per oggetto il malcostume politico. Mi limito, in estrema sintesi, a citare qualche titolo.
1) “Teorica dei governi e governo parlamentare” (1884) e “Elementi di scienza politica” (1896) di Gaetano Mosca. Mosca era palermitano, ma, come studioso, acquisì fama nazionale ed europea insegnando nell’Università di Torino. Si deve a Mosca il concetto di “classe politica”.
2) “Storia del potere in Italia. 1848-1967“, di Giuseppe Maranini. Maranini ha messo in luce il concetto di “partitocrazia”.
3) “Settimo: non rubare” (1952) e “Il Malgoverno” (1954), mi limito a citare due libri, dal titolo più evocativo, di Ernesto Rossi, ma tanti altri potrebbero essere richiamati. Come dovrebbe essere noto a tutti, Rossi scontò nove anni di carcere e tre anni e mezzo di confino perché attivamente antifascista.
4) “La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili” (2007) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.
Nel citato libro di Maranini, ripubblicato nel 1983 con una prefazione di Silvano Tosi (lo conoscete, cari sedicenti “liberali”?), si trovano preziose informazioni sulla letteratura di cui sto parlando, fino agli anni Sessanta.
Purtroppo, gli esponenti del Movimento Cinque Stelle non brillano quanto ad elaborazione intellettuale. Chi fosse interessato a contrastare la “cattiva politica” e a studiare i possibili rimedi per contrastarla ed arginarla, può cominciare a leggere alcuni dei libri che ho citato. Vi troverebbe le più solide e convincenti argomentazioni per votare “Si” al Referendum.
A quanti sostengono che il risparmio economico conseguente alla riduzione del numero dei parlamentari sarebbe irrisorio, mi limito ad accennare a due ulteriori voci di spesa, logicamente connesse. Con un numero minore di parlamentari, alle due Camere servirebbero spazi minori e, quindi, potrebbe essere ridotto il numero degli immobili affittati nel Centro di Roma (al riguardo, leggere “La casta“). Sempre tra le possibili voci di risparmio, suggerisco pure di considerare che la riduzione del numero dei parlamentari comporterebbe l’esigenza di rivedere le piante organiche degli apparati burocratici serventi della Camera e del Senato. Ci sarebbe bisogno di un minor numero di impiegati e di funzionari, di tutte le qualifiche. Qui il risparmio sarebbe molto più consistente. Anche il personale direttamente pagato dai Gruppi parlamentari – ma sempre con soldi pubblici – dovrebbe essere logicamente ridotto: addetti stampa, giornalisti, collaboratori dei singoli parlamentari. Ossia, tutto il sottobosco della politica politicante.
La retorica di un “caffè all’anno”, come risparmio medio per ogni cittadino italiano, dimostra quanto le interessate vestali della partitocrazia abbiano a cuore il risanamento dei conti pubblici.
Palermo, 28 agosto 2020
Livio Ghersi