Che i social e le app siano entrati prepotentemente a far parte della nostra quotidianità è un dato di fatto inconfutabile del quale abbiamo avuto di recente l’ennesima conferma.

Quando il 4 ottobre scorso, Facebook, Instagram e Whatsapp hanno cessato di funzionare, seppure per un numero circoscritto di ore, molte persone si sono sentite perse ed invase da una vera e propria “ansia” da comunicazione e da isolamento dal mondo (ovviamente da un mondo esclusivamente virtuale).

Indubbiamente il mondo dei social e delle app è un fenomeno di natura sociale ed economica ma lo è anche dal punto di vista del diritto.

Quest’ultimo, infatti, è una realtà dinamica strettamente collegata all’evoluzione della società.

Ed è proprio sui risvolti giuridici, o meglio su un particolare risvolto giuridico, dell’utilizzo di social ed app che mi voglio in questa sede soffermare, vale a dire sul reato di diffamazione.

Partiamo con Whatsapp.

Del reato di diffamazione attraverso tale canale si è, di recente, occupata la giurisprudenza in due casi particolari ed interessanti.

Il primo concerne un post lesivo dei diritti e della dignità di una persona pubblicato sullo “stato” Whasapp.

Esso, secondo la Corte di Cassazione, configura il reato di diffamazione qualora i contenuti del post siano visibili ai contatti presenti in rubrica.

Il secondo caso sul quale si è espressa la Suprema Corte riguarda, invece, riguarda un messaggio inviato ad un “gruppo” Whatsapp contenente espressioni lesive della reputazione e della dignità altrui.

Anche in tale ipotesi è stato configurato il reato di diffamazione con la precisazione, tra l’altro, che esso ricorre anche qualora del “gruppo” faccia parte anche la persona offesa  (non potendosi, secondo gli ermellini, in tale ipotesi parlare di ingiuria).

Cosa accade, invece, nel mondo dei social?

L’Autorità Giudiziaria si è soffermata sulla diffamazione a mezzo Facebook statuendo che ricorre il reato di diffamazione, qualora sia pubblicato un post lesivo della reputazione, dignità ed immagine di una persona, anche se quest’ultima sia tra i lettori del post steso.

In tale ultima ipotesi, quindi, la Corte di Cassazione non ha ravvisato gli estremi dell’ingiuria bensì del reato di diffamazione, facendo prevalere la circostanza che il post è diretto ad una pluralità di soggetti e non in via diretta alla sola persona offesa.