Poco meno di un anno fa, in una scuola tornata in presenza senza green pass, vaccini o tamponi; alle prese con protocolli di sicurezza da rodare e mascherine da cambiare; e con la spada di Damocle dei lockdown, pericolosamente appesa a un sottilissimo filo sopra le teste di studenti e docenti; il Ministero dell’Istruzione, ormai orfano di quello dell’Università e Ricerca, introdusse un nuovo sistema di valutazione. Non è la prima volta che il sistema di valutazione cambia. Io, per averli visti nelle mie pagelle, mi ricordo, ancora vividamente, dei bravissimo, bravo, bene e male; soppiantati dai voti da insufficiente a ottimo; sostituiti, in seguito, dalle lettere dell’alfabeto: A, B, C, D, E; rese, infine, obsolete dai nuovissimi – si fa per dire – voti numerici.

Poi è arrivato il fatidico dicembre 2020, in cui la preannunciata riforma della valutazione è stata dichiarata valevole retroattivamente per tutto l’anno scolastico in corso. Dell’impatto di questa rivoluzione su una scuola ancora sofferente per le ferite lasciate dal Covid19 ho già parlato (link). Oggi vorrei riflettere, piuttosto, sul senso antropologico e sociale di questa innovazione, apparentemente innocua. L’intento dichiarato dal legislatore sarebbe di non sminuire il lavoro svolto dai bambini più fragili, sostituendo ai voti più o meno alti i seguenti livelli: avanzato, intermedio, base, in via di prima acquisizione. Ma, in primo luogo, obietterei che se uno prende in via di prima acquisizione invece di avanzato, non è che possa pensare di essere andato bene. In secondo luogo, questa valutazione cela una visione antropologicamente e pedagogicamente deleteria. Infatti, per ottenere avanzato uno dovrebbe svolgere la prova comprendendo un compito non noto (diverso da quelli proposti in classe insieme) in modo autonomo (senza alcun intervento dell’insegnante), utilizzando risorse esterne (cioè conoscenze acquisite al di fuori della scuola) e ottenendo risultati positivi con continuità (cioè studiando e applicandosi con costanza). Che cosa significa tutto ciò in realtà? Che avanzato si potrà assegnare, in prima istanza, solo a chi è brillante, ma la scuola dovrebbe valutare prestazioni e non quozienti intellettivi (di cui si occupano già i neuropsichiatri). In seconda istanza, l’agognato avanzato sarà ottenuto solo da chi avrà la fortuna di aver appreso nozioni ulteriori grazie a un ambiente familiare culturalmente stimolante. E gli altri? Navigheranno nel mare degli intermedi di base o in via di prima acquisizione. Non vorrei che fossimo arrivati, dunque, agli epigoni di una scuola, che, avendo rinunciato da anni a rivestire il ruolo di ascensore sociale, si sia ormai ridotta a garantire che ognuno rimanga nel proprio ceto sociale. Si tratta, forse, di una nuova valutazione che ci riporta a una società classista, dove fin da piccoli è meglio insegnare a ognuno a restare al proprio posto. Dove alla formazione dell’uomo e del cittadino si preferisce la creazione di tecnici competenti e, possibilmente, con poche conoscenze. Perché meno si conosce, minori possibilità si hanno di nominare ciò che ci circonda. E, senza un adeguato bagaglio lessicale, diventerà sempre più difficile concepire pensieri elaborati. E pensare criticamente si trasformerà in un passatempo riservato a pochi eletti.