Il reato di diffamazione è previsto dall’articolo 595 del Codice Penale che punisce chi “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. La Corte costituzionale è  intervenuta a limitare le pene stabilite, riducendo la carcerazione (in alternativa alla multa) prevista solo nei casi particolarmente gravi. L’articolo 13 della legge sulla stampa  dell’8 febbraio  1948 n. 47  è stato considerato incostituzionale, sottovalutando, a mio modo di vedere erroneamente, il fatto che la diffamazione a mezzo stampa o anche via internet è una grave lesione alla dignità, a volte con effetti devastanti e  indelebili sulle persone aggredite. Diffamare può significare uccidere e questo fatto  non può essere trascurato in un contesto in cui i social sono veicoli quotidiani di notizie false che offendono le persone oggetto di post che esprimono sistematico odio e  linguaggi violenti. L’azione della Polizia postale è condizionata e limitata da un clima permissivo non più  tollerabile.  I diffamatori seriali che in Italia sono in crescita, non hanno mai pagato per la loro  attività rovinosamente distruttiva, spesso combinata  più con la malafede e il livore  che con l’inadeguatezza professionale. Solo Giovannino Guareschi di fece un anno di carcere. Fu un’eccezione. Appare strano che in questo Paese si facciano o si vogliano fare leggi speciali contro determinati crimini di violenza anche verbale contro specifiche categorie di persone (il ddl Zan è solo un esempio) e poi si tenda a mitigare le sanzioni penali a chi attenta alla dignità delle persone, scrivendo il falso. Il decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7 ha addirittura abrogato il reato di ingiuria previsto dall’articolo 594 del C. P. Giustamente la depenalizzazione ha portato a sollevare tesi della sua  incostituzionalità  perché il fatto di attentare all’onore di una persona  è stato  ricondotto ad una  mera questione civilistica, eliminando il bene dell’onore, del decoro e della reputazione dal sistema di tutela pubblicistica dei diritti  fondamentali garantiti costituzionalmente. Alla vittima non resta che intentare una causa civile di risarcimento dei danni. Con la depenalizzazione è venuto a mancare pure  il deterrente a  non offendere l’onore altrui con conseguenze facilmente immaginabili in un’Italia cialtrona in cui l’urlo e l’invidia sociale prevalgono. Può sembrare incomprensibile che si alleggeriscano le conseguenze a chi ingiuria o addirittura diffama a mezzo stampa e si vogliano  invece inasprire le pene per reati che colpiscono la dignità di una persona  in rapporto  a una sua  connotazione   specifica. La Corte Costituzionale , abrogando l’art. 13 della legge sulla stampa , ha  di fatto dato ragione ai due tribunali che avevano sollevato la illegittimità costituzionale  del carcere previsto per chi diffama. Ed ha privilegiato la libertà di espressione (ma diffamare è ben altro)rispetto alla tutela della reputazione. Una scelta inaccettabile perché i due elementi andrebbero bilanciati con assoluto equilibrio. Quando poi leggo che l’ex Presidente della Corte  Costituzionale Cesare Mirabelli si schiera per la massima tutela della libertà di opinione tutelata dall’articolo 21 della nostra Carta, “salvo che si tratti di diffamazione, dolo, eccetera“ (il “Corriere  della Sera“ scrive proprio così) mi viene da sorridere o da piangere. Non sarebbe il caso che il Parlamento riprendesse in modo organico tutta la materia relativa alla tutela della dignità personale? Oggi non mi sembra più tutelata, pur riguardando tutti i cittadini, nessuno escluso.