La morte di Nicola Tranfaglia ci rattrista perché malgrado le radicali differenze di idee, c’era una certa simpatia da parte sua verso il Centro Pannunzio, di cui una volta scrisse anche un elogio. Forse non si dimenticava delle prime esperienze giornalistiche al “ Mondo” di Pannunzio su cui scrisse otto articoli tra il 1959 e il 1963 e a “Nord Sud” di Francesco Compagna che fu collaboratore e amico di Pannunzio; forse si ricordava che presentammo al Centro Pannunzio la sua biografia di Carlo Rosselli, pur tanto diversa da quella di Aldo Garosci che costituisce ancora oggi un riferimento importante per conoscere la vita, il pensiero e le battaglie dell’apostolo del “Socialismo liberale”. Nicola aveva via via acquisito l’idea di una storia fortemente militante ed ideologica: impegno politico e impegno storico per lui erano la stessa cosa, una commistione per noi non accettabile. Anche Alessandro Galante Garrone che lo ebbe assistente, pensava in privato più o meno le stesse cose di Tranfaglia e una volta mi disse che lui antifascista militante non avrebbe mai scritto in termini storici sul fascismo perché mancava dell’indipendenza necessaria per storicizzarlo: una posizione che il “mite giacobino” riprendeva da Croce e che Tranfaglia avrebbe sicuramente condannato. Molto duro su Tranfaglia fu anche Raimondo Luraghi che riteneva l’ideologia un veleno letale per la storiografia. L’opera di Tranfaglia è molto ampia ed articolata ma il suo minimo o massimo comun denominatore è uno solo: la valutazione ideologica dei fatti. Alcuni libri sono pregevoli, altri sono destinati all’oblio. Ma questa sorte è comune a tutti gli storici o quasi. I libri sulla mafia e la teoria del doppio Stato, ad esempio, sono troppo politicamente impregnati di tesi fondate sul sospetto per essere attendibili. Tranfaglia da’ credito storico alla peggiore magistratura schierata e alle vulgate demagogiche di padre Pintacuda e di Leoluca Orlando, il sindaco di Palermo noto per le posizioni estremiste. Le sue polemiche aspre contro De Felice furono davvero “cattive “ ed infondate .Mentre l’opera di De Felice risalta in tutta la sua grandezza a venticinque anni dalla sua morte ,le critiche persecutorie di Tranfaglia si rivelano armi spuntate . Un suo ex allievo, scrivendo di lui , ha detto che egli ebbe l’ambizione di creare a Torino una scuola storica anti defeliciana che oggettivamente si stenta a vedere nei suoi frutti. L’ostilità a De Felice è rimasta intatta ma la scuola a lui contraria continua a brillare per faziosità, senza aver prodotto opere degne di particolare nota. La sua opposizione, in verità un po’ meschina, all’abolizione della norma transitoria della Costituzione che vietava l’ingresso in Italia degli eredi Savoia fu vendicativa e non ebbe consenso. Un gesto di pura faziosità politica. Tentò anche la carriera politica come deputato nei comunisti italiani e poi con Di Pietro ma non divenne deputato europeo. Giungere a condividere il giustizialismo di Di Pietro fu davvero strano per un marxista duro e puro come lui ,anche se in effetti il suo marxismo fu misto ad un giacobinismo radicale Aveva fama di professore molto severo in tempi di facilismo e questo gli fa molto onore. E questo andare controcorrente fa di lui un’eccezione positiva in una università che si era arresa al quieto vivere. Rendiamo omaggio alla sua immensa capacità di lavoro che fu davvero molto significativa anche come organizzatore di cultura oltre che come studioso. La rivista “Resistenza“ subì una virata a sinistra ad opera sua, di Quazza e di De Luna che volevano portare i resistenti ad avallare la tesi dell’operaismo e di una contestazione erede di una Resistenza tradita .Solo pochi si ribellarono a quella deriva sciagurata (che favorì anche il terrorismo ) come Carlo Casalegno e Carlo Dionisotti che lasciarono il giornale che dopo poco chiuse i battenti . Con lui finisce la generazione dei professori dell’età di mezzo. I suoi allievi e seguaci non hanno, salvo eccezioni, le sue qualità intellettuali ma ebbero tutti o quasi la cattedra. Tranfaglia ha saputo sostenere i suoi allievi, cosa non vollero fare altri docenti più qualificati di lui. Ambiva a creare una scuola ma i fatti hanno dimostrato che ,malgrado i suoi sforzi generosi, l’obiettivo non è stato centrato .Nessuno da lui dissenziente poté però insegnare a Torino per lunghi anni. L’allora istituto di storia dell’ Università fu un‘enclave rossa impermeabile al confronto delle idee. Quando fu preside della Facoltà di Lettere si vide in modo evidente il suo impegno ma anche la volontà tutta giacobina che metteva nel suo lavoro. Come tutti quelli che professavano le sue idee, ebbe anche un senso di superiorità morale che giunse a discriminare in buoni e cattivi in base alle idee politiche. Rendiamo omaggio alla sua coerenza ma non possiamo far a meno di evidenziare le distanze dal suo modo di intendere la storia e la politica. Eppure aveva cominciato scrivendo sul “Mondo” di Pannunzio.
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