Gaetano Salvemini è stato uno dei personaggi che meglio ha espresso la cultura laica della democrazia italiana. Il suo pensiero politico si forma negli ultimi anni del XIX secolo, ma si colloca in quello successivo, considerato comunemente il secolo più tragico della storia umana per i terribili eventi delle due guerre mondiali, dei totalitarismi moderni e dei rivolgimenti sociali provocati dal colonialismo e dal terrorismo internazionale. Collocabile in un’area politica ben definita di democrazia laica, che sta tra liberalismo e socialismo, Salvemini fu un fiero oppositore del «giolittismo» con una critica che egli espresse nel famoso pamphlet Il ministro della malavita  (1910) [1]: un giudizio che attenuò negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.

     Di fronte al fascismo Salvemini considerò la «rivoluzione» mussoliniana un fenomeno transeunte, destinato cioè a scomparire dopo la sconfitta del bolscevismo antinazionale. I giudizi elogiativi su Mussolini e la critica alla leadership socialista furono dettati da schemi concettuali elaborati nell’«età giolittiana», superati ben presto per la comprensione della reazione fascista alle esigenze della democrazia sociale. Il discorso sul fascismo fu così strettamente associato alla questione della democrazia, la cui lezione storica doveva essere ripresa per rimuovere le cause che ne hanno favorito il successo ideale.

     Lungo un percorso di rinnovata coscienza dei cittadini per la libertà e il bene comune, Salvemini invoca più volte la chiarezza di linguaggio e il ripristino di lemmi politici come democrazia, liberalismo e socialismo, che rappresentano le tappe essenziali che dalla Rivoluzione francese in poi plasmano la coscienza civile europea nel XIX secolo. A differenza di Léon Daudet (1867-1942), che lo considera «lo stupido secolo decimonono», egli rimane fedele per tutta la vita a quei lemmi politici, considerandolo «come il più intelligente, il più umano, il più glorioso dei secoli»[2].

     La storiografia contemporanea su Gaetano Salvemini prende le mosse da una serie di conferenze promosse dall’editore Laterza nel settembre 1958 e pubblicate l’anno successivo[3]. A un anno di distanza dalla sua morte – era nato a Molfetta l’8 settembre 1873 – avvenuta a Sorrento il 6 setembre 1957, molti intellettuali avvertirono la necessità di dare una valutazione complessiva dell’opera di Salvemini e di «inquadrarla criticamente nel suo tempo», rapportando il suo pensiero e i contributi storici alla situazione contingente[4]. Un contributo decisivo fu dato in questa direzione da uno dei suoi più affezionati discepoli, Enzo Tagliacozzo, che – vivente Salvemini – dedicò allo storico pugliese numerosi scritti, raccolti nel 1959 in una «accurata e commossa biografia»[5].

     Nella sua biografia Tagliacozzo ripercorre la vicenda biografica di Salvemini, dalla sua prima fanciullezza trascorsa a Molfetta sino agli ultimi anni fiorentini e all’esilio imposto dal regime fascista (1925). Egli offre particolari inediti sull’ambiente familiare e contadino, che condizionò non poco la formazione del giovane Salvemini: un giudizio condiviso anche da Ernesto Sestan, che in un saggio dello stesso anno pose l’accento sulla grande lezione di vita che Salvemini trasse «dalla vita dura, fatta di miseria e di tribolazioni, dei suoi braccianti e dei suoi pescatori»[6]. Questo riferimento alla terra pugliese si ritrova con periodicità nelle note biografiche e nei numerosi scritti sulla questione meridionale, di cui il primo fu dedicato proprio al luogo natìo[7].

     L’iniziale attività storica, collocata da Sestan all’incirca tra il 1891 e il 1899, non è dedicata alla storia moderna e contemporanea, bensì agli studi sul Medioevo, ai quali fu indirizzato all’Università di Firenze da Cesare Paoli (1840-1902). La sua «venuta a Firenze» è decisiva per la formazione del giovane Salvemini, che – grazie al magistero di Pasquale Villari (1826-1917), di Bartolomeo Malfatti (1828-1892), di Gaetano Trezza (1828-1892) e di Achille Coen – evolve verso un rigoroso metodo di ricerca storica, improntato a una grande serietà morale e a una «onesta tecnica di ricognizione dei fatti e dei documenti»[8]. Questo «metodo storico», di cui si avvale Salvemini, lo convince a preferire gli studi medievali a quelli di storia contemporanea. A questa scelta fu spinto certamente da Paoli, ma non mancarono influenze di carattere etico come una ricerca obiettiva della verità storica.

     Come sostiene Augusto Torre, soltanto l’attendibilità delle fonti e la lontananza degli avvenimenti potevano assicurare una maggiore imparzialità, mentre la storia moderna e quella contemporanea, «guardata con diffidenza per il timore che la passione e l’incertezza delle fonti, non ben vagliate, non consentissero una sicura ricerca della verità»[9].  Il volume del Tagliacozzo non fu ben accolto dagli studiosi, che lamentarono lo scarso approfondimento dell’influenza marxista sul giovane Salvemini e i rapidi accenni alla sua collaborazione al periodico «L’Unità»[10]. Il giudizio di Sofri, invece, integrò sul piano storico la visione salveminiana sul Risorgimento in un tema già approfondito da altri storici[11], ma non sufficientemente chiarito. La diffidenza di Salvemini per il termine «Risorgimento» – al quale preferì sempre quello di «Italia libera» – fu dettata da un rifiuto della visione agiografica della storia italiana preunitaria intesa esclusivamente come «storia patriottica». Essa, condivisa peraltro da altri storici così diversi come Franco Valsecchi o Gioacchino Volpe, affonda le sue radici in una tradizione storica, che comincia con Giuseppe Montanelli ed è ripresa da Salvemini proprio per reagire alle deformazioni della storiografia dominante, rappresentata soprattutto dalle opere di Filippo Antonio Gualterio e di Nicomede Bianchi[12]. Su questo versante gli studi, se hanno compiuto negli ultimi decenni notevoli progressi, è certamente opera meritoria di Salvemini, che ha aperto la via ad un campo d’indagine inesplorato e che «ha avuto – come ribadì Walter Maturi – il gran merito di aver iniziato la problematica moderna nel campo degli studi storici dalla Rivoluzione francese al Risorgimento»[13].

    La figura di Gaetano Salvemini, nel periodo che ci separa dalla morte (1957), è caratterizzata da tanti dissensi. Gli storici, anziché ricostruire il filo conduttore della sua multiforme operosità, hanno preferito insistere sui limiti, gli errori e le sconfitte dello scrittore pugliese. I molteplici saggi hanno valutato separatamente lo storico, il politico, il docente universitario, il meridionalista, l’interventista o l’antifascista, ma non hanno approfondito i motivi della sua evoluzione culturale per cogliere la ricca personalità di Salvemini[14].

     La refrattarietà alle ideologie, il pragmatismo, la critica a ogni disciplina di partito e l’ostilità alle insidie totalitarie del Novecento hanno ritardato una valutazione complessiva della sua vicenda esistenziale. Solo negli ultimi anni la ricerca ha avviato una nuova stagione di vitalità con la riedizione di molti suoi saggi: nel 2002 sono stati ripubblicati i Ricordi di un fuoruscito e nel 2007 la raccolta di saggi Sulla democrazia[15]. Nel 2002 la biografia di Salvemini è stata ricostruita in un’ampia trattazione in Florida, a cui si sono aggiunti i vari saggi di un convegno tenutosi nel 2009 sull’esilio americano e sulla sua attività di fuoruscito[16]; nel 2021 un breve articolo di Giuseppe Bedeschi[17] e la biografia che Sergio Bucchi ha dedicato nel 2023 a Salvemini[18].     

     La formazione politica di Salvemini coincide con l’adesione al socialismo nell’ultimo decennio del XIX secolo, quando dietro l’impulso ideale del gradualismo evoluzionista e positivista nasce nell’agosto 1892 il Partito socialista. Il suo approdo alle idee socialiste è condizionato dall’ambiente culturale di Firenze, dove il giovane si reca per studiare all’università. Fra i suoi maestri assume un ruolo di rilievo lo storico Pasquale Villari, la cui funzione civile – assorbita pienamente da Salvemini – si esprime attraverso le famose pagine delle Lettere meridionali sulla dura critica ai mali del Mezzogiorno e all’indifferenza governativa per lo sfruttamento infantile[19]. Alla morte dell’insigne meridionalista, Salvemini lasciò un commosso ricordo:

Dalla parola di quel piccolo uomo che spariva quasi nella cattedra mostrandoci solo al di là una grande fronte luminosa, sfilavano innanzi al nostro spirito S. Agostino e Dante, Machiavelli e Vico, Montesquieu e Kant, Herder ed Hegel, Buckle e Tocqueville. Così fummo spinti a leggere Guizot e Thierry, Macaulay e Sainte-Beuve, Taine e Sorel, Bryce e Laveleye. E così eravamo costretti anche ad elaborarci una coscienza nuova, con l’anelito del nostro lavoro, attraverso crisi giovanili, dolorose e benefiche[20].

    Accanto all’influenza del metodo storico villariano[21], Salvemini assorbe la lezione marxista e cerca di applicare il materialismo storico allo studio della società fiorentina medievale. Alla radice della sua posizione politica vi è un’acuta riflessione, illuminata dallo studio delle vicende storiche: nelle associazioni economiche e politiche – come nelle corporazioni artigiane  dell’età comunale – vede la forza decisiva per l’evoluzione democratica della legislazione sociale. Negli anni universitari si precisano i tratti essenziali della personalità di Salvemini con la sua attività di storico impegnato nel dibattito politico coevo.

    Nel campo degli studi storici Salvemini ottiene una vasta fama con il libro Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295[22], con il quale il giovane studioso si colloca fra i maggiori medievalisti italiani. Tra il 1895 e il 1898 egli studia pure i repubblicani della «rivoluzione italiana», da Giuseppe Mazzini a Carlo Cattaneo, maturando un vivo interesse per il socialismo risorgimentale, senza trascurare la triste realtà della classe lavoratrice. Negli articoli di quegli anni duri attacchi sono mossi alla monarchia, al militarismo, alla corruzione burocratica e al dominio dei latifondisti, responsabili del sottosviluppo del Mezzogiorno d’Italia.

    Tra gli scritti giovanili spiccano anche i saggi di «Critica Sociale» e di «Educazione politica», in cui Salvemini fissa le cause delle «tre malattie» che affliggono il Mezzogiorno (accentramento statale, oppressione economica del Nord, struttura semifeudale)[23]. La proposta di una operativa alleanza tra operai settentrionali e contadini meridionali diviene così la condizione primaria e lo strumento del mutamento sociale:

 

Negli altri paesi il proletariato industriale ha capito che non può far nulla senza l’aiuto del proletariato rurale; e il Partito socialista lavora ovunque per conquistarlo. […] Bisogna che il primo si ricordi che non potrà far mai nulla senza dell’altro[24]

    L’elemento chiarificatore di questa formula – per quanto utopica e classista possa apparire – emerge soprattutto dalle dure esperienze del «decennio reazionario» dominato da Crispi e da Pelloux, che cercano di spegnere i conati di rivolta popolare (fasci siciliani, moti di Milano), causati dalla grave crisi economica-sociale. Da questa proposta nasce il dissenso  con Turati e il rifiuto della sua tattica legalitaria, accusata di cedimento alla monarchia:

In Italia – scrive Salvemini a Carlo Placci il 28 agosto 1898 – ci vuole un partito rivoluzionario serio e risoluto, cui unico scopo sia la distruzione della monarchia[25].  

    Ali inizi del XX secolo, Salvemini pubblica un volume sulla rivoluzione francese[26], distaccandosi dal marxismo e dall’accento posto in altre opere coeve sui collettivi, sugli astrattismi e sulle grandi parole.

     Con la svolta giolittiana Salvemini intensifica l’impegno politico, diretto soprattutto alla denuncia delle gravi condizioni materiali della classe lavoratrice e degli eccidi commessi durante le lotte dei contadini meridionali. Giolitti è considerato il maggiore responsabile delle manovre corruttrici introdotte nel Meridione d’Italia e della manipolazione del meccanismo elettorale: in una serie di articoli, che troveranno nel 1910 una sistemazione nel famoso saggio Il ministro della mala vita[27], Salvemini critica il miope «economicismo» dei socialisti settentrionali, complici di un sistema che tendeva a perpetuare la situazione di arretratezza del Mezzogiorno, ridotto a terra di manovre e di scambio politico da parte dello statista piemontese. In un articolo pubblicato sull’«Avanti!» (1° dicembre 1902 Salvemini scrive:

La fine delle camorre amministrative non si può ottenere in alcun modo dall’opera del Governo centrale, ma deve essere il risultato delle iniziative risanatrici locali, aiutate dalla trasformazione economica innanzi accennata (la guerra al latifondo), dalla limitazione dei poteri malefici dei prefetti sulle amministrazioni comunali, dal suffragio universale amministrativo non limitato dall’obbligo del certificato scolastico elementare[28].

    In breve tempo Salvemini diviene la voce più autorevole della posizione meridionalista e della necessità di moralizzare la vita politica nazionale. Il suffragio universale è proposto come il principale rimedio, che avrebbe spezzato l’alleanza fra i governi dominati dal «giolittismo» e l’aristocrazia meridionale; le proposte di obiettivi concreti – quali l’autonomia comunale o il libero scambio – sono avanzate da Salvemini alla luce della concessione di voto ai contadini. Per risollevare la loro sorte, egli propone un’azione sistematica di serie riforme, che dovrebbero assicurare lo sviluppo politico e sociale del Mezzogiorno. 

    Da questo assunto deriva la critica alla politica del Psi, che – nel privilegiare le tendenze «economiche» del proletariato del Nord – trascurava quelle riforme generali volte al progresso civile della nazione. La polemica con Turati, a cui rimprovera di nutrire uno scarso interesse  per i bisogni dei contadini meridionali, è indirizzata alla sua convinzione di credere nella dinamica espansionistica dell’industrializzazione, secondo uno schema evoluzionistico che Salvemini rimprovera al socialista milanese.

    In questo contesto il suffragio universale diventava così la chiave di volta del riscatto del Meridione, non la «panacea di tutti i mali», ma elemento essenziale per il rinnovamento degli equilibri politici, volto ad impedire l’elezione di deputati «eternamente ministeriali». La soluzione dei mali endemici dell’Italia meridionale passava attraverso la distruzione del blocco conservatore e la costituzione di una nuova rappresentanza politica[29]. La posizione di Salvemini fu ribadita nei congressi socialisti di Firenze (1908) e di Milano (1910):

 

L’azione per la conquista delle riforme intanto ha carattere socialista in quanto tiene presente i diritti dell’intera classe lavoratrice[30].

 

Il Partito socialista, invece, si volge esclusivamente alle lotte economiche della classe operaia settentrionale per l’aumento dei salari e la riduzione dell’orario di lavoro; mentre nel Mezzogiorno le condizioni dei contadini rimangono gravamente immutate e la libertà politica continua ad essere conculcata dal governo. Così Salvemini assegna – almeno sino al suo distacco dal Partito socialista – al proletariato del Nord il compito decisivo di fungere da guida politica del proletariato meridionale e di operarne il riscatto, lottando con forza per il suffragio universale[31].

    Gli anni compresi tra il 1911 e il 1920, ossia fra l’impresa libica e il dopoguerra europeo, sono per Salvemini molto fecondi: pubblica il settimanale «L’Unità»[32], con il quale continua la sua battaglia a favore della questione meridionale; critica (quello ch’egli definisce) l’atteggiamento esitante ed agnostico del Partito socialista dei contadini del Sud; propone la costituzione di un «partito nuovo» e svolge un’intensa attività a favore dell’Intesa durante la Grande guerra. Tuttavia nei mesi successivi alla marcia su Roma, Salvemini comincia a tenere un Diario, dal quale – dopo un iniziale tentennamento – emerge nitidamente il suo giudizio del concetto di democrazia e la sua condanna del fascismo: la lotta contro il regime mussoliniano non è disgiunta dalla difesa delle istituzioni democratiche[33]. Così Salvemini presenta la dicotomia democrazia-dittatura:

 

La democrazia è basata sull’assunto che nessuno è infallibile e che nessuno possiede il segreto del buon governo. La dittatura è basata sull’assunto che l’umanità è divisa in due parti ineguali: la massa […] che nulla sa e nulla capisce; e una minoranza i «pochi eletti», i quali soli conoscono il segreto  per la soluzione di tutti i problemi[34].

 

    Negli anni dell’esilio l’elogio della democrazia diviene sempre più intenso contro ogni forma di dittatura, che intende calpestare la libertà e la dignità umana. Con la caduta del fascismo, la Resistenza e il ripristino della legalità democratica, Salvemini dà una valutazione del riformismo socialista meno acrimoniosa di quella pronunciata al tempo dell’«età giolittiana». Il socialismo, a cui egli pensava, era sempre quello «gradualista», che sulla difesa del sistema parlamentare aveva riposto l’inizio dell’emancipazione della classe lavoratrice.         

 

   


     [1] G. Salvemini, Il ministro della mala vita, Edizioni della Voce, Roma 1910, poi in Id., Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 73-141.

     [2] G. Salvemini, La pelle di zigrino, in «Il Mondo» (Roma), 21 febbraio 1953, poi in Id., Italia scombinata, Einaudi, Torino 1959, p. 231.

     [3] Aa. Vv., Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959.

     [4] Cfr. Avvertenza, in Aa. Vv., Gaetano Salvemini cit., p. VII.                               

     [5] E. Tagliacozzo, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, La Nuova Italia, Firenze 1959.

    [6] E. Sestan, Lo storico, in Aa. Vv., Gaetano Salvemini cit., p. 4. Anche il De Caro scrive che i primi diciassette anni trascorsi a Molfetta lasciarono sulla personalità «un’impronta incancellabile»; cfr. G. De Caro, Gaetano Salvemini, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1970, p. 4.

    [7] Un Travet [G. Salvemini], Un comune dell’Italia meridionale Molfetta, in «Critica Sociale» (Milano), 1° marzo 1897, a. VII, n. 5, pp. 69-73.

   [8] G. De Caro, Gaetano Salvemini cit., p. 9.

    [9] A. Torre, Prefazione a G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, Feltrinelli, Milano 1963, p. X.

    [10] G. Sofri, Salvemini e la storia del Risorgimento, in «Rassegna Storica del Risorgimento» (Roma), gennaio-marzo 1959, a. XLVI, fasc. I, pp. 61-72. Il giudizio è espresso alla pagina 61.

    [11] E. Ragionieri, Gaetano Salvemini storico e politico, in «Belfagor» (Firenze), 1950, a. V, n. 5, pp. 514-536; R. Romeo, Salvemini storico, in «Il Mondo» (Roma), 24 settembre 1957, a. IX, n. 39, pp. 9-10; E. Sestan, Salvemini storico e maestro, in «Rivista Storica Italiana» (Torino), dicembre 1958, a. LXX, fasc. 2, pp. 5-43. 

    [12] W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Aa. Vv., Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1950, vol. I, p. 257; Id., Gaetano Salvemini, in Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 447-459.

    [13] W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea cit., p. 257.

    [14] Aa. Vv., Gaetano Salvemini tra politica e cultura, a cura di G. Cingari, Laterza, Roma-Bari 1986; G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007; Aa.Vv., Gaetano Salvemini e le autonomie locali, a cura di M. Degl’Innocenti, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2007. Il volume comprende i saggi di M.L. Salvadori, G. Aliberti, C.G. Lacaita, L. Musella, Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, F. Grassi Orsini, M. Punzo.

    [15] G. Salvemini, Dai ricordi di un fuoruscito 1922-1933, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Id., Sulla democrazia, a cura di S. Bucchi, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

    [16] C. Killinger, G. Salvemini. A biography, Praeger, Westport-London  2002; Aa. Vv., Il prezzo della libertà. Gaetano Salvemini in esilio (1925-1949, a cura di P. Audenino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

    [17] G. Bedeschi, Gaetano Salvemini: l’Italia, una democrazia in cammino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021, pp. 53-60.

    [18] S. Bucchi, La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano. Salvemini,  Bollati Boringhieri, Torino 2023.

    [19] P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale, Bocca, Roma-Torino-Firenze 1885. Sulla sua influenza culturale  cfr. M. Moretti, Salvemini e Villari. Frammenti, in Aa. Vv., Gaetano Salvemini metodologo delle scienze sociali, a cura di D. Antiseri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, pp. 19-68.

    [20] G. Salvemini, Pasquale Villari, in «Nuova Rivista Storica» (Roma), marzo-aprile 1918, p. 123, cit. in E. Tagliacozzo, Salvemini a Firenze, in «Il Ponte» (Firenze), agosto-settembre 1958, a. XIV, n. 8-9, pp. 1116-1117.

    [21] L’influenza è avvertibile nella produzione universitaria del 1901, dove Salvemini riprende le tesi villariane contro il soggettivismo storiografico e il parallelismo tra metodo storico e metodo sperimentale; cfr. G. Salvemini, La storia considerata come scienza, in «Rivista italiana di sociologia», 1902, poi in Id., Scritti vari, a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 107-135.

    [22] Lo si veda pubblicato in G. Salvemini, Magnati e popolani, a cura di E. Sestan, Einaudi, Torino 1960. Sulla composizione dell’opera acute riflessioni si leggono, in E. Artifoni, Salvemini e  il  Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Liguori, Napoli 1990.

    [23] Un Travet [G. Salvemini], Un Comune dell’Italia meridionale. Molfetta, in «Critica Sociale» (Milano), 1 e 16 marzo, 1 aprile 1897, a. VII; G. Salvemini, La questione meridionale, in «Educazione politica», 25 dicembre 1898, 10 e 28 gennaio, 26 febbraio, 14 marzo1899; poi in G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfé, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 9-26 e pp. 71-89.

    [24] G. Salvemini, La questione meridionale, in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., p. 89.

    [25] G. Salvemini, Carteggio, vol. I: 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Feltrinelli, Milano 1968, p. 77.

    [26] G. Salvemini, La Rivoluzione francese (1788-1792), Pallestrini, Milano 1905. L’opera è stata ristampata con una pregevole introduzione di Franco Venturi (Feltrinelli, Milano 1965, pp. V-XV).

    [27] G. Salvemini, Il ministro della mala vita, Edizioni della Voce, Roma 1910, poi in Id., Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 73-141. Sulla composizione e integrazione di altri testi si veda l’edizione curata da S. Bucchi, che premette una pregevole introduzione; cfr. G. Salvemini, Il ministro della malavita, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. IX-LX.

    [28] Un socialista del Sud [G. Salvemini], Un programma per i socialisti del Sud, in «Avanti!», 1° dicembre 1902, poi in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., p. 236.

    [29] S. Bucchi, Introduzione a G. Salvemini, Il ministro della malavita cit., p. XV.

    [30] Sul discorso di Salvemini al Congresso di Milano si vedano: L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattito congressuale del Psi 1892-1921, Laterza, Bari 1969, pp. 356-361; F. Pedone, Novant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del PSI 1892-1914, vol. I, Marsilio, Venezia 1983, p. 347.

    [31] Sulle posizioni meridionaliste di Salvemini si vedano: M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci cit., pp. 284-366; G. Galasso, Il meridionalismo di Salvemini, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini, Firenze 8-10 novembre 1975, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 295-306. 

    [32] Cfr. L’Unità di Gaetano Salvemini, a cura di B. Finocchiaro, Neri Pozza, Venezia 1958. 

    [33] Sul contrasto democrazia-dittatura, si veda la relazione di N. Bobbio, Salvemini e la democrazia, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini cit., pp. 113-138. Per una recente valutazione cfr. P.P. Portinaro, Il Salvemini americano-teorico della democrazia, in Aa. Vv., Il prezzo della libertà. Gaetano in esilio (1925-1949) cit., pp. 319-340.

    [34] G. Salvemini, Il mito dell’uomo-Dio, in «Giustizia e Libertà» (Parigi), 20 luglio 1934, poi in Id., Scritti sul fascismo, a cura di N. Valeri e A. Merola, vol. II, Feltrinelli, Milano 1974, p. 549.