Ripubblichiamo un bel saggio per ricordare il centenario della nascita di Giovanni Agnelli; e’ la relazione che lo storico dell’ arte Willy Beck tenne al Convegno su Gianni Agnelli promosso dal Centro Pannunzio in ricordo della sua morte, nel 2003. E‘ un saggio molto importante, che venne apprezzato e divulgato da Marella Agnelli.

La ricerca sul rapporto fra Giovanni Agnelli e “le arti” (il plurale, come si vedrà, non è usato casualmente) è un lavoro ancora tutto da compiere: non mi risulta che esistano studi in proposito, né generali, né parziali, e rari sono gli accenni a questo tema nelle biografie e nelle interviste da lui rilasciate. Enzo Biagi, ad esempio, ne Il signor Fiat del 1976 (ristampato nel 2003) cita solo incidentalmente Henry Moore, Alberto Giacometti, gli espressionisti tedeschi e Mario Schifano tra le predilezioni del suo collezionismo. Bisogna attendere l’inaugurazione della Pinacoteca del Lingotto nell’autunno 2002 e la pubblicazione del relativo catalogo per avere un testo di riferimento ed un punto di partenza. Mi riferisco in particolare a Il piacere dell’arte, lo scritto di Gianni Riotta che riporta il colloquio con l’Avvocato
svoltosi di qua e di là dell’Atlantico nei mesi che precedettero l’evento; esso introduce quel volume ed è viatico alla visita dello “Scrigno” di Renzo Piano e delle opere in esso contenute. In questa sede non pretendo certo di svolgere compiutamente quella ricerca, ma ne individuerò le premesse ed una prima traccia generale. Il suo svolgimento dovrebbe intanto tenere conto di molti aspetti diversi complementari fra loro. Giovanni Agnelli infatti è stato promotore, sostenitore e membro di istituzioni artistiche. Viene spontaneo pensare subito a Palazzo Grassi e alle sue grandi mostre di rilevanza internazionale. Meno
noto è invece che (come ricorda Pierre Rosenberg nel volume citato) egli ha fatto parte per qualche tempo del consiglio di amministrazione del Louvre ed è stato socio onorario della Académie des Beaux-Arts. Un capi tolo, come si vede, tutto da scrivere della sua multiforme attività. Ma egli è stato anche committente in prima persona e persino “protagonista” di opere contemporanee e ha dunque intrattenuto un rapporto diretto e personale con l’arte del suo tempo. Lasciamo da parte gli artisti attivi a Torino, onde evitare citazioni necessariamente parziali, e andiamo a prendere un paio di esempi lontani e indiscutibili, capaci di scavalcare le limitate questioni di prestigio locale. Andy Warhol (al quale Palazzo Grassi dedicò una retrospettiva nel 1990) inizia nel 1972 quella attività ritrattistica dei grandi protagonisti del nostro
tempo che, oltre a renderlo famoso nel mondo, diverrà presto la sua fonte principale di guadagno. Il primo soggetto prescelto è Mao-Tze-Tung, del quale realizza 10 serigrafie, ciascuna caratterizzata da un diverso intervento pittorico. E’ particolarmente significativo il fatto che nello stesso anno egli realizzi proprio il ritratto di Gianni Agnelli. Nella ideale “galleria” composta dall’artista americano i due personaggi sembrano essere scelti come portatori di analoga e contrapposta valenza simbolica: le “icone” dei due
Grandi Timonieri epocali sembrano configurarsi come i due poli ideali alternativi attorno ai quali ruota il mondo. L’Avvocato è ritratto a pittura acrilica e serigrafia su una tela di 102 x 102 cm ed è inquadrato di tre quarti mentre fissa lo spettatore, la sigaretta tra le labbra trattenuta con due dita della mano destra, in una immagine impressionante per franchezza, caratterizzazione e penetrazione psicologica. Il pubblico torinese ricorderà che tre varianti della serie sono state esposte alla mostra Andy Warhol – Viaggio
in Italia al Museo dell’Automobile dal 30 novembre 1996 al 9 marzo1997. Un ritratto cui si può affiancare quello della moglie Marella. E a dimostrazione di un particolare interesse rivolto soprattutto ai protagonisti della stagione della Pop Art e alle loro peculiari modalità espressive, si possono citare i tre pannelli in legno sagomati e a strati sovrapposti dedicati a Primo Levi scienziato, scrittore e testimone dell’Olocausto, commissionati nel 1987 a Larry Rivers, che sono stati recentemente esposti
nella sala inferiore della Pinacoteca del Lingotto. Nella citata intervista di Riotta l’Avvocato dichiara: “Forse l’architettura è l’arte che preferisco”; e spiega che essa “contiene tutta la vita, è la perfetta
armonia di estetica ed esistenza, e però possiede tutte le contraddizioni dell’estetica e dell’esistenza”. Credo che egli pensi soprattutto ad un’architettura che sia luogo della vita e del lavoro, e che tenda alla coniugazione di estetica e funzionalità come è tipico di quella architettura industriale di cui la fabbrica del Lingotto è stata esempio storico. Concepita da un ingegnere (Mattè Trucco), non da un architetto, quale una specie di gigantesca “macchina” perfettamente funzionante per produrre macchine, sostanzialmente priva di elementi ornamentali in favore del rigoroso ripetersi di quelli puramente strutturali, essa si conclude in cima con la stupefacente, “futuristica” pista di collaudo e alle due estremità con le rampe tra-
sformate oggi in aerea passeggiata. D’altra parte l’amore per l’architettura sembra essere insito nella visione del mondo di ogni imprenditore industriale: basti pensare a quel che essa significò per Adriano Olivetti, il cui interesse si estese all’urbanistica e alla progettazione del territorio. Ma nel caso di Agnelli le spie di questa passione sono visibili almeno in due aspetti caratterizzanti dell’iniziativa della Pinacoteca. Anzitutto nella scelta dei quadri da esporre quali campioni dell’intera collezione: si pensi in particolare ai “ritratti di città” di Canaletto e Bellotto, ma anche alla struttura poderosamente architettonica (quasi una selva di grattacieli) costruita da Picasso in Uomo appoggiato a un tavolo. E, in secondo luogo, naturalmente anche nella decisione di collocare quelle opere, non già entro un contesto preesistente da adattare allo scopo, ma proprio nello “Scrigno” di Renzo Piano, che nasce insieme al progetto di esposizione e come vedremo ne simboleggia l’ispirazione nella sua stessa aerea struttura librata al di sopra della ex fabbrica.
All’interno di questo quadro generale di indirizzi e di predilezioni, le cui linee sono appena tracciate, si colloca la Pinacoteca, che per una serie di motivi contingenti, da semplice iniziativa mecenatesca nei confronti di Torino, ha finito per diventare, dirò così, qualcosa di terribilmente serio ed
importante. La sua apertura è stata l’ultima iniziativa pubblica del suo fondatore, ha
preceduto di pochissimo l’apertura ufficiale della crisi della Fiat ed essa è poi stata scelta come luogo dell’omaggio pubblico alla salma prima della funzione religiosa in Duomo nonché dell’incontro tra la famiglia e la Città. L’Avvocato riconosce onestamente che il suo gesto finale risponde anche ad un senso di colpa da lui maturato nei confronti dei torinesi. Nel 1986 la scelta di Venezia e di Palazzo Grassi come sede di prestigiose attività culturali di vastissimo interesse internazionale sembrarono sancire una
distinzione di ruoli definitiva e immutabile: Torino, grigia città della produzione, a fronte di Venezia, splendida città dell’arte e della cultura. Si è spesso richiamata la figura di un principe rinascimentale a proposito di Agnelli: ma quale Gonzaga, quale Medici, quale duca estense avrebbe scelto Venezia o qualsiasi altra città che la propria per custodirvi i propri gioielli o realizzare le proprie feste? Il rimprovero dei torinesi ci fu, magari silenzioso, ma non abbastanza da non giungere alle sue orecchie. Al termine della sua vita la Pinacoteca ha finito per configurarsi quale lascito carico di significati.
Personalmente non ho conosciuto Gianni Agnelli, dunque posso formarmi un’idea del suo collezionismo solo dall’esterno, esaminando e valutando quello che egli ha lasciato. La domanda che mi pongo è dunque:
quale tipo di collezionista emerge dalla Pinacoteca del Lingotto? Quale immagine di collezionista ha voluto lasciare di sé chi ne è stato promotore? Per farmene un’idea sono ricorso ad un libro che, approfondendo il fenomeno sia sotto il profilo storico che sotto quello psicologico, ha contribuito ad identificarne le motivazioni, il senso e le caratteristiche. Si tratta de Il possesso della bellezza. Dialogo sui collezionisti d’arte, scritto dalle sorelle Francesca Molfino e Alessandra Mottola Molfino. Non posso qui riassumerne l’amplissimo contenuto. Mi limiterò (oltre a suggerirne la lettura) a dire che, se sono fondate, come io credo, le analisi e le considerazioni delle Autrici, Agnelli collezionista (del quale non si fa peraltro cenno nel testo) appartiene a quella che si può definire “una specie in via di estinzione”. Le Molfino paventano infatti la fine (magari già avvenuta) del “collezionismo del Bello”, superata oggi dalla semplice accumulazione seriale di oggetti spesso privi di valore estetico. Per usare una loro sintesi efficacissima: “Il possesso della bellezza è stato sostituito dalla bellezza del possesso”. E per non andar troppo lontano ecco che ci viene proposto esemplarmente quello stesso Andy Warhol che fu smodato raccoglitore di mobili, gioielli, oggetti della più diversa specie e del più diverso valore (celebri le sue duemila paia di scarpe). Si tratta di raccolte sostanzialmente quantitative che non sembrano certo ispirate dall’amore del pregio delle cose in sé; qui le cose vengono cercate e collezionate soltanto “pel piacer di porle in lista”, come dice Leporello delle donne sedotte dal suo padrone. “Il marchio, la firma, il design sono gli esangui ma indispensabili sostituti dell’unicità e dell’irripetibilità del tanto desiderato oggetto d’arte”. Con queste premesse si presentano fosche le previsioni sul futuro. Ora, se io confronto con questi esempi il contenuto della Pinacoteca, così attentamente selezionato all’interno di un patrimonio evidentemente
assai vasto, mi pare di poter dire che il principio fondamentale ispiratore sia stata invece la “discrezione”, nei due sensi che a questa parola si possono attribuire. Intanto la non ostentazione, la riservatezza, nonostante il possesso di veri capolavori. Il Renoir oggi al Lingotto figura da anni sui manuali di Storia dell’Arte con la semplice indicazione in didascalia di “Collezione privata, Torino”. Per operare un confronto, Pierpont Morgan, ci ricorda il libro delle Molfino, compilava e aggiornava continuamente elenchi degli oggetti d’arte da lui posseduti, li esibiva negli scaffali della sua casa, ne inviava copia ai principali musei del mondo. Ma “discrezione” è anche la capacità di discernere e scegliere sulla base
di principi e metodi certi di guida: principalmente il gusto estetico e la conoscenza storica e storico-artistica. La misura e l’equilibrio, almeno nell’immagine che la Pinacoteca restituisce, sopravanzano la pura smania del possesso (il “dongiovannismo degli oggetti” di cui parla Susan Sontag), di un possesso fine a se stesso e dunque indifferenziato Ma vanno anche al di là del calcolo razionale del raccoglitore “freddo”, storico-scientifico o seriale, tipico di altri collezionisti, soprattutto di arte contemporanea, per i quali l’ultima cosa che conta nell’acquistare un’opera d’arte è (lo dico banalmente) il fatto che essa “piaccia” all’acquirente, che si stabilisca insomma un rapporto direi quasi sentimentale con l’oggetto desiderato. Nell’intervista di Riotta Agnelli sottolinea invece la priorità dell’amore della bellezza e del piacere della creatività, considerata “il solo vero valore aggiunto della vita, capace di comprendere tutti gli altri”. Un apprezzamento che peraltro si estende anche alla propria creatività: la collezione, dice Pierre Rosenberg, è infatti la “forma di creazione” del collezionista. Per Gianni Agnelli sembra ancora valido il modello di collezionismo aristocratico europeo (e particolarmente inglese) sei-settecentesco; il modello
nel quale la pittura, ad esempio, rientra quale “diletto di un gentiluomo nobile”, come scrisse nel 1620 Giulio Mancini, medico personale di papa Urbano VIII, nelle sue Considerazioni sull’argomento. Scrive Francesca Molfino: “Collezionare fa parte della formazione dell’aristocratico, e la bellezza ne è l’oggetto privilegiato”. L’educazione estetica e l’essere “conoscitore d’arte” sono dunque intesi come elemento formativo, persino morale, della classe dirigente, parte costitutiva della sua Bildung, della formazione
dei suoi componenti. Il valore estetico prevale dunque su quello meramente economico. Colpisce nella citata intervista a Gianni Agnelli lo stupore che egli manifesta per la disponibilità mostrata da certi pur benestanti collezionisti a cedere alcuni dei capolavori che sono così venuti in suo
possesso, magari per trovare fondi disponibili all’acquisto di beni materiali: si prenda Kenneth Clark, ad esempio, che gli vendette la Bagnante di Renoir per comprarsi una casa in campagna, o il non identificato “amico” che scambiò l’Uomo appoggiato a un tavolo di Picasso per l’acquisto di una casa in Sardegna.
A questo punto non stupisce più la rilevante presenza di opere di Matisse nella Pinacoteca (ben 7 su 25 opere). Si rilegga in proposito il famoso brano delle “Note di un pittore” del 1908:
Sogno un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti. Un’arte che sia per ogni lavoratore intellettuale, per l’uomo d’affari come per il letterato, ad esempio, un
lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi dalle fatiche fisiche”. Il senso della pittura nella cultura di Gianni Agnelli è perfettamente consonante con questi principi. La Pinacoteca nasce da un’accurata selezione interna alla collezione dei
due fondatori. Comporta scelte (gli autori selezionati da Canova a Picasso)
ed esclusioni (i Bellini, i Warhol, ad esempio). E’ offerta al pubblico secondo un criterio espositivo ispirato ad una disorganicità decisamente antiaccademica. L’allestimento a volte evidenzia nuclei tematici unificanti, ma solo per singole sale e quindi non validi in assoluto: si vedano i quadri di
soggetto femminile dell’ultima stanza appartenenti a Renoir, Modigliani, Manet e Picasso. Impossibile dunque trovare un unico filo conduttore: piuttosto tante predilezioni tematiche e stilistiche. Prioritariamente la città, sia essa la Venezia di Canaletto o la Dresda di Bellotto, sia essa quella moderna, scenario del mito futurista della velocità (non si dimentichi che la mostra inaugurale di Palazzo Grassi nel 1986 fu proprio dedicata a Futurismo & Futurismi). Poi, come già rilevato, la figura femminile, dalle danzatrici di Canova alla domestica di colore di Manet, dalla bagnante di Renoir a tutti i Matisse, dal nudo di Modigliani all’etera di Picasso. Una scelta come quella dei “lanceri” di Severini risponde invece ad un criterio puramente autobiografico e strettamente personale. Ma il contenuto storico-artistico della Pinacoteca si esalta soprattutto se lo si pone in rapporto con quello delle altre raccolte cittadine, se si considera cioè quale incremento qualitativo essa adduca al patrimonio di opere d’arte oggi fruibile dal pubblico (torinese e non); dunque anche quali elementi di richiamo culturale essa abbia apportato (oltre al bellissimo edificio-contenitore) alla città. Se Canova e Tiepolo erano già rappresentati a Torino e il contributo Agnelli rafforza soltanto tale presenza; le vedute di Dresda del Bellotto si
aggiungono alle due vedute di Torino della Sabauda dipinte per Carlo Emanuele III nel 1745, rappresentando così una sua diversa e successiva fase produttiva, ma aprendo anche gli orizzonti alla rappresentazione di un’altra capitale di quella Europa in cui Torino proprio nel Settecento iniziava ad inserirsi con personalità politica e culturale del tutto nuova e autonoma. Oggi a Torino ci sono forse in esposizione più Canaletto che nella stessa Venezia: potrà apparire paradossale, ma tra l’Accademia, Ca’ Rezzonico e le altre collezioni pubbliche veneziane non è facile incontrare opere di
un artista che ha lavorato soprattutto per il pubblico straniero e particolarmente per il mercato inglese. Senza contare che le quattro vedute per Stefano Conti (1725-1726) sono tra le opere fondamentali per la ricostruzione di tutta l’attività e soprattutto dello stile maturo di Antonio Canal e le due del 1738-1740 si affiancano degnamente al gruppo. Una scelta che nuovamente rinvia a quel gusto da aristocratico europeo settecentesco che poco fa si è richiamato. Modigliani ritorna a Torino a colmare il vuoto lasciato decenni fa dal gruppo di opere posseduto da Riccardo Gualino e dispersosi con la sua rovinosa “caduta”. I sette Matisse costituiscono poi un unicum nel panorama museale italiano e sono oltretutto sgranati cronologicamente lungo un arco lunghissimo di attività dell’artista: 1920 circa., 1924, 1941, 1943, 1948.
Che è come dire tutta la sua maturità successiva al periodo fauve di inizio secolo. Per concludere, la Pinacoteca ha avuto il doppio significato di lascito e di segno di un congedo definitivo. Ha scritto Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti: …quello che l’uomo trova negli oggetti non è l’assicurazione di
sopravvivere, ma di vivere fin d’ora il processo della sua esistenza in modo ciclico e controllato, e di superare così simbolicamente quell’esistenza reale di cui gli sfuggono gli eventi irreversibili…L’uomo che
colleziona è morto, ma egli sopravvive letteralmente in una collezione che già da questa vita lo ripete indefinitamente aldilà della morte, integrando la morte stessa nella serie e nel ciclo.
Nel caso di Gianni Agnelli io credo che siamo in presenza di un tentativo molto laico e consapevole di esercitare il massimo di controllo possibile sul proprio destino futuro da parte di un uomo che si sentiva prossimo alla fine e, attraverso questo pur sempre limitato controllo, di garantirsi quel poco o tanto che è dato di immortalità all’uomo. Lo “Scrigno” di Renzo Piano e il suo leggerissimo “tappeto volante” sembrano dare a questo progetto sostanza e concretezza: “il sogno di ogni architetto è battersi contro la gravità”. La Pinacoteca è collocata in un luogo posto in alto, al di sopra del “mercato” che trionfa nei piani sottostanti del Lingotto, a simboleggiare e realizzare una ascensione che è al contempo fisica e spirituale, la transizione in una dimensione altra rispetto a quella della pratica quotidianità. Un’esperienza che oggi è ripercorribile da ogni visitatore consapevole.