È stato il maggior scienziato italiano della politica della seconda metà del Novecento, come Pareto e Mosca lo furono nella prima metà del secolo scorso. Tra i suoi allievi Giuliano Urbani, Domenico Fisichella, Stefano Passigli, tre studiosi molto diversi tra loro. Questa eterogeneità dimostra che Sartori era davvero un maestro e che non intendeva creare una sua scuola, come tentano di fare i cattivi o i mediocri professori. Ad affrontare i temi sui cui Sartori si è cimentato, raggiungendo livelli d’importanza davvero internazionale, in prevalenza in Italia, sono stati per lunghi decenni più gli ideologi che gli studiosi. Egli superò questo divario che ha pesato in modo enorme sulle arretratezze del dibattito politico in Italia. Molti hanno un’idea di lui molto limitata, magari ricordandolo ospite di molte trasmissioni televisive in cui prevalevano inevitabilmente le sue battute brillanti rispetto alla profondità dello studioso.

Si potrebbe banalizzare Sartori, definendolo in termini giornalistici come l’inventore del Mattarellum e del Porcellum, di cui vide acutamente i limiti. Si potrebbe parlare di lui come di uno dei primi antiberlusconiani e, successivamente, come di uno dei critici più corrosivi di Renzi e del renzismo. Sono famose le sue battute al vetriolo e la sua brutale sincerità, a volte davvero disarmante. Esiste una “vulgata” sartoriana che va tenuta distinta e distante dallo studioso di razza. Ma anche il “battutista” non fu mai a senso unico. Prese posizione a favore di Oriana Fallaci e si dichiarò ostile alla demagogia filantropica di Gino Strada, definì «cieco» un certo pacifismo che sventolava la bandiere arcobaleno, parlò di un Paese «conformista che si è ormai seduto sulle poltrone»: un calembour che faceva pensare a Ennio Flaiano. Rifiutò «l’equilibrismo che non è nella mia natura», dicendo chiaro e tondo: «Io mi comprometto». Aderì a “Libertà e Giustizia”, considerata da tutti un covo di giacobini irrecuperabili e molto settari, ma successivamente ne prese le distanze perché il suo liberalismo non gli consentiva di stare insieme a quei compagni di strada.

Va ricordato soprattutto lo studioso che è stato, insieme a Nicola Matteucci, il più originale e insieme il più classico indagatore di quella che Bobbio ha definito la «Democrazia realistica». Sartori va oltre l’antitesi liberalismo/democrazia e va anche oltre Guido De Ruggiero, che nella sua storia del liberalismo aveva intravisto la necessità di superare quell’antitesi. Secondo Sartori «nella seconda metà del XIX secolo l’ideale liberale e quello democratico sono confluiti l’uno nell’altro ma, fondendosi, si sono confusi».

Lo studioso fiorentino aveva colto la confusione, denunciando anche l’opportunità di eliminarla. Molto opportunamente egli amava citare Tocqueville: «Ciò che è il massimo di confusione nello spirito è l’uso che si fa delle parole democrazia e spirito democratico». La sua cultura lo portava a riprendere la lettura dei Classici, per usare le parole di Bobbio, «senza il piacere di apparire un novatore […], come se fossero arrivati i barbari a bruciare la biblioteca di Alessandria». Ancora Bobbio affermava che «le biblioteche in genere non bruciano più, ma si sono talmente ingrandite da assomigliare sempre più alla Biblioteca di Babele». La situazione appare forse ancora peggiorata perché le biblioteche non sono più frequentate adeguatamente perché internet ha sostituito la carta stampata, una scorciatoia troppo facile e pressapochista verso un sapere superficiale e quindi assai vicino al non sapere. Giovanni non si è mai lasciato sedurre dalla demagogia che ha pervaso il confronto politico italiano e ha sempre ritenuto che la democrazia non sia un governo senza élites, ma il governo delle élites in concorrenza tra di loro. La democrazia per lui è infatti «un sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di minoranze concorrenti».

Quella di Sartori è una concezione politica coraggiosamente individualistica in un contesto in cui le masse sembrano essere diventate le protagoniste della storia, magari a loro insaputa e a posteriori. Uno spunto attualissimo della sua lezione è il ripudio di Rousseau e di una democrazia diretta che, riducendo i problemi a scelte radicali e contrapposte, impedisce la discussione, la sola che chiarisce le idee e consente di elaborare le soluzioni più idonee. La democrazia attraverso la rete è più finzione che realtà. Credo che aver letto o non aver letto Sartori o averlo liquidato come un rompiscatole incontentabile, ci consenta o non ci consenta di capire la profonda crisi in cui si dibatte la democrazia italiana. Lo stesso dibattito referendario dell’autunno 2016 ci ha rivelato l’arretratezza di classi politiche che non si sono formate sui libri, confondendo gli slogan con la politica. Certo i libri non bastano, ma un politico non attrezzato culturalmente si rivela anche inadeguato a contribuire ad orientare l’opinione pubblica, specie nei momenti storici cruciali. Per Sartori i problemi della democrazia passavano anche attraverso la selezione, oltre che la elezione, per consentire quella che Bobbio ha definito «l’elezione del migliore».

Il mio ricordo di Sartori passa inevitabilmente anche attraverso il magistero di Bobbio che fu «un liberale a tre quarti», secondo Dino Cofrancesco. Bobbio vedeva dei limiti nella democrazia liberale perché il sistema economico liberista lo considerava amorale in quanto fondato esclusivamente sulla legge della domanda e dell’offerta, anche se il liberista Luigi Einaudi aveva affermato il primato della morale sull’economia, senza ambiguità. Sartori fu anche un uomo divertente, con la battuta sferzante che non gli derivava solo dall’essere toscano. Amava la convivialità e le belle donne. Ho di lui ricordi molto piacevoli ed averlo frequentato a Firenze fu un’occasione per vivere qualche ora di puro diletto intellettuale e umano. Ricordo che in una occasione vicino a noi si sedette Fanfani in compagnia della moglie, a piazzale Michelangelo, nel giardino del ristorante “Alla loggia”. Ebbi modo di conoscere attraverso il dialogo che nacque con Sartori, un Fanfani piacevolissimo, anche lui con la battuta mordace, un vero «maledetto toscano», anche molto simpatico. Ascoltandolo nelle sue reprimende antidivorziste, non lo avrei mai immaginato così come mi apparve in un’estate della fine degli anni Settanta.

Se l’Italia avesse ascoltato di più Sartori, se molte più persone avessero letto qualche suo libro, non saremmo nella palude, forse non avremmo vissuto certi momenti cruciali in cui i populismi rischiano di soppiantare l’esile pianta della democrazia e di uccidere l’ancora più esile pianticella della libertà. Sartori anche oggi ci indica la strada maestra per vivere una nuova primavera italiana: la difesa della democrazia rappresentativa, la sola che possa consentirci di pensare all’Europa a cui guardarono Luigi Einaudi, Ernesto Rossi e Gaetano Martino.

L’idea dell’Europa unita politicamente fu un’idea in cui Sartori ha creduto fortemente. Una volta mi  citò una frase di  Ernesto Rossi  che avrebbe potuto anche essere sua: «pensare all’Europa  senza una contemporanea unificazione politica sarebbe come tentare di sollevare un bue tirandolo su per i poli della coda».

In una parola, Giovanni Sartori ha rappresentato l’Italia civile contro l’Italia barbara a cui troppi italiani continuano a guardare con simpatia.