Facevano tutti un giuramento solenne e terribile: “Sopporterò di essere bruciato, di essere legato, di essere morso, di essere ucciso per questo giuramento“, con il quale prigionieri di guerra, schiavi, condannati a morte, ma talvolta anche uomini liberi sommersi dai debiti, oppure allettati dalla gloria, accettavano la propria condizione di infamis, di reietti e, al tempo stesso mostravano, come ha affermato Carlin Barton, di essere uomini che, “agivano secondo la propria volontà”, consapevoli dei rischi cui andavano incontro. Nel cuore una sola speranza: cambiare la propria condizione, acquistare la libertà, la ricchezza o la fama. Non era facile diventare gladiatore; gli allenamenti erano continui e faticosi, sia i novizi sia i veterani dovevano dimostrare di aver appreso nuove tecniche di combattimento, per passare al grado successivo e diventare degni di lottare nell’arena. Un mondo complesso in cui s’intrecciavano gli interessi economici e i valori guerreschi della cultura romana. Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli offre, fino al 6 gennaio 2022, uno spaccato di questa realtà, tra le più popolari del mondo romano antico, ma anche una delle meno delineate nella loro storicità, infarcita di luoghi comuni e ricostruzioni fantasiose. Centosessanta reperti distribuiti in sei sezioni e un settore tecnologico di taglio divulgativo raccontano gli antichi campioni dello sport più popolare duemila anni fa, i momenti esaltanti della lotta, e gli aspetti più intimi della quotidianità. Nata come forma di onoranza funebre già con gli etruschi e poi adottata dai nobili romani, l’ars gladiatoria si è trasformata nei secoli in uno spettacolo imponente, diffuso in tutto l’Impero. L’esposizione inizia proprio con nove manufatti, dal Vaso di Patroclo alle lastre provenienti dalla Necropoli del Gaudo di Paestum risalenti al IV secolo a.C., che fanno riferimento ai riti e ai combattimenti in onore dei defunti. Dall’aspetto sacro a quello più realistico, le trombe che aprivano la sfilata nei giorni dei ludi, le armi e gli elmi che ricoprivano i corpi temprati dall’addestramento, dalla dieta ferrea, dagli scontri fisici. Con sette opere esposte, tra cui spicca la lastra campana parte di un fregio realizzato tra 40 e 60 d.C. che raffigura una caccia nel Circo Massimo, la terza sezione fa riferimento a “Le venationes”, la caccia e l’uccisione di animali selvatici ed esotici provenienti dai lontani confini dell’Impero, che rappresentavano il momento di apertura degli spettacoli gladiatori. Scopriamo in questo viaggio che i gladiatori mangiavano moltissimi carboidrati, contenuti in legumi e cereali, e pochissime proteine animali, anche allora molto costose, e consumavano una bevanda fatta di ceneri di ossa e aceto per rinforzare l’ossatura. Non a caso Plinio il Vecchio li definiva “Hordearii”, uomini d’orzo. Provenivano da terre lontane, soprattutto dalla Tracia e dalla Germania e l’analisi dei loro resti testimonia i segni dei colpi ricevuti. Le iscrizioni sulle lapidi raccontano di individui che avevano combattuto, a volte, per oltre trent’anni, qualcuno aveva avuto una famiglia, altri avevano ricevuto una sepoltura solo grazie alla generosità dei compagni. Ed è con rispetto che ci avviciniamo alle teche che contengono gli scheletri di due combattenti provenienti da York. Poco distante, la vetrina con gli strumenti chirurgici utilizzati per curare le ferite, lame, pinzette, uncini per sollevare lembi di pelle. Tuttavia, nonostante l’aspetto crudele e violento i giochi gladiatori erano disciplinati da regole severe cui tutti dovevano attenersi. Contrariamente a ciò che si pensa, sostiene Luigi Sandrinocchio, i gladiatori più apprezzati e più celebrati non erano quelli che uccidevano gli avversari sconfitti, ma chi riusciva a vincere quei duelli mostrando abilità atletica e magnanimità nella conclusione dello scontro, non necessariamente all’ultimo sangue. Il fine ultimo del combattimento nei circhi non era l’uccisione sistematica dello sconfitto, in virtù degli altissimi costi che questo comportava. Il gladiatore e la sua prestazione avevano un loro valore pecuniario, tanto che si regolava contrattualmente persino l’esito degli scontri. Un grande affare economico, con un ampio indotto che andava dal finanziamento dei committenti, imperatori o facoltosi politici, all’attività del lanario o impresario, dal commercio degli animali alle statuette di terracotta costruite in serie, diffuso a Roma e in tutti gli angoli del mondo romanizzato. Non a caso la quinta sezione mostra gli anfiteatri della Campania, attraverso modelli, apparati grafici e supporti digitali, quello di Pompei, di Puteoli e dell’antica Capua, strutture che ritroviamo nei luoghi più lontani, dalla Tunisia alla Spagna, fino alla Svizzera da cui proviene il mosaico pavimentale di Augusta Raurica (fine secondo sec. d. C.), rinvenuto nel 1961, di cui ci sono giunti cinque dei sei riquadri con combattimenti di gladiatori, le armi e il vestiario. Un percorso che propone mille sfaccettature di un tema ampiamente riproposto e sempre affascinante, un allestimento coinvolgente in cui Archeologia e tecnologia si alleano per offrire nuovi approfondimenti e punti di vista. “Gladiatorimania”, concentrata nel Braccio Nuovo del Museo, racconta anche ai più piccoli, i diversi aspetti della vita dei gladiatori, dalla preparazione alle armature, dalla cura del corpo alla fortuna, il mito così come è giunto fino ai nostri giorni, tramite le più innovative tecniche della comunicazione, un vero e proprio strumento didattico e divulgativo con mille sorprese. Davanti ai nostri occhi prendono forma i versi dell’Iliade:
Invitiamo due uomini valorosi
A vestire l’armatura,
a impugnare l’asta dalla punta di bronzo,
a misurarsi l’uno contro l’altro
in duello davanti alla folla.