Senza margini d’azzurro, di Raffaele Floris (Puntoacapo Editrice 2019), alterna gruppi di poesie in endecasillabi sciolti a haikai, brevissime liriche di diciassette sillabe ciascuna. Mentre la tematica dei testi endecasillabici sviluppa una linea ben definita che più avanti cercherò di illustrare, nelle composizioni monostrofiche “nipponiche” il discorso poetico si fa mosso e cangiante.
La varietà dei ritmi che Floris imprime ai suoi versi permette loro di sprigionare vibrazioni e iridescenze che di volta in volta attraggono il lettore, conducendolo per mano fino al termine di ogni componimento in modo tale che si riveli quasi impossibile anche il minimo calo d’attenzione. E tutto ciò a dispetto di un eloquio essenzialmente piano, di un flusso verbale sorvegliato, sobrio e privo di fronzoli.
Non mancano certo i pezzi da antologia: basti leggere, per convincersene, Un foglio bianco o Sei stata tu! Così come non mancano sottili echi, simili a filigrane, di alcuni tópoi della tradizione lirica italiana, dalle «quiete stanze» di Leopardi (A Silvia, vv. 7-8), qui in Fiori di carta: «[…] una bambina / tra la penombra quieta delle stanze», a Guido Gozzano (La signorina Felicita, IV, 1-4), che riconosciamo in controluce nell’incipit di Un arcolaio che cigola: Quanta pena nel buio dei solai! / Dal lucernario aperto dove un tempo / entravano primavere danzanti / vanno e vengono i piccioni, custodi / delle cose che non hanno più vita». Si confrontino altresì i versi 1-4, 19 e 23 del Gelsomino notturno di Pascoli con Nella gloria del silenzio: «Talvolta vi ripenso ancora vivi / nell’ora indefinita del crepuscolo / che così presto degrada nel buio. / […] nell’istante più segreto / del cuore, un lume acceso […]».
Tre sostantivi assurgono, fin dalle prime poesie, alla dignità di simboli: Cielo, che rimanda alla pienezza della vita condivisa; Silenzio e Assenza, che tale pienezza negano attraverso la sottrazione delle persone amate. Ma se il tema, l’asse portante di questo libro è quello di uno scacco esistenziale – la perdita irreparabile di chi abbiamo amato –, da cosa deriva l’apparente contraddittorietà di un io lirico così sereno nell’accettare simili naufragi? Non è soltanto questione di tenacia e di forza interiore. Quelli che acutamente rileva Mauro Ferrari nella sua nota critica, «i segni di un’irruzione potenziale dall’Oltre», andrebbero a mio parere integrati soppesando in particolare la seconda e l’ultima poesia della raccolta. Ne La porta si allude senza ombra di dubbio alla Risurrezione, mentre il lungo, calibratissimo componimento finale (L’attesa e la promessa) rievoca l’incontro fra san Giuseppe e la Vergine Maria (1).
È dunque la luce di una speranza prettamente religiosa che ha fornito a Raffaele Floris l’impalcatura spirituale atta a non cedere alla disperazione, né tanto meno a rinunciare alla compostezza del suo gesto poetico. In esso, la linfa segreta che alimenta i versi è la medesima che ripristina il cielo.
1) Si veda anche l’haiku “pascaliano” La ragione del cuore.