Eugenio Scalfari si considera erede di Pannunzio e del «Mondo». Lei cosa ne pensa?
Penso che a questa domanda si possa rispondere in due modi: uno riguarda l’aspetto psicologico e uno politico. E che entrambi si sommino. Il motivo psicologico ha a che vedere con la necessità del giovane Scalfari di essere
finalmente accettato in un club di patrioti intelligenti e senza macchia.
Scalfari veniva da una serie di esperienze contraddittorie e assai comuni: era
stato un fervente fascista (come quasi tutti i futuri antifascisti), un acceso
monarchico e poi un liberale radicale. Doveva ancora cambiare le future pelli
politiche e tattiche che lo avrebbero reso di volta in volta repubblicano (in
quanto amico di Ugo La Malfa), socialista, comunista e infine democristiano. L’ingresso fisico nella redazione del «Mondo» di Pannunzio fu per lui un traguardo rassicurante perché lo metteva in contatto con un ambiente incorrotto, intelligente, animato da un’anima e da una memoria storica limpida. In questo senso quell’ingresso fu controverso e contraddittorio, perché
Scalfari accennava sempre vagamente agli anni del «Mondo», mentre gli
uomini del «Mondo» raccontavano e ancora raccontano di un sostanziale
rifiuto di Pannunzio e dei suoi collaboratori. Non so dire se sia vera la leggenda di Scalfari fatto allontanare dai commessi perché arrivato in redazione in tenuta da tennista, ma se non è vera è ben trovata per disegnare quella frustrazione.
L’aspetto politico è più sottile, ovviamente connesso con quello personale
e psicologico. Il marchio di fabbrica del «Mondo», applicato dalla mano di
Scalfari diventa una sorta di salvacondotto praticissimo per condurre una
navigazione spericolata e personale, contraddittoria e brillante, sempre garan105
tita da quel magico nome, «Il Mondo» di Pannunzio, che ne fa piuttosto
l’«Apriti Sesamo» della politica. Scalfari è sempre stato molto franco nell’ammettere le proprie giravolte, ma le ha sempre giustificate con un altro suo marchio prediletto: il libertinaggio filosofico, che in realtà funziona come un
passe-partout con cui aprire o scardinare cancelli che talvolta l’etica e perfino
la decenza vorrebbero tener chiusi.
«La Repubblica» si ritiene altresì continuatrice del «Mondo». È così?
Ovviamente no, nemmeno per sogno. Era già bizzarro per non dire arrogante, l’idea di invitare l’Italia a considerare «L’Espresso» come una spora
derivata dal «Mondo», che pure ne imitava qualche tratto. «La Repubblica»
fu un’invenzione semplicemente geniale, un pezzo unico nella storia del giornalismo e della politica di tutti i tempi: nacque come una costola dell’
«Espresso» (Scalfari fondò il quotidiano avendo il dente avvelenato con «la
banda dei quattro» che aveva governato «L’Espresso» mentre lui era deputato
socialista a causa della condanna per l’affare De Lorenzo, e che gli aveva sbarrato le porte della direzione ghettizzandolo in una «Lettera finanziaria») e diventò prestissimo il primo giornale d’Italia, anche perché poté profittare a
mani basse delle disgrazie del «Corriere della sera» impantanato nello scandalo della loggia P2 di Licio Gelli. Ma a parte quest’elemento contingente Scalfari fece un giornale genialmente commerciale, che è come dire l’opposto
esatto della cifra del «Mondo». Scalfari curava i tamburini dei cinema e le farmacie aperte, mentre coltivava i rapporti con le cancellerie, la diplomazia, i sindacati, i partiti, gli artisti, i cattedratici, i fondisti, i cineasti, le femministe, i movimentisti, i rivoluzionari e persino (all’inizio) i socialisti. La cifra del «Mondo» era fatta di eleganza per pochi, di una lingua curata e aristocratica,
di un umorismo gelido e devastante, un’etica senza doppie maniche. La cifra di «Repubblica» fu quella del massimo assorbimento dei vizi, delle mode, dei tic, delle cialtronerie, dei luoghi comuni, del sinistrese, del giovanilismo, di
tutto ciò che fosse nella tendenza. Finché, ed è qui il suo merito, la sua genialità, «La Repubblica» non fece essa stessa tendenza, moda, linguaggio, tic, cialtroneria, comportamento: una copia del giornale era una griffe da esibire,
i salotti si aprivano finalmente e chiedevano spazi, tutto il ciarpame dell’aristocrazia di sinistra e del conformismo di sinistra entrarono a vele spiegate, mentre dalle Botteghe Oscure, attraverso una ben controllata manovra che
svuotava il quotidiano comunista «Paese sera» per riversarne le energie in
Piazza Indipendenza, arrivava e si radicava in pianta stabile un vero Comitato
Centrale e un Direttivo della Commissione politica di controllo, che occupava tutti gli snodi direttivi del giornale, arrivando persino a minacciare di esautorare lo stesso Scalfari che si trovò in conflitto talvolta con lo stesso
Golem cui aveva dato la vita. Il giornale non nacque per essere una libera
voce, ma per essere il luogo, il laboratorio politico in cui svolgere la reazione
che avrebbe dovuto animare l’atteso Frankenstein: il mostro fatto di pezzi di
borghesia, pezzi di capitalismo boiardo e monopolista, con il partito comunista italiano. Il piano fallì, ma la storia paradossalmente realizzò egualmente un mostriciattolo, fabbricato e animato dall’uomo che Scalfari aveva
abbandonato e attaccato a sangue dopo esserne stato amico: Francesco
Cossiga che, pur di essere il padrino della prima guerra europea della Nato,
scavalcò ogni ostacolo e portò direttamente l’ultimo segretario di Botteghe
Oscure a Palazzo Chigi. Come si vede, strategie e tattiche di «Repubblica»
(mi riferisco soltanto a quella di Eugenio Scalfari, essendo quella successiva
soltanto un’opulenta polenta) non hanno nulla a che vedere, neanche con la
migliore ed elastica delle volontà interpretative, con la tradizione del
«Mondo». Dottor Guzzanti, che giudizio dà di Eugenio Scalfari oggi? In fondo lei, il fondatore di «Repubblica», lo conosce bene perché nel suo giornale ha lavorato per anni. Inacidito e invecchiato, purtroppo, Eugenio Scalfari ormai si abbandona
ad aggettivi facili, sciocchi e démodé, dando del teppista, del cialtrone o del
becero a destra e manca, cioè a chiunque non la pensi come lui. Ci vuole
comprensione perché è un uomo frustrato che avrebbe ben meritato di guidare ancora per anni e anni la guerra da corsa del suo vascello corsaro, mentre invece gli è andata male e per colpa sua: si è venduto baracca e burattini
all’ingegner De Benedetti che alla fine si è liberato di lui e lo ha confinato
come certi personaggi scespiriani in una torre che in realtà è una specie di
magazzino delle scope. E di lì, iroso e malandato, secerne le sue tossine domenicali sotto forma di sterminati articoli nel cui cupo mare chi vuole è libero di affogarsi.
Scalfari ha negato in più sedi che sia esistito il cosiddetto «partito di
Repubblica». Lei però la pensa diversamente.
Diversamente, certo. Scalfari ha sdegnosamente negato non solo che un
tale partito abbia mai visto la luce, ma pure che abbia fatto e disfatto governi, attaccato più volte il Quirinale per imporre le dimissioni al suo abitante, e che sia diventato (e in tale funzione abbia agito) come il più importante,
anomalo, improprio, devastante centro di potere, esterno ai poteri previsti,
nella storia repubblicana. Non il potere di un giornale, non il potere dell’informazione e della fornitura ai lettori degli strumenti per formarsi un’opinione libera, ma un potere
d’interdizione, di coagulazione, un potere di lobbyng, di accolita, di filibusta:
ciò che Giampaolo Pansa chiamava gioiosamente, ai tempi d’oro, la «banda
Scalfari». E dico subito, per dovere e anche per piacere, di aver fatto all’inizio
io stesso parte di quella banda, di esserne stato testimone e partecipe almeno
fino alla metà degli anni Ottanta, quando il mio dissenso divenne paralizzante, sicché fui relegato ai supplementi di servizio. E voglio dire anche che nei primi anni stare alla filibusta era esaltante e divertente. Ma d’altra parte
sono sicuro che Eugenio Scalfari abbia gravemente nociuto alla salute della
Repubblica. Cosa direbbe a Scalfari se in questo momento gli potesse parlare?
Semplicemente: «Ma caro Eugenio, non ricordi? Non ricordi quante volte
nel corso dei quindici anni trascorsi insieme abbiamo parlato del «partito
Repubblica» di cui tu andavi giustamente fiero e che è stata la tua rinascimentale opera d’arte?» Ma questo argomento, del ricordo personale, non
sarebbe valido per i lettori, specialmente per quelli più giovani che non sanno
che cosa sia stata l’Italia dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni
Novanta, anni che si potranno anche chiamare «gli anni di Repubblica e del
suo devastante potere».
E quindi, per poter avviare una discussione sulla questione nazionale detta
il «partito Repubblica», devo fare in gran rapidità il riassunto delle puntate
precedenti. Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, direttore ed editorialista
dell’«Espresso», furono condannati nel corso del processo che seguì le rivelazioni sul presunto golpe del generale De Lorenzo e sul Sifar (il vecchio nome del servizio segreto che oggi si chiama Sismi). Scalfari e Jannuzzi si videro
proporre, come si usava allora, una candidatura, rispettivamente, alla Camera
nel collegio di Milano e al Senato per quello di Sapri e i due valenti giornalisti furono eletti nel 1968. La candidatura fu offerta dall’allora segretario del Partito socialista italiano, Giacomo Mancini.
Scalfari fu sostituito alla direzione dell’«Espresso», cosa che gli mandò la vita
di traverso e che lo portò a meditare una doppia rivalsa: farsi rieleggere alla
Camera e fondare un grande quotidiano. La prima cosa gli andò male e la
seconda benissimo. Ma il primo fallimento generò in un certo senso il successo del secondo. Scalfari infatti non fu eletto deputato a Milano per la seconda volta, e per pochi voti, perché si scontrò con Bettino Craxi iniziando così quel
duello che per vent’anni è stato il terreno di battaglia sul quale si è giocata
politica italiana. Scalfari a Milano si alleò con il vicesegretario del Psi, Mosca,
con cui cercò di portare via voti a Craxi. Craxi mobilitò le sue truppe. Poi
Scalfari incorse nel famoso incidente della patente che ha avuto effetti sulla
Storia, un po’ come il pomo di Paride aprì la strada alla guerra di Troia.
Ci racconti l’episodio. Scalfari aspettava qualcuno alla stazione di Milano con la sua macchina
posteggiata male. Un «ghisa» gli ordinò di rimuoverla e lui rispose che se
poteva parcheggiare quella macchina nera là, non vedeva perché lui non
potesse fare altrettanto. Il vigile rispose: «Quella è la macchina del Prefetto»
e Scalfari reagì con il classico lei-non-sa-chi-sono-io: «Sono un deputato:
voglio parcheggiare qui anch’io». Il vigile gli chiese allora patente e libretto,
ma Scalfari non aveva la patente (secondo la sua versione ce l’aveva ma se l’era
portata in mare ed era illeggibile) e finì al posto di polizia. Gli uomini di
Craxi lo seppero e andarono al «Corriere della Sera» a raccontare l’accaduto
sicché tutta l’Italia seppe che l’onorevole Scalfari era stato protagonista di un
episodio di arroganza e gli elettori se ne ricordarono.
Quando Scalfari fondò «Repubblica» una cosa aveva particolarmente chiara nella sua mente: con Craxi non sarebbe finita lì, e il suo odio sarebbe stato eterno e mortale, come in effetti fu. Il giornale era bello, nuovo, con un formato mai visto, una impaginazione moderna, la vignetta di Giorgio Forattini nella pagina degli editoriali. L’obiettivo dichiarato, promuovere l’incontro e
le nozze fra la borghesia imprenditoriale e il Pci di Enrico Berlinguer, che a
quei tempi era strettamente legato all’Unione Sovietica (sappiamo oggi che le
scelte del Pci erano tutte autorizzate e anzi raccomandate dal Pcus e sorvegliate direttamente dal Kgb).
Nel 1976 Craxi divenne segretario del Psi durante il famoso Congresso
dell’hôtel Midas e Scalfari fu sconfitto perché sosteneva Antonio Giolitti, ex
delfino di Palmiro Togliatti entrato nel Psi dopo la repressione sovietica in
Ungheria nel 1956: il grande nemico personale diventò il nemico politico
con l’obiettivo di farne, così come avvenne, il nemico pubblico numero uno.
Scalfari ebbe un incontro con Aldo Moro in quel periodo, e il segretario
democristiano gli spiegò che i comunisti non avrebbero mai potuto entrare
in un’alleanza di governo con i democristiani e gli altri partiti atlantici. E gli
disse anche che lui, Moro, era in un certo senso il notaio di questo stato di
cose. Poco tempo dopo la banda armata Brigate Rosse rapì Aldo Moro, di cui
poi rese il cadavere nel portabagagli di una Renault in Via Caetani. In quell’occasione l’Italia si divise fra coloro che volevano – primum vivere – salvare Moro, e chi viceversa lo voleva morto.
Scalfari, se non ricordiamo male, era per la linea della fermezza.
In quell’occasione la «Repubblica» cominciò a funzionare come un centro
di comando, di potere e di coordinamento.
Oggi noi non siamo in grado di dire in quelle settimane quali fossero i
grandi giochi delle grandi potenze, dei servizi sovietici, degli americani e di
coloro che infiltravano e teleguidavano i nostri terroristi. Ma possiamo dire
che con Moro fu eliminato l’uomo che doveva garantire insieme con la massima apertura possibile, anche il massimo contenimento nei confronti dei comunisti. Da allora la direzione di «Repubblica» diventò il motore della
politica italiana per le straordinarie e anzi uniche qualità personali di Scalfari,
anche se i risultati per il Paese, a mio parere, furono disastrosi: il suo modo
di fare giornalismo era apparentemente elegante e «aperto», ma in realtà
perentorio, apodittico, moralistico, sferzante, senza riguardi per la verità fattuale degli eventi.
Quel modo, brillante e fazioso, elegante e presuntuoso, contaminò la
stampa italiana che veniva da un lungo letargo paludato e ipocrita, quando
non era quella degli organi di partito. Scalfari affascinava, accoglieva, respingeva, puniva. E suggeriva a De Mita di offrire la presidenza del Senato a Cossiga e poi la Presidenza della Repubblica, conservando per sé il potere, o
la pretesa, di revocarla dichiarando matto il Capo dello Stato e organizzando
una campagna per la sua cacciata.
Intanto lei passò a «La Stampa», diretta in quel periodo da Paolo Mieli.
Esatto. Durante la permanenza al quotidiano torinese mi capitò di assumere la difesa giornalistica del Capo dello Stato, semplicemente ristabilendo
la verità costantemente alterata e intossicata, ovvero capovolta, da un sistema
di comunicazione che ha rappresentato in Italia un grave attacco alla democrazia, perché manipolava la formazione delle opinioni, dei sentimenti, dei risentimenti, agendo sulle passioni, i rancori, le esaltazioni e le depressioni
degli italiani. Quel sistema non comprendeva soltanto «Repubblica», ma era
formato dalla perfetta sinergia del quotidiano di piazza Indipendenza, dalla
Terza rete Rai, dal Tg3 e dal settimanale «L’Espresso». La loro comune campagna contro Cossiga e la manipolazione dell’affare «Gladio» furono terrificanti e non avevano nulla a che vedere, secondo me, con l’informazione e la
libertà di stampa.
Quella sinergia, quel fascio di sistemi comunicativi (comunicativi, non
soltanto informativi: cioè fondamentalmente portatori di emozioni e di partigianeria violenta), è stata un caso unico nella storia dei media del mondo intero. Nulla di simile si è mai visto in Europa, negli Stati Uniti e neanche
nell’Asia delle tigri finanziarie e mediatiche. A onore di Scalfari va detto che
fu un genio: che creò dal nulla una griffe, una moda, un linguaggio, una catena di pregiudizi e di rancori che crescevano miracolosamente come moltiplicazione dei suoi rancori, dalle sue guerre personali, dai fasti del suo odio.
Ebbe la fortuna di maramaldeggiare sul «Corriere della Sera» in crisi per la
vicenda P2 e di potersi garantire il bacino di lettura che era appartenuto a
«Paese Sera». Ma Scalfari è davvero un maestro di giornalismo o un abile politico imprenditore?
Ciò che rese unica e anomala, e pericolosa e terribile, la sua opera, fu la
grande seduzione operata sul mondo politico democristiano e comunista,
sulla grande industria e sui cosiddetti poteri forti, sia pure con alterne vicende. Nel suo caso il valore aggiunto dovuto al «fattore umano» fu enorme e probabilmente irraggiungibile. Ma da lì, da quella genialità, l’Italia ha avuto
una continua e sprizzante fonte di odio. L’odio per Silvio Berlusconi fu
immediato: Berlusconi era amico di Bettino Craxi, e ciò lo qualificava già per
la camera a gas e il crematorio. Poi Berlusconi entrò spavaldamente in guerra con lui a Segrate. Una guerra nata dalla disfatta clamorosa e disastrosa della Mondadori che aveva tentato, per iniziativa di Mario Formenton, di creare
una rete televisiva, la «Uomo Tv», che fallì trascinando nel suo naufragio la
casa-madre. Scalfari aveva frattanto venduto «Repubblica» a Carlo De
Benedetti, con cui poi avrebbe rotto, finendo nel magazzino delle scope di
cui dicevamo all’inizio. Oggi vale la pena di ricordare la metafora del «cono
d’ombra». Di cosa si tratta?
Secondo Scalfari, coloro che cadevano sotto la sua interdizione micidiale,
entravano in un «cono d’ombra». Lo diceva ridendo, ma ci credeva ed era
vero. Il suo massimo potere consisteva proprio nel togliere legittimità a
chiunque non gli andasse a genio e nel precipitarlo in un cono d’ombra. Un
giorno Leonardo Sciascia scrisse che lui, Sciascia, sarebbe presto scomparso.
Ma che dopo la sua morte, prima o poi, Eugenio Scalfari sarebbe finalmente
diventato meno potente, anzi per nulla potente e forse avrebbe rimpianto
qualche sua ribalderia.
Io non credo che Scalfari rimpiangerà mai nulla perché, sopraffatto da un
Io ipertrofico e colesterolico, non è capace né di piangere né di rimpiangere
nulla. Ma certo è che il suo sole sembra tramontato, il suo sistema di potere
finito, un cono d’ombra lo rende meno luminoso anche nelle parole e nei
pensieri che si fanno opachi. Gli resta questa albagìa, questa sicumera, questa attitudine all’oltraggio, all’insulto, all’invettiva. Ma quelle le consideriamo
per quel che sono: tristi esiti di una vita lunga e non più felice.
APPENDICE
Pubblichiamo dal «Taccuino» del «Mondo» del 12 ottobre 1965 una testimonianza di particolare interesse che rivela quali fossero realmente i rapporti tra
Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari, rispettivamente direttori, nel 1965, de
«Il Mondo» e de «L’Espresso». La nota del «Taccuino», secondo autorevoli testimoni, fu ispirata dallo stesso direttore Mario Pannunzio.
OPERA SOLITARIA
Il direttore dell’«Espresso» ha voluto celebrare l’anniversario della fondazione del suo giornale in un articolo che elenca le benemerenze del periodico nei suoi primi dieci anni di vita. L’avvenimento meritava certamente un
cenno di ricordo, perché nell’ottobre del 1955, quando Arrigo Benedetti
fondò l’«Espresso», nacque in Italia non solo un nuovo giornale, vivo, attuale, tecnicamente aggiornato, ma un nuovo organo democratico, che nella
povertà della stampa indipendente e impegnata ebbe subito un suo colore e
un suo successo. Arrigo Benedetti avrebbe dovuto commemorare
l’avvenimento. L’ha fatto invece il suo successore il quale, a dire il vero, non
sempre ha dato l’impressione di seguire con responsabilità e con rigore
l’esempio di Benedetti.
«Ricordate quei tempi», scrive Eugenio Scalfari nel numero celebrativo,
accennando all’epoca in cui nacque il giornale. «Stava finendo il decennio
degasperiano e lasciava dietro di sé un paese impigrito, una folla di speranze
deluse dopo gli anni limpidi della Resistenza, un diffuso sospetto di malgoverno, uno Stato che di laico non aveva altro che il nome. (…) In quell’ambiente politico così impigrito, così stagnante, l’«Espresso» fu il primo giornale indipendente ad affermare alcune verità, spesso spiacevoli e impopolari, delle quali comunque non si era mai parlato fino a quel momento. (…)
Inutile ricordare qui quanta fatica, quante incomprensioni, quante inimicizie
potenti sia costata quell’opera solitaria di denuncia, di critica, di dissodamento morale. Avevamo cominciato da appena pochi mesi la nostra vita giornalistica quando Manlio Cancogni iniziò l’inchiesta sulle speculazioni edilizie romane che dette luogo poco dopo a un processo clamoroso …» eccetera.
I nostri lettori rimarranno forse stupiti a sentir dire che l’«Espresso» «fu il
primo giornale indipendente ad affermare alcune verità spiacevoli e impopolari, delle quali non si era mai parlato fino a quel momento», e il loro stupore probabilmente crescerà sentendo ricordare «l’opera solitaria di denuncia, di
critica e di dissodamento morale» di cui oggi Scalfari ama vantarsi con una
insospettabile vocazione alla solitudine. Noi non pensiamo che l’«Espresso»
sia stato il primo giornale a dire certe verità e a dissodare moralità isterilite.
Qualcun altro aveva cominciato quest’opera; ed anche l’attuale direttore
dell’«Espresso» poté imparare che su certe pagine di giornali si poteva scrivere la verità. La verità sul governo e sul sottogoverno, sul clericalismo e sulla
scuola, sulla magistratura e sull’esercito, sui monopoli e sulla speculazione
edilizia. Sulla speculazione edilizia, tanto per fare qualche nome, ci sembra
che Leone Cattani e Antonio Cederna abbiano preceduto di anni il Manlio
Cancogni. Qualcuno avrà certo sentito parlare delle campagne di Ernesto
Rossi contro i padroni del vapore, le mafie amministrative, i privilegi del
Vaticano, gli elettrici e la Federconsorzi. Altri ricorderanno forse che su certi
giornali, molto prima che sull’«Espresso», si è parlato di alleanze laiche, di
sinistra democratica, di riforme di struttura, di buona amministrazione ecc.
ecc. Tanto è vero che intorno a questi ideali si formò addirittura un partito.
Molti degli scrittori che scrivono oggi sull’«Espresso» si erano fatti le ossa proprio su qualcuno di questi giornali, che nacquero molto prima del ‘55.
È successo invece che questi temi sono decaduti sull’«Espresso» a pretesti
di una polemica casuale che si risolve spesso in grandissimi titoli ai quali non
sempre corrisponde un eguale contenuto. Tutte le posizioni sulle quali si è
impegnata la sinistra democratica e laica, tutti i problemi che negli ultimi
anni hanno avuto qualche significato, sono divenuti merce intercambiabile
per un giornalismo spesso sciatto, approssimativo e velleitario. L’«Espresso»,
infatti è qualche volta progressista e democratico di sinistra, ma è anche neocapitalista di centro destra. Qualche volta è filo occidentale. Qualche altra
volta cubano, algerino, tonchinese. Spesso lo troviamo vicino a Guido Carli,
altrettanto spesso a Riccardo Lombardi. Qualche volta è benevolo con
Fanfani, qualche altra volta strizza l’occhio a Pajetta. Ma il più delle volte
ambedue le cose contemporaneamente, a seconda delle pagine, sicché non ci
appare sempre quel settimanale austero e dissodatore che il suo direttore si
vanta di dirigere.
Lo riconosce, alla fine dei conti, lo stesso Scalfari quando afferma che «è
accaduto anche che ci venisse mossa la critica di essere oscillanti nei giudizi e
incerti nelle amicizie». E potrà anche essere come ci dice Scalfari con commozione, che il suo pubblico, «giovane, moderno, privo di tabù», pessimista
e ottimista nello stesso tempo, sia «il miglior pubblico d’Italia».
Ma è proprio quel pubblico che va notando le oscillazioni nei giudizi e le
incertezze nelle amicizie; le quali non si addicono a chi vanta una primogenitura morale che non gli spetta, ma che si addicono purtroppo a chi dimentica di tener fede a un’eredità ricevuta
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