Cercherò di essere breve. Ma non lo sarò. Mettetevi comodi, prendete un caffè e cercate di seguirmi.

Jonathan Bazzi ha scritto un racconto che è stato pubblicato sulle pagine dell’inserto domenicale del quotidiano Domani.

In questo racconto il protagonista (non Jonathan Bazzi) racconta il suo desiderio di avere un corpo magro. Il protagonista (non Jonathan Bazzi) fa una -se vogliamo così definirla- apologia della magrezza. Il protagonista (non Jonathan Bazzi) esprime pensieri controversi, difficili da digerire, lontani da molte sensibilità.

Il protagonista. Non Jonathan Bazzi.

A seguito della pubblicazione del racconto, un gruppo di persone ha dato vita a una raccolta di firme perché il racconto è uno “spot per l’anoressia”.

Jonathan Bazzi (non il protagonista del racconto) si è messo di buzzo buono e ha risposto alle critiche.

E questo non va bene.

E questo è un pessimo. Pessimo. Segno.

È un pessimo segno perché, in questa società inzaccherata e trasudante cultura da social network, si sta iniziando a confondere pericolosamente la letteratura con l’opinionismo. Le persone iniziano a ritenere che “se lo scrivi allora lo pensi e se lo pensi allora lo fai” senza fare più distinzione tra quello che -non dico sia il modo- ma è il luogo in cui le cose sono scritte. Se c’è scritto sopra “RACCONTO” è perché è un “RACCONTO” e non è uno status di Facebook o un comizio politico. Se c’è scritto RACCONTO è perché è un racconto e nei racconti, nella narrativa, i protagonisti nascono (anche e soprattutto) per fare cose turpi, orrende, estreme. Cose che nessuno farebbe o penserebbe mai.

Sui social abbiamo visto ripetere fino alla nausea (fino alla nausea) la citazione di Umberto Eco che recita: “Chi non legge libri vive una vita sola, chi legge libri ne vive migliaia”. Come sempre, anche con il povero Umberto Eco (nel caso specifico “cognomen omen”), certe frasi vengono ripetute a cottimo solo perché hanno un bel suono senza che si cerchi di capirne il significato.

L’aforisma del professore prova a spiegare proprio questo: la letteratura ci porta all’interno di menti e di vite che non avremmo voglia, tempo, modo o forse coraggio di conoscere. La letteratura ci conduce nell’esistenza di serial killer, di santi, di eroi, di traditori, di assassini, di stupratori, di cavalieri, di draghi, di creature fantastiche. E di mostri reali.

È il motivo per cui il mestiere dello scrittore e della scrittrice è tanto difficile e doloroso: bisogna far propri dei pensieri che spesso e volentieri sono lontani anni luce da noi e dalla nostra scala di valori. Per fare questo bisogna calarsi come speleologi nelle parti più oscure dell’animo umano (nello specifico: il proprio) per trovare e portare alla luce e sulla pagina pensieri inconfessabili e desideri laceranti.

Perché se scrivi qualcosa si presuppone che debba essere, quantomeno, interessante e non c’è niente di più interessante di ciò che la gente non sa o -ancor meglio- non ha il coraggio di ammettere di voler sapere.

Lo dico spesso: la categoria professionale che annovera il maggior numero di suicidi non è quella dei musicisti o degli attori bensì quella degli scrittori. Il perché è presto detto: fare lo scrittore è, ogni volta, rischiare di fare la fine di un attore che si cala troppo nella parte. Avete presente no? Quegli attori che rischiano di impazzire perché si sono troppo immedesimati con il personaggio.

L’unica differenza è che se sei uno scrittore non hai qualcuno che ti aiuta a entrare nella parte e soprattutto non hai nessuno che ti aiuta a uscirne. Sei solo con i demoni che hai evocato. Sempre.

Il parallelismo con il cinema torna due volte utile: chi ha criticato Bazzi per il suo racconto non è molto diverso da chi va a insultare per strada un attore o attrice perché il suo personaggio nella soap ha tradito il compagno o la compagna. E “certe cose da te proprio non me le sarei aspettate”.

Una scena così, vista per strada, ci farebbe sorridere, farebbe pensare a una certa “pochezza intellettuale”: non capire la differenza tra attore e personaggio, che cosa sciocca!

Ma allora, mi chiedo: cosa cambia tra fare la ramanzina a Ronn Moss pensando di farla a Ridge Forrester e farla a Jonathan Bazzi per quello che pensa e dice un suo personaggio in un racconto?

Ora non voglio arrivare affermare che “Non si può più dire niente”.

Dico però che ormai “Non si ascolta più abbastanza”.

E questo, signori miei e signore mie, è il male incurabile di ogni civiltà: la perdita dell’immaginazione.