Un’Italia sempre più rossa. Il consiglio dei ministri ha stabilito con un decreto legge un’ulteriore stretta ancor più stringente di quella precedente. Si va verso una Pasqua blindata come a Natale, il passaggio delle zone gialle in arancioni, la chiusura automatica quando i contagi superano i 250 casi ogni 100.000 abitanti. Chi sperava in un cambio di passo rispetto al governo Conte in tema di restrizioni è rimasto deluso: la riconferma del ministro Speranza ha dimostrato come il nuovo esecutivo non intenda cambiare linea nella gestione della pandemia. La chiusura delle scuole, dei ristoranti, di tante attività commerciali, il divieto di andare a trovare amici o parenti in zona rossa, vanno nella direzione di limitare ulteriormente il contagio. Anche nel metodo c’è una continuità di fondo col precedente esecutivo. «Spero che quello entrato in vigore sabato sia il primo e l’ultimo dpcm. Mi auguro ci sia maggiore rispetto per il parlamento, per la distinzione tra attività normativa e amministrativa. I limiti alle libertà personali devono avvenire con atti normativi ma questi sono atti amministrativi», ha commentato in un’intervista il costituzionalista Sabino Cassese. Non si può però chiedere al presidente del Consiglio un cambiamento radicale in così pochi giorni. Sarà nell’organizzazione e nella gestione del piano vaccinale che si misurerà il vero cambio di passo. Già oggi, tuttavia, è possibile scorgere alcuni importanti segnali di diversità: la becera propaganda, per esempio, è diventata pragmatica comunicazione istituzionale. «Si parla solo quando c’è da dire qualcosa», ha detto Draghi nel suo primo consiglio dei ministri. Durante il suo videomessaggio di lunedì, inoltre, l’ex governatore della Banca d’Italia ha sottolineato come spetti soprattutto al governo fare di più. Nulla di più lontano rispetto alla retorica e al qualunquismo di Conte e Casalino, i cui messaggi erano tutti intrisi di un aristocratico «noi concediamo», «noi permettiamo». È quell’idea secondo cui il sovrano affida, toglie e restituisce libertà e diritti personali inviolabili sulla base del proprio potere politico, illimitato e assoluto. I cittadini vengono considerati come dei sudditi e non coloro da cui deriva la legittimità politica. Mai come oggi sono attuali le parole di Cavour: «Sono figlio della libertà e a lei devo tutto ciò che sono». Come ricorda il filosofo Pierre Manent, in democrazia l’obbedienza può essere legittima solo nel momento in cui si basa sul consenso dei cittadini, che accettano il potere del sovrano in quanto espressione della loro volontà. Ciò significa che le decisioni del corpo politico hanno origine, fondamento e consenso esclusivo nella volontà del corpo elettorale e non viceversa. Persino i tecnici si permettono di giudicare la condotta dei cittadini: per alcuni membri del Comitato tecnico scientifico è diventata abitudinale la prassi di criticare, con superiorità e supponenza, su tutti i giornali, il comportamento delle persone, le quali, rispettando le regole, si concedono nel weekend una passeggiata o un pranzo all’aperto. Alcuni scienziati sembrano considerare i nostri diritti non come delle prerogative naturali intrinseche dell’individuo, ma come dei premi che un direttorio illuminato elargisce o reprime. Per alcuni consiglieri di Speranza staremmo addirittura ancora scontando la «troppa libertà concessa» nei mesi estivi. Non solo roboanti e superficiali dichiarazioni, ma anche inutili ingerenze e restrizioni che, a volte, sono sembrate un vero accanimento verso alcune categorie. Si pensi, ad esempio, che in 9 paesi europei è possibile sciare, mentre da noi si è deciso, dopo un sì iniziale, di tener chiusi gli impianti esattamente la sera prima della riapertura. Forse questi virologi dimenticano o ignorano che dietro ogni limitazione si celano drammi non solo economici e occupazionali, ma anche culturali, sociali, psicologici e relazionali. Il caso della scuola è emblematico: siamo il Paese che ha tenuto le scuole chiuse più a lungo in tutta Europa e questo vulnus lo pagheranno i nostri ragazzi negli anni a venire. Ancora una volta, insegnanti, famiglie e studenti sono stati lasciati soli, additati come “untori” per scaricare responsabilità altrui. «Non sappiamo dove ci si contagia», avrebbe poi ammesso il direttore della Prevenzione del Ministero della Salute Gianni Rezza rispondendo a una domanda in merito al ruolo della scuola nel contagio. L’ingerenza nella vita privata ha raggiunto il suo culmine quando si è pensato di indicare persino il numero di persone da invitare a casa e con cui è consentito stare a tavola. Invece di predisporre chiusure chirurgiche e tempestive, i consiglieri del ministro Speranza hanno continuato a evocare restrizioni nazionali uguali per tutti, prevedendo da mesi scenari apocalittici. Anche sul fronte delle cure sono stati fatti gravi errori: le linee guida dell’Aifa e del Ministero della Salute hanno certamente aggravato il quadro clinico di molti malati di Covid. Nonostante per mesi moltissimi medici abbiano ribadito l’importanza e la necessità delle terapie domiciliari, un documento del Cts del 20 novembre continuava a prevedere soltanto «tachipirina e vigile attesa», sconsigliando i sanitari nel prescrivere tutte quelle cure ritenute necessarie per propri pazienti. Solo la sentenza del Tar del Lazio ha segnato un punto di svolta: con un tempestivo intervento terapeutico l’infezione può infatti essere curata e gestita da casa già ai primi sintomi, evitando così che esploda quella reazione immunitaria, la cosiddetta tempesta di citochine, che è causa di morte nella maggior parte dei casi. A muoversi per prima è stata la regione Piemonte, che ha recepito la sentenza modificando il protocollo per la presa in carico a domicilio dei pazienti. In questo mare magnum di incertezze, contraddizioni, faide interne al mondo politico e scientifico, le persone si aspettano dal governo Draghi chiarezza, umiltà e pragmatismo per gestire al meglio l’ultimo miglio. La luce in fondo al tunnel inizia a vedersi, speriamo non sia solo l’ennesimo abbaglio.
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