Brevi considerazioni generali sulla relazione della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.
Nel corso delle settimane scorse, in occasione della giornata internazionale conto la violenza sulle donne, è stata presentata e diffusa la relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla violenza di genere, relativa, in particolare, alla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia relativa, in particolare, all’analisi delle indagini e delle sentenze del biennio 2017-2018. La relazione è molto articolata, è suddivisa in cinque parti ed analizza in modo molto puntuale e preciso la risposta giudiziaria al fenomeno delle uccisioni di donne nel nostro Paese per mano, nella maggior parte dei casi, di mariti, conviventi e/o altri familiari. Tuttavia, a mio avviso, la relazione è apprezzabile soprattutto in quanto non si limita alla mera analisi tecnico – giuridica dei dati (che nella premessa, si precisa non influenti, anche se riferiti agli anni 2017-2018 sul quadro generale del fenomeno), ma li cala nella realtà e nel sentire sociale sul tema. Alla fine di questa interessante analisi, quello che emergerà, in modo inequivocabile, sarà che il diritto risulta essere fortemente influenzato dai pregiudizi , dagli stereotipi e da una diffusa mentalità prevaricatrice e patriarcale e che gli strumenti giuridici attuali, finalizzati al contrasto del femminicidio, risultano inadeguati, così come insufficienti risultano le misure di protezione preventiva della vittima, con la conseguenza che spesso il silenzio diventa l’unica possibilità per chi subisce violenza e abusi sessuali. Dai dati inseriti nella relazione, infatti, si evince che spesso la denuncia, quando avviene, sia preceduta dal silenzio su quanto subito, anche con i propri familiari e che raramente viene chiesta una consulenza ad un avvocato in relazione a tali fatti. Tuttavia, quando il contatto con il legale avviene, è prevalentemente con avvocate civiliste ed il contesto di violenza emerge nel momento in cui si decide di addivenire alla separazione dei coniugi; in presenza di figli, le donne vittime di violenza risultano molto reticenti a denunciare, con la motivazione di non voler arrecare pregiudizi ai figli o al coniuge/convivente violento sul luogo di lavoro, per non pregiudicarne la carriera, o di temere la perdita dell’affidamento dei figli. Il sistema giudiziario attuale sicuramente non aiuta le donne che si trovano nella situazione sopra evidenziata. Infatti, non solo ci troviamo, come sottolinea il GREVIO (l’organismo comunitario di controllo sulla violenza di genere nei singoli Paesi) innanzi a uffici giudiziari, in particolare procure, prive di magistrati specializzati in materia, ma purtroppo va dato atto che denunciare è, molto spesso, più pericoloso che non denunciare. Infatti, l’inefficacia delle misure preventive e cautelari che l’ordinamento prevede, a tutela delle vittime di violenza che denunciano di averle subite, comporta il rischio che la persona violenta possa avvicinarsi e aggredirle nuovamente, quando non ucciderle. Se a ciò si aggiunge che denunciare può comportare la conseguenza di rimanere prive di reddito, oltre che la possibilità di essere oggetto di fenomeni di vittimizzazione secondaria, ben si comprende come denunciare diventi davvero problematico. La riforma Cartabia sembra avere compreso quanto sommariamente evidenziato, laddove agisce proprio sulla prevenzione, prevedendo, in particolare, la necessità di rendere effettivo il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima, con possibilità di arresto in flagranza e non di reato. Tuttavia, come evidenziato in una intervista rilasciata al quotidiano “Il Secolo XIX” del 23 novembre 2021, dall’ex Procuratore di Genova, dott. Francesco Cozzi, la circostanza che il reato sia punito con una pena non superiore ai tre anni non consente l’efficace e duratura applicazione delle misure cautelari, con tutte le conseguenze appena evidenziate. L’auspicio è che vengano apportati i correttivi necessari affinché il silenzio non sovrasti la voce della denuncia, come ben esplicitato nelle conclusioni della relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta su femminicidio e che il cambiamento non sia solo limitato alle norme giuridiche, ma riguardi la società e il modo di pensare di tutti noi, in una prospettiva che riconduca la violenza di genere non ad un fenomeno di mero conflitto familiare, come spesso la giurisprudenza ed i media fanno, ma ad un fenomeno gravissimo in quanto lesivo dei diritti fondamentali della persona e della dignità delle donne, quindi di tutto il genere umano.