Affrontare i versi più conosciuti della letteratura universale è un esercizio di presunzione che potrebbe forse portare direttamente in un qualche girone dell’Inferno dantesco (certo se davvero fosse, e a condizione di trovare poi il modo di tornare indietro, l’esperienza sarebbe allettante e fascinosa…). Dunque “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”. Questo è. Cosa avrà mai voluto dire il sommo poeta? L’interpretazione invalsa, comunemente accettata, parla di un Dante che si era perso nei meandri del peccato, che aveva smarrito la strada maestra della morale e della fede, incapace di ritrovare senza l’aiuto divino il senso profondo del suo percorso esistenziale. Ok, ammettiamo che sia così, che la lettura sia corretta. Ma la domanda è: quali erano i peccati che Dante si attribuiva e dai quali non riusciva ad affrancarsi? Davvero ‘solo’ la perdita della religiosità, della fede? O anche l’eccessivo coinvolgimento nelle cose terrene che tutto corrompono? E in che senso? E proprio nell’anno 1300 o giù di lì? Le ipotesi di risposta, a parere di chi scrive, vanno cercate in primis nella sua biografia. L’Alighieri, di famiglia discretamente agiata, aveva potuto dedicarsi per i lunghi anni della sua giovinezza agli studi, alla contemplazione, alla meditazione culturale. Poi, dopo il matrimonio con Gemma Donati e a partire dalla onorevole partecipazione alla battaglia di Campaldino, Dante si lasciò coinvolgere nelle lotte politiche fiorentine, ricoprendo incarichi e ruoli di sempre maggiore responsabilità. Forse peccò anche di ambizione personale e questo lo portò a compromettersi con le fazioni in lotta e a farsi potenti nemici (tra i quali Bonifacio VIII). La sua carriera raggiunse l’apice appunto nell’anno 1300 con l’elezione a priore. Con l’intervento di Carlo di Valois e la caduta dei Bianchi, per Dante si aprirono l’esperienza della condanna e la via dell’esilio, fino a diventare il ‘ghibellin fuggiasco’. Nei due decenni di esilio Dante scrisse la Commedia. Nel poema chi lo salva dall’Inferno e lo porta a ‘riveder le stelle’ non è una figura dell’immaginario religioso o dell’iconografia cristiana, ma il poeta latino Virgilio, riferimento dei suoi studi classici. E chi lo conduce nell’Empireo a conoscere fede, speranza, carità, e a osservare finalmente la luce di Dio, ancora non è un santo, un angelo, un padre della Chiesa, ma Beatrice, idealizzazione del suo amore terreno. Quali sono dunque i peccati dai quali Dante deve emendarsi, deve redimersi, prima di poter accedere alla visione dell’’amor che move il sole e l’altre stelle’? Mettendo insieme le note di cronologia biografica e le osservazioni letterarie, sembra di poter concludere che a Dante, a un certo punto della vita, non venne a mancare tanto la forza della fede, quanto la consapevolezza tutta umana ed esistenziale di avere una quotidianità corrispondente alle proprie inclinazioni, ai propri interessi, al proprio senso della vita. Egli si fece coinvolgere troppo da un ambiente, quello delle lotte politiche, che non era il suo. Dunque anche un atto d’accusa contro la politica, i modi, i mezzi, gli obiettivi della politica, dalla quale si era lasciato compromettere più di quanto avrebbe voluto e dovuto. Da lì ebbe origine il suo smarrimento, la consapevolezza di aver perso la dirittura morale che lo aveva sempre sostenuto. Da lì la ricerca di una spiritualità perduta. E le ‘altrui scale’ seppero fors’anche di sale, ma permisero all’esule di ritrovare gli interessi di vita più congeniali e la strada per l’immortalità letteraria.