«Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità». Con un post su Facebook, il segretario del Pd Nicola Zingaretti annuncia le proprie dimissioni. Afferma di vergognarsi di un partito «che parli solo di poltrone» e se la prende con i suoi oppositori, soprattutto con «chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali». Un insieme di benaltrismo e vittimismo condiscono queste parole, che mal si conciliano con il rispetto nei confronti della democrazia interna, tanto decantata da Zingaretti quando a guidare il partito c’era Renzi. In molti nel Pd gli chiedono di ripensarci, auspicando che vengano rigettate le sue dimissioni nell’assemblea che si terrà il 13 e il 14 marzo. «Leggetevi lo statuto, non è previsto», taglia però corto Zingaretti. Ciò di cui il leader dei democratici non sembra voler discutere è il motivo per cui, secondo alcuni sondaggi, il suo partito, se si andasse a elezioni, prenderebbe circa il 14%. Il governatore del Lazio ha ignorato un fatto: elogiando ed esaltando Conte come leader dei progressisti ha convinto molti elettori a votare direttamente per lui. “L’avvocato del popolo” accingendosi a diventare ora il capo del Movimento Cinque Stelle, passa così da essere un alleato ad essere un avversario per il Partito Democratico. Era chiaro che l’ex premier non avrebbe mai fatto il federatore della coalizione di centrosinistra bensì il leader dei grillini, da mesi in calo nei consensi. Il risultato è un travaso di voti, che porterebbe il Pd a diventare la quarta forza politica italiana, dietro Fratelli d’Italia. La linea di Zingaretti si è rivelata fallimentare sotto tutti i punti di vista, da quelli ideologici a quelli più pragmatici. Da «mai con Conte» a più grande estimatore dell’alleanza giallo-rosso, il segretario Dem è sempre andato in realtà a rimorchio di decisioni altrui, come quelle di Renzi, vero dominus di questa stagione politica. Appare, inoltre, ormai sempre più evidente l’inconciliabilità tra le due anime che compongono il partito, quella ex Dc e quella ex Pci, che finiscono per cannibalizzarlo e paralizzarlo. Molti commentatori politici ne prevedono una nuova scissione o persino lo scioglimento. Proprio un importante leader progressista, il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, nel gennaio del 2020 proponeva il tema di cambiare nome al partito. Sicuramente, un’eventuale scissione rafforzerebbe il progetto di tutti coloro che auspicano un polo moderato e liberale. Tutti i “renziani” rimasti nel partito e coloro che non si riconoscono nella “ditta” potrebbero infatti confluire in Italia Viva o in altre formazioni riformiste. Sarebbe un primo passo per la nascita di una formazione di centro o di una federazione di forze liberal-democratiche. Anche a destra ci sono movimenti, forse più silenti ma non per questo meno evidenti: le posizioni assunte da Salvini nei confronti di Mario Draghi seguono gli auspici di Giorgetti, da sempre fautore dell’ingresso della Lega nel Ppe. Un partito più europeista e meno ideologico avrebbe molto più peso a Bruxelles e consentirebbe alle cancellerie internazionali di dialogare più facilmente con un futuro governo di centrodestra. Questi mutamenti non devono sorprendere: il panorama politico italiano è sempre cambiato profondamente dopo ogni esecutivo tecnico di unità nazionale. Successe dopo il governo Ciampi, quando nel 1994 la geografia delle forze parlamentari fu scossa irrimediabilmente con la nascita di Forza Italia e il successo dello schieramento guidato da Berlusconi, a cui si opponeva quello di Prodi. Nasceva infatti il bipolarismo. Altri mutamenti significativi avvennero dopo l’altro esecutivo istituzionale, quello di Mario Monti. Le sue riforme, volte all’austerità, hanno terremotato la politica italiana che è entrata in un’epoca di tripolarismo, caratterizzatasi dall’ascesa del Movimento Cinque Stelle, dal cambio di leadership nel centrosinistra e dalla decadenza da senatore, a causa della legge Severino, di Silvio Berlusconi. L’epicentro di quel terremoto si registrò nella mancata elezione del presidente della Repubblica e nella conseguente riconferma di Giorgio Napolitano. Anche questa legislatura, nata con l’esecutivo più critico nei confronti dell’Europa e del libero mercato, lascerà cambiamenti indelebili: la trasformazione del partito di Grillo, che ora spera di entrare nel Pse, la crescente leadership della Meloni in Italia e tra le forze conservatrici in Europa, l’inconsistenza del Pd e le ultime giravolte della Lega fanno presagire un nuovo schema di gioco. Sta alle forze liberali mettersi in cammino per prevedere e immaginare il futuro, ancora tutto da scrivere.
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