Coloro che sono soliti storcere il naso davanti alla metrica non si avventurino fra gli endecasillabi, i settenari e gli altri versi ben torniti con cui ha fatto il suo esordio Diego Riccobene (Ballate nere, Italic 2021, contributi critici di Carlo Ragliani e Mario Famularo); radunino invece le meste carabattole e i prediletti giochini in cattiva prosa tagliuzzata e se ne tornino ai polipai dove regnano incontrastate l’approssimazione e la faciloneria. Questo infatti non è un libro «adatto alla maggioranza dei lettori», come scrive Ragliani all’inizio della sua ampia e penetrante nota introduttiva. Il prefatore si riferisce al «contenuto delle liriche», è vero, ma sappiamo tutti – anche senza scomodare Benedetto Croce – come nell’arte la forma sia inscindibile da ciò che essa “contiene”. Ecco dunque alcune osservazioni che vorrei consegnare al potenziale lettore del nostro poeta, faccia egli parte o meno della minoranza qualificata. Il saldo impianto retorico, la mirabolante cornucopia lessicale, la prosodia fedele ai canoni classici: questi i primi e più vistosi aspetti delle Ballate di Riccobene. Quanto al lessico in particolare, spicca l’uso sistematico di termini rari e desueti, aulici, arcaici, iperletterari (1), nonché il gusto per le acrobazie concettose che inclinano all’enigma e talvolta un’aggettivazione e una sonorità baroccheggianti («bontà ferace d’intercisa sorte», Presso Ecate, II). Il tema macabro, tuttavia, asse portante della scrittura del poeta cheraschese, trova le maggiori affinità e consonanze nella galassia tardoromantica e decadente, da Edgar Allan Poe (The Conqueror Worm) a Baudelaire agli Scapigliati. Discepolo di Praga ed Arrigo Boito si rivela ad esempio Riccobene nelle quartine in ottonari di Un invito: «ho disposto accorte organze / per velare il sasso muto (2), / – non sia colto il niveo verme / in carezze troppo ardite! –». Ma rispetto ai loro illustri predecessori, i versi delle Ballate presentano una caratteristica nuova, poiché essi non descrivono né evocano (3) – persone, oggetti, emozioni – bensì definiscono, circoscrivono, interpellano, valutano, insinuano, dissezionano, sbeffeggiano e soprattutto accusano. L’io poetico si vota infatti a un’inesausta requisitoria contro ogni superstizione “religiosa”, attingendo altresì all’inesauribile serbatoio della mitologia, nella disperata ricerca di una sacralità incontaminata. La vanitas, dei nostri giorni come di sempre, viene sottoposta al vaglio di un tribunale invisibile in cui trionfa, giudice e sovrano inconcusso, il Verme. Lirica dunque della tomba e del suo corteggio di simboli, più che del morire e della morte, modesti e fuggevoli presupposti del Sepolcro. Se mi è lecita una parafrasi, direi per concludere che Riccobene, pur aborrendo ogni «sfoggio del pletorico / sfacelo che oggi recita l’umano» (La danzatrice), con le sue strofe sulfuree «non ha versato ingiurie ma eloquenza» (Lamia). Un’eloquenza, come in parte risulta anche da queste scarne postille, che è in realtà un tutt’uno con la più radicale delle condanne.
1) «ma anche prossimi al neologismo, nel loro utilizzo in forme derivate o in costruzioni semantiche contemporanee» (Mario Famularo).
2) «Ma come senza voce un sasso muto / Potrìa de’ tori rendere il muggito, / O delle pastorelle il canto arguto?» (Carlo Innocenzo Frugoni, Spiegazione dell’eco, vv. 127-129, in: Supplemento alle Opere Poetiche, 1779).
3) Con un’unica, sontuosa eccezione, che qui trascrivo: «Lame di luce tra cadenti felci / intarsiano il meriggio. / I sistri oggi zittiscono / le fiacche increspature della brezza, / assidua confidente / di un bimbo che canticchia / l’emottisi del giorno appena stinto […]» (Et in in Arcadia ego, II).