Il Nostro Paese è, da che se ne ha testimonianza, e lo è ancora senza dubbi, la culla del buon vivere e soprattutto del buon mangiare. Dai prodotti della terra a quelli lavorati come la pasta, dai cereali alla frutta, dall’olio, al vino, produciamo da millenni tradizioni culinarie che ci hanno reso noti in tutto il mondo. La posizione geografica dell’Italia, agganciata per la testa alle vette più alte d’Europa e con i piedi a mollo nel Mediterraneo, può vantare una ricchezza di specie vegetali e animali unica e una vasta offerta alimentare; il Mare Nostrum elegge il nostro Paese, con gli altri che vi si affacciano, a crogiuolo di civiltà e di tradizioni; poche aree geografiche e climatiche del mondo vantano la varietà e la complessità culturale creata in questo luogo. La dieta mediterranea è universalmente riconosciuta come il regime alimentare più salutare, l’Unesco l’ha inserita tra i beni immateriali dell’Umanità, definendola: ‹‹un insieme di competenze, conoscenze, riti, simboli e tradizioni, che vanno dal paesaggio alla tavola››. Se è pur vero che l’abbondanza non apparteneva a tutte le classi sociali fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, esistendo ampie sacche di popolazione che aveva accesso limitato agli alimenti, o non ne aveva affatto, dopo gli interminabili anni del conflitto, le cose iniziarono a cambiare. Le perdite umane e materiali furono così ingenti e diffuse, che i Paesi sconfitti vissero tutti un profondo stato di prostrazione economica e sociale. Le abitazioni, le infrastrutture, le fabbriche e l’agricoltura subirono danni pesanti. L’iniziativa per la ricostruzione fu presa dagli Americani, che non agirono certo per filantropia, quanto per stabilire e consolidare l’influenza economica statunitense in Europa e quindi in Italia. La politica americana di aiuti messa in campo nel ’47 prese il nome di Piano Marshall. Questo mastodontico piano di investimenti (circa 13 miliardi di dollari, cifra immensa per il periodo) consentì ai Paesi vinti di conseguire uno sviluppo straordinario, favorendo come risposta la ripresa economica americana, la cui prosperità permise agli Usa di esercitare un ruolo egemonico in tutti i settori, compreso quello militare. Così le abitudini e i prodotti americani colonizzarono pesantemente la vita degli Italiani, influenzando anche gusti e preferenze alimentari. Sicuramente il Piano Marshall ci aiutò ad uscire dalla fame ma il prezzo che abbiamo pagato è stato elevato in termini di salute e gusto. Mentre prima la sobrietà, la parsimonia e la capacità di adattamento erano valori basilari nella vita di ogni famiglia e la dieta quotidiana consisteva principalmente in alimenti definiti “beni di prima necessità”: pane, latte, verdure del proprio orto, legumi e, quando possibile, carne, che erano di stagione, locali e soprattutto artigianali, con il piano Marshall vennero create alternative che cambiarono abitudini e costumi.

Che cosa producevano soprattutto gli States?

Tabacco: nei film del Dopoguerra, e sino alla fine degli anni ’70, quando furono promulgate le prime leggi per il contenimento del fumo, si vedevano sempre persone con in mano una sigaretta, o che fumavano o pacchetti inquadrati con finta casualità. Nella saga del Mulo Francis, popolarissima negli anni ’50, persino l’animale impertinente fumava.

Prodotti chimici, detersivi etc: ecco arrivare nelle case degli Italiani i primi detersivi per l’igiene della casa, della persona e della biancheria, chi è nato sino agli anni ’60 ricorderà il Tide per la lavatrice e i prodotti Palmolive.

In campo alimentare gli USA erano tra i maggiori produttori cerealicoli del mondo ed era necessario per il paese aumentare le esportazioni; tra le varie strategie messe in campo ci fu anche quella di creare, sovvenzionando molti atenei di fama internazionale, una mentalità alimentare in cui i cereali fossero al centro dell’attenzione. Così si iniziò a parlare di piramide alimentare e di come alla sua base ci fossero appunto questi prodotti agricoli, cosa inesatta da un punto di vista nutrizionale.

I cereali infatti vennero messi alla base della piramide, sopra trovarono posto vegetali e frutta e poi a seguire gli altri alimenti; recentemente, e per fortuna direi, si parla di tempio alimentare, in cui le 4 colonne sono rappresentate da cereali, frutta, verdura e semi oleosi, poi nel timpano a salire proteine, grassi e zuccheri semplici al vertice. Altra grande produzione americana erano i “grassi vitelli del Montana”, cioè proteine animali in abbondanza: arrivarono in Italia le carni in scatola, le carcasse congelate (nel 1983 mio fratello, Ufficiale di Complemento addetto alle riserve alimentari, vide e mangiò quarti di bue che recavano i timbri USA 1947, residui di quel Piano Marshall…) e soprattutto, la mentalità che mangiare carne facesse meglio che mangiare altro. Le vittime eccellenti di questa nuova idea di cibo nutriente furono le uova; le poverine furono infatti demonizzate dalla nutrizione post bellica. Così le bianche alleate contro la fame, che l’Italia contadina raccoglieva dalle volenterose galline dell’aia, subirono una campagna denigratoria senza precedenti: si disse che fossero grasse, che facessero male al fegato, che interferissero con i nascenti antibiotici (in realtà l’alta quantità di calcio e ferro in esse contenute può chelare, cioè bloccare chimicamente e rendere inattivi alcuni principi attivi, ma né più né meno del latte o di altri cibi che ne contengono). Ovviamente i filantropi d’oltre Oceano non fecero nulla per smorzare quella nascente mitologia e i risultati sono ancora visibili. Un capitolo doloroso riguardò gli oli vegetali, di cui l’America era un grandissimo produttore: olio di mais, di arachidi e di colza soprattutto. Dunque l’Italia, che produceva il migliore olio di oliva del Mondo, venne “stimolata” dalle aziende statunitensi che coltivavano semi oleosi, ad utilizzare l’olio da essi estratto, al posto del burro e dell’olio italiani, sostenendo che fosse più “leggero”. Con l’aiuto della pubblicità, che persuade e convince in maniera subdola e continuativa, si radicò il pensiero che l’olio di semi fosse meno calorico di quello di oliva, perché più trasparente e più fluido. Purtroppo non è così: che l’olio venga spremuto dalle olive o dalla soia o dal motore delle auto, avrà sempre un potere calorico tra le 8.800 e le 9.000 kcal. /litro; al contrario l’apporto in vitamine e micronutrienti dell’olio di oliva è maggiore. Un tentativo coraggioso di sfatare quel mito, che Mario Soldati avrà di certo apprezzato, fu fatto proprio da un’azienda italiana già presente da un secolo sul mercato, ma non conosciuta a livello nazionale, con l’aiuto della pubblicità. Infatti alla fine degli anni ’60, imperversava al Carosello in TV la pubblicità dell’olio Sasso, in cui si vedeva un signore longilineo, che si svegliava da un incubo in cui era grasso. Il protagonista usciva dalla stanza chiamando a gran voce la sua cameriera, che accorreva preoccupata e, capito il motivo, gli diceva di star tranquillo, che era bello e magro e che aveva solo sognato. Il signore allora cominciava a saltare sul materasso, gridando felice: ‹‹la pancia non c’è più, la pancia non c’è più›› e li ricompariva la fida Matilde, nera di colore e veneta di idioma, che gli portava una confezione del taumaturgico olio di oliva. L’importazione di oli fu segnata anche da un doloroso episodio, in cui venne mandato in Italia e in Nord Africa dell’olio di semi addizionato con oli minerali e dosi eccessive di olio di colza; nei mesi a venire vi fu la nascita di migliaia di bambini ciechi, a causa di quell’adulterazione. Purtroppo l’idea che l’olio di semi sia più leggero resiste tutt’ora. Dal punto di vista nutrizionale l’onda lunga del Piano Marshall è visibile ancora oggi, perché consumiamo prodotti derivanti dalla cultura alimentare americana, che spinge sempre più verso la westernizzazione del cibo, cioè l’accoglimento della western diet, a sfavore della dieta mediterranea. E ironia, questo accade senza ricevere aiuti economici, per un indottrinamento ormai lungo oltre 70 anni.

Il boom economico

Gli anni di Mario Soldati de “Alla ricerca dei cibi genuini, viaggio nella valle del Po” sono quelli del “boom economico”, periodo in cui il benessere delle famiglie aumentò grazie alla ricostruzione e agli aiuti statunitensi, in cui nacque il consumismo di massa. Di pari passo all’evoluzione dei costumi iniziò l’emancipazione femminile di massa: si impennarono le vendite dei prodotti per l’igiene e la cura della casa, i cosmetici e le creme di bellezza. La donna abbandonò la sottoveste e il reggicalze e adottò reggiseno, slip e collant. Comprò, spesso per la prima volta, pantaloni e minigonne e non usciva più di casa senza ombretto, profumo e rossetto. Il ruolo della donna cambiò quindi e poiché nella stragrande maggioranza dei casi, era lei ad occuparsi dell’acquisto degli alimenti e della loro trasformazione, cambiò il modo di mangiare. Per la prima volta, in arrivo direttamente dagli States, i mezzi di comunicazione di massa raggiunsero tutti gli strati della popolazione grazie alla pubblicità. Cambiava il modo di produrre e consumare, di sognare, e soprattutto di vivere il presente e progettare il futuro. Iniziarono le prime trasmissioni televisive della Rai, di cui Soldati appunto fu antesignano. Nel 1956, a due anni dalla nascita della TV di Stato, Soldati gira il primo “reportage enogastronomico” di cui è l’ideatore, il regista e il conduttore dell’inchiesta televisiva “Alla ricerca dei cibi genuini – Viaggio nella valle del Po”, una delle trasmissioni più fortunate e feconde di sempre; considerata ancora oggi un documento d’importanza antropologica, con essa nasce la figura del giornalista enogastronomico televisivo, capace di far conoscere i l contadino che coltivava cardi e parlava solo piemontese, in tutto il Paese, sino alla Sicilia più profonda. In quegli anni l’Italia intera venne catapultata nella modernità, il mezzo televisivo diventò il simbolo di un paese in trasformazione e una finestra sul mondo, che mostrava cose mai viste ne immaginate fin da allora. Crebbe anche il numero e la tiratura dei periodici, fra cui i popolarissimi fotoromanzi, che aprirono il mondo della carta stampata a chi sapeva a malapena leggere. Molte donne impararono a leggere proprio attraverso queste pubblicazioni. I media cominciano a prestare crescente attenzione al corpo delle donne e a nuovi modelli. Nacquero i concorsi di bellezza, che attiravano le giovani con il miraggio della fama e della mobilità sociale, alimentando i loro sogni e le loro aspirazioni.

L’arrivo del frigorifero!

Cosa comportò l’arrivo del frigorifero nelle case degli italiani? Si rivoluzionò, per sempre, il modo di fare la spesa e di consumare i prodotti, perché comportò nuovi approcci da parte del settore agricolo. Anche lo sviluppo dell’industria alimentare, nel suo più ampio significato, modellò gli atteggiamenti degli Italiani: lo spuntino, la pausa, i pasti fuori casa. Questi scenari mutarono anche per la forte presenza pubblicitaria, capace di arrivare al cliente e inculcargli figure e modelli da seguire. A partire dal secondo dopoguerra, in vaste aree del Paese, si modificò completamente il modo di mangiare. All’origine del fenomeno ci fu l’esodo biblico dalle campagne. Gli addetti agricoli erano ancora 8,6 milioni nel 1951. Scesero a meno di 5 milioni dopo dieci anni. Tra il 1951 e il 1971 le campagne perdettero 4,4 milioni di agricoltori, ma guadagnano 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani. L’industria si espanse in tutti i settori e utilizzò una quantità enorme di mano d’opera proveniente dalle campagne. Perciò, ogni anno, 260 mila contadini lasciarono l’agricoltura. Negli anni Sessanta diventarono 314 mila quelli che ogni anno andavano via. Per la prima volta iniziò a scarseggiare la mano d’opera agricola e ad aumentare così il costo del lavoro. L’esigenza di produrre di più e la minore disponibilità di braccia portarono verso l’integrale meccanizzazione delle operazioni colturali. Soprattutto nel Mezzogiorno, l’esodo fu imponente. Tra il 1955 e il 1970 furono tre milioni le persone che spostarono la residenza dal Sud in un comune settentrionale. Anche nei comuni rurali, i piccoli appezzamenti destinati all’autoconsumo si ridussero drasticamente. Il vezzo intellettuale, tutto italiano, di disprezzare il lavoro manuale, ritenuto un pesante fardello ancestrale di cui sbarazzarsi, fece il resto; meno autoconsumo alimentare assunse necessariamente il significato di maggiore progresso. Molti contadini che lasciarono le campagne per emigrare nelle città diedero vita a piccoli negozi alimentari, contribuendo a irrobustire numericamente il commercio al dettaglio: i redditi aumentarono e nacquero più bambini. Inoltre, scongiurato ormai lo spettro della fame, i consumatori iniziavano a chiedere qualcosa in più del semplice nutrimento. Il tradizionale pasto in famiglia era sempre più riservato alla sera. A mezzogiorno si mangiava in mensa o si consumava qualcosa di veloce al bar o in un ristorantino. Il nuovo ruolo della donna fece aumentare fortemente la domanda di prodotti ad alto contenuto di servizio: dai legumi secchi pronti per la cottura alle pizze surgelate, dalla polenta precotta all’insalata già lavata e tagliata. Era una gara continua da parte dell’industria per abbreviare i tempi della preparazione di cibi “freschi” in casa. Nasceva, nel frattempo, il Tetrapack, usato soprattutto per il confezionamento del latte a lunga conservazione, e grossi miglioramenti si ebbero nella conservabilità e nel packaging per porzioni individuali: novità che furono alla base di un nuovo modo di fare shopping, a scadenze meno ravvicinate nel tempo. Nel frattempo, nel 1963 viene emanata la legge sanitaria sul confezionamento degli alimenti che divenne operativa nel 1967: questa normativa introduceva l’obbligo della vendita in confezioni per prodotti come riso, pasta, zucchero, farina, latte, olio, burro, biscotti, fino a quel momento venduti prevalentemente sfusi. A influire sulle abitudini alimentari degli italiani è l’avvicendarsi, in cucina, di una serie di accessori tecnologici indispensabili: prima il frigorifero, poi il frullatore, quindi il fornetto elettrico, la pentola a pressione e il forno a microonde. Nel 1951, l’Italia produceva 18.500 frigoriferi, nel 1957, 370 mila e nel 1967 la bella cifra di 3 milioni e 200 mila. La comparsa del frigorifero dentro le nostre case segnò simbolicamente la fine dell’era che vedeva l’agricoltura soddisfare direttamente i bisogni alimentari della popolazione.

L’industria alimentare influenzò il modo di mangiare

Per capire cosa significò lo sviluppo dell’industria alimentare nei modi di pensare e nelle abitudini degli italiani del dopoguerra, basta fare riferimento al caso dell’ex garzone pasticcere di Gessate, Milano, Angelo Motta, appena tornato dalla Grande Guerra, si era messo in proprio nella centrale Via della Chiusa del capoluogo lombardo. Aveva modificato l’impasto e la lievitazione di un tipico dolce milanese, rendendolo più alto e più soffice. E così il suo panettone era stato venduto con grande successo in tutti i negozi sotto Natale. Poi però scoppiò la Seconda guerra mondiale coi suoi lutti e le sue distruzioni. E per traghettare attraverso quel tragico evento, Motta si affidò ad un manager, Alberto Ferrante, laureato in economia e commercio alla Bocconi ed ex segretario generale della Camera di Commercio di Milano, che impostò la politica di espansione e di produzione di massa dell’azienda. Il segreto fu l’invenzione della merendina. Fino a quel momento si era parlato solo di merenda, quella che non era fatta con prodotti industriali, fatta con alimenti che si potevano trovare nei principali pasti della giornata, come il pane, il formaggio, la marmellata, l’olio, il burro o semplicemente lo zucchero. Quello che era richiesto in alcuni momenti della giornata era energia, secondo la concezione dietetica dell’epoca. E per questo la merenda era destinata soprattutto ai più piccoli, ritenuti quelli più bisognosi di colmare la presunta carenza energetica. Nel 1950, l’azienda dolciaria di Milano inventò il “Mottino”, versione miniaturizzata del tradizionale panettone. Un prodotto nuovo, il cui nome, nell’immaginario collettivo, passò come la merendina confezionata per antonomasia. Nel 1953, il “Buondì” prese il posto del “Mottino”. E nel 1973 fu la volta di “Girella”, il rotolino di pan di Spagna farcito con crema al cacao. La merenda aveva trovato il suo posto anche etimologico, nell’idea di ricompensa dopo lo studio o il lavoro (in latino “mereo” significa “meritarsi”) e aveva sancito la differenza tra ordinario e straordinario, adulto e bambino, tavola e altri luoghi di consumo (corridoio della scuola, cortile di casa o il giardino). Il prodotto industriale invece trasformò il fuoripasto in un’abitudine diffusa, una pausa da prendere in qualunque momento e a cui ognuno, grande o piccolo che fosse, avrebbe dovuto aspirare. È stata la comunicazione pubblicitaria legata al prodotto industriale a moltiplicare i contesti d’uso e le forme di consumo, elaborando nuovi significati riferiti a comportamenti individuali o di gruppo, rituali e stili alimentari più vari e più ricchi. Le abitudini affermatesi allora resistono, seppure in maniera evoluta, tutt’ora e nella grande distribuzione, che oggi impera ovunque in Italia, le ritualità degli anni del dopoguerra resistono ed evolvono.