Ai primordi della civiltà greca, all’epoca delle invasioni delle popolazioni doriche nella regione del Peloponneso, la figura di riferimento dell’uomo comune è quella del guerriero. L’eroe del tempo è un uomo solitario che predilige lo scontro individuale con un altro combattente e il cui comportamento è caratterizzato da un impulso fatto di ebbrezza estatica che è una seconda anima intesa come un prodotto di ménos o ardore provocato da un dio che si trasforma in furia guerriera o lyssa.[1] Il guerriero non è isolato; i capi militari sono significativamente chiamati “guide dei popoli” (lawaghétas già nel greco delle tavolette micenee) e il laós, “popolo”, ancora nell‘Iliade è la “fanteria” (a esempio Iliade VII, 342) differenziata dagli hippéis “cavalieri”. Uno scenario indubbiamente primitivo come rilevato da numerosi studiosi a partire da Friedrich Nietzsche fino a Walter Burkert.[2] In tutte le culture, il guerriero ha a che fare con la morte, morte inferta agli altri o morte subita da lui. Nell’antica Grecia la morte in guerra o “morte eroica” ha due aspetti: da una parte, essa dona al guerriero un onore incomparabile, dall’altra essa sancisce il destino di morte del guerriero, come di ogni altro essere umano; all’opposto, in questa visione ci sono gli dei che, al contrario, sono immortali. Nel mondo greco l’uomo si identifica col corpo e crede che l’anima sia costituita da soffi inconsistenti; è una dimensione finita quella dell’uomo che, alla morte, raggiunge l’Ade ben lontana dalla successiva visione del mondo dei cristiani che predicano il concetto di immortalità dell’anima.[3] Nell’Ade sopravvive un èidolon, “immagine” o “ombra” di chi, un tempo, era vivo: quando Odisseo compie il sacrificio cruento per attirare le anime dei morti queste “si aggiravano in folla davanti alla fossa, chi di qua, chi di là / con strano stridìo.” (Odissea, X, 42-43). “Immagine”, “ombra”, “soffio”: queste le immagini dell’anima in Omero. Un soffio composto di tre ‘forze’: il nóos (intelletto), il thymós (coraggio), i visceri. Non è dato di sapere che cosa voli nell’Ade, di questa pluralità: tutte queste tre componenti o soltanto alcune?

L’areté (che interessa il thymós e, in parte, il nóos)è il valore tipico dell’aristocrazia: essa consiste nella virtù guerriera che è forza fisica, coraggio, dunque, capacità di battersi con il nemico. La vera virtù dei guerrieri è condivisa dall’intero gruppo combattente; l’áristos si differenzia per una più perfetta interpretazione di questa norma comportamentale che è la virtù guerriera. Un’età di coraggio, ma un’età, anche, di ricerca di un legame tra giustizia e coraggio, come nell’opera di Esiodo Le opere e i giorni (VIII secolo a C.) nella quale, tuttavia, il poeta segnala la degenerazione del coraggio (thymós) in tracotanza (hýbris) come tratto tipico della decadenza morale del suo tempo.Platone, nel IV secolo a. C., nel Politico,descriverà la decadenza dall’età dell’oro all’età presente nei termini di una diminuzione della presenza della giustizia, la quale presuppone che ciascuno, secondo il proprio temperamento, svolga la propria funzione. Norma prettamente arcaica e che richiama la realtà descritta da Omero nell’Iliade e nell’Odissea.[4]

Con l’età oplitica, risalente al VII secolo, si realizza una razionalizzazione collettiva della guerra e emerge una perdita di centralità dello scontro individuale. Con l’affermarsi della polis, la Città-Stato, viene privilegiata la figura del combattente ancora più inserito, rispetto ai tempi descritti da Omero, in una dimensione comunitaria favorita dalla presenza del démos che è la componente dei cittadini non di ascendenze parentali guerriere come, invece, potevano vantare gli áristoi, i “nobili”. I protagonisti dello scontro sul campo di battaglia sono gli opliti, gruppo compatto di uomini, che combattono in formazione, nella falange, disciplinatamente, agli ordini di un comandante (erede dell’eroe omerico). La sophrosýne, considerata, ora, la più importante fra le virtù del combattente, si identifica come intensificazione del senso del limite, rispetto all’età omerica.[5]

A partire dal VI secolo, nella cosiddetta epoca arcaica, in Atene, si assiste ad uno sviluppo del commercio; tuttavia il commercio è scambio delle eccedenze e l’intero apparato produttivo non produce per lo scambio. La coltura dei terreni si presenta sotto un duplice aspetto: essa garantisce la sussistenza quotidiana al piccolo proprietario dell’Attica, mentre rappresenta uno strumento di rendita per il proprietario di un fondo più vasto.[6] La buona gestione di un podere non ha come fine principale il trarre dei profitti dalla commercializzazione dei prodotti della proprietà. I conflitti sociali sono determinati da una spartizione diseguale della proprietà fondiaria che è la principale fonte della ricchezza sociale; in ambito politico tali conflitti favoriscono il formarsi di regimi autoritari con la presenza al vertice delle città di tiranni che mantengono il potere grazie all’ appoggio del démos rurale. Le riforme politico-istituzionali di Clistene (nel 508-507 a.C.) sono il supporto irrinunciabile di un cambiamento politico caratterizzato dal formarsi di nuovi gruppi sociali desiderosi di condividere le responsabilità del governo della pólis in seguito alla crisi della aristocrazia.[7] Si verificano delle importanti trasformazioni, sia in campo sociale, sia in quello politico, che si realizzano prima del VI secolo; si assiste alla nascita e allo sviluppo della filosofia che, a parere di Vernant, è espressione di “… due grandi trasformazioni mentali: di un pensiero positivo, che esclude ogni forma di soprannaturale e rifiuta l’assimilazione implicita, stabilita dal mito, fra fenomeni fisici ed agenti divini; e di un pensiero astratto, che spoglia la realtà di quella potenza di cambiamento che le attribuiva il mito e rifiuta l’antica immagine dell’unione degli opposti a vantaggio di una categorica formulazione del principio di identità”.[8]

Il “pensiero positivo” o scientifico, tra il VI e V secolo a.C., tuttavia, non compare senza forti connessioni con la dimensione della religiosità. Non è un caso che Talete di Mileto sostenga che “tutto è pieno di dei”, né che Anassimandro di Mileto denomini l’apeiron con l’aggettivo théion, “divino”; né che Eraclito di Efeso deponga la propria opera Sulla natura nel tempio di Artemide e nemmeno che la verità dell’essere sia rivelata a Parmenide di Elea da una dea. Lo sviluppo del pensiero scientifico non cancella, dunque, la presenza del fattore religioso.

La seconda metà del V secolo si caratterizza, secondo Da Prà, per il suo dinamismo politico e culturale: l’apertura di tale periodo, in ambito politico, coincide con il governo di Pericle mentre la chiusura è riferibile alla guerra del Peloponneso; aumentano, in ambito culturale, le problematicità che, per quanto riguarda la filosofia, registrano il passaggio graduale “… dalle generalizzazioni soggettive e dalle ipotesi ardite verso il primo abbozzo di una spiegazione scientificamente più rigorosa del cosmo con la dottrina atomistica; ed intanto la sofistica mette a fuoco i problemi più scottanti della convivenza …. “.[9]

Al tempo di Pericle (495-429 a. C.) si assiste ad un processo di trasformazione della struttura della polis in senso democratico: in questo scenario si afferma il movimento sofistico che focalizza la sua attenzione sulla antropologia (studio dell’uomo) rispetto alla cosmologia (studio del mondo) dei filosofi presocratici. Alla luce della testimonianza di fonti antiche, secondo Azoulay, Pericle era solito circondarsi di un folto cenacolo di uomini di cultura dell’epoca tipo poeti, filosofi, architetti e artisti “… contribuendo a trasformare Atene nella “scuola della Grecia”, secondo la definizione di Pericle riportata nell’orazione funebre di Tucidide.”[10] In questa cerchia di intellettuali troviamo i filosofi Anassagora e Protagora di Abdera. L’uomo, per Protagora, diventa misura (métron) di tutte le cose. Ognuno elabora la propria verità dove i valori sono fortemente condizionati dal relativismo in una realtà che è soltanto apparenza. La ragione, espressione dell’intelletto, e l’esperienza che deriva dalla attività sensoriale, contribuiscono a ricercare la verità. Il criterio dell’utilità trionfa nella pólis, il battersi vittoriosamente nei tribunali e nella ecclesia diventa un valore e una modalità per affrontare le problematiche della vita quotidiana. La figura del cittadino e la sua cultura mettono in discussione la cultura agraria che aveva caratterizzato i secoli precedenti nella regione attica. I sofisti riutilizzano spesso i miti per illustrare il concetto di areté, il concetto omerico di virtù che interpretano, però, come virtù civica da praticare soprattutto nella discussione razionale, nell’influsso psicologico sull’assemblea e in sostanza sul piano della politica del discorso. Virtuoso, dunque, è il buon oratore, non più soltanto il combattente, che riesce a persuadere l’assemblea o la giuria di un tribunale.

In modo apparentemente simile si sviluppa l’insegnamento di Socrate in Atene, nell’ultimo periodo della guerra del Peloponneso, in uno scenario di decadenza della concezione e della realtà della polis. La sua ricerca filosofica ha come oggetto soltanto l’uomo e la comunità in cui vive. Abbagnano sottolinea che “… la sua missione è quella di promuovere nell’uomo la ricerca intorno all’uomo. Questa ricerca deve tendere a mettere l’uomo, ogni singolo uomo, in chiaro con sé stesso, a portarlo al riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto, cioè solidale con gli altri.”[11]

Conosci te stesso è sicuramente uno dei riferimenti più qualificanti della teorizzazione socratica; l’oggetto della ricerca del filosofo coinvolge l’uomo, la conoscenza, le sue modalità di vita. Abbagnano riferisce che “…la ricerca di sé è nello stesso tempo ricerca del vero sapere e del miglior modo di vivere: cioè è insieme ricerca del sapere e della virtù. Sapere e virtù si identificano, secondo Socrate. L’uomo non può tendere che a sapere ciò che deve fare o ciò che deve essere; e tale sapere è la virtù stessa. Questo è il principio fondamentale dell’etica socratica…”.[12] Ma anche qui, le cose sono meno nette di come, solitamente, vengono presentate. La massima “conosci te stesso”, infatti, rinvia al culto di Apollo (la massima significa: “ricorda che sei un mortale, non un immortale”); la virtù non può essere conseguita se non con l’aiuto di una théia týche, una ”sorte divina” (espressione non iperbolica, come potrebbe sembrare un lettore del XXI secolo, ma legata ad una specifica visione religiosa degli eventi umani).

Nella età classica, a parere di Canfora, si afferma l’uomo inteso come cittadino-guerriero. Il cittadino che è parte della comunità, prende parte alle assemblee decisionali in quanto è un maschio adulto, libero, la cui funzione prioritaria è quella di fare la guerra e di occuparsi del governo della pólis. C’è, inoltre, una identificazione tra il cittadino guerriero e il possidente che è colui che dispone di una certa entrata garantita dalla proprietà, perlopiù fondiaria. Questa situazione economica favorevole consente al cittadino di armarsi a proprie spese in caso di esigenze belliche, trasformandosi in guerriero. All’ epoca delle Guerre Persiane, Atene fu costretta ad arruolare una grossa forza bellica costituita da marinai i quali non dovevano sottostare alla necessità di armarsi da sé; Il numeroso gruppo dei Teti (il “popolo dei rematori”) entrò a far parte

della cittadinanza della polis e fu questo scenario politico-militare a determinare un allargamento della cittadinanza ai non-proprietari terrieri nell’ambito delle democrazie marittime. Tale dilatazione della cittadinanza, che è comunemente intesa come democrazia, ha un preciso termine di riferimento storico-temporale nella nascita dell’impero marittimo di Atene.[13]

Alla crisi di Atene dopo la fine della guerra del Peloponneso si oppongono due tentativi di rifondazione culturale: uno, quello di Isocrate, consistente nell’utilizzo della retorica come scienza e tecnica che permette di rinsaldare il vincolo comunitario basato sulla tradizione che si era indebolito fra i cittadini; l’altro, quello proposto da Platone, consistente in una rifondazione della polis attraverso la vita filosofica, attraverso la pratica della filosofia. In Atene, a parere di Cambiano, l’inserimento dell’insegnamento della filosofia per i giovani all’epoca della efebia costituisce l’espressione di un riconoscimento dell’importanza di tale disciplina per la educazione o paidèia dei giovani. Anche se l’insegnamento viene svolto generalmente nell’ambito di una sfera privata, esso favorisce la realizzazione del progetto di Platone finalizzato ad una integrazione della filosofia con la città; lo strumento della educazione, creato da Platone, è la famosa Accademia, che deve essere la fucina dei nuovi politici. Come affermato in Repubblica, diventare filosofi significa sottoporsi ad un lungo apprendistato e questo privilegio viene riservato ad una minoranza fra i cittadini della comunità; ma, come sostiene Cambiano, “Atene poteva accogliere la filosofia non tanto come modello supremo di vita umana, quanto come attività propedeutica alla formazione di quel tipo di uomo che continuava a incarnarsi, anche se in misura sempre più simbolica, nella figura del cittadino-soldato.”[14]

Per Platone l’uomo singolo, il cittadino, si identifica e si realizza nella comunità perfetta rappresentata dallo Stato. Nel testo Repubblica egli pone in risalto lo stretto rapporto tra filosofia e governo della polis: è necessario che i filosofi siano al vertice della città, oppure che coloro che vengono chiamati re e potenti ispirino la loro azione alla filosofia di modo che il potere politico coincida con la filosofia; se questo scenario non si realizzerà “…non vi sarà […] sollievo ai mali della città.”[15] Platone propone una nuova gerarchia, nella quale i legislatori siano i filosofi che conoscono la giustizia, i combattenti siano i “guardiani” e i tutori della polis e i produttori provvedano al mantenimento della città-Stato (entrambi subordinati ai filosofi–legislatori). Ne consegue una curiosa immagine secondo la quale la città giusta è quella in cui “… la maggioranza non è compiutamente giusta, ma consensualmente subordinata alla minoranza giusta…”[16]

Giusta si rivelerà la città nel momento in cui il suo gruppo dominante sarà giusto. Platone sottolinea lo stretto legame fra il carattere degli uomini (la giustizia è legata al carattere) che compongono uno Stato e carattere dello Stato stesso (lo Stato secondo giustizia). L’indagine del filosofo, dopo aver analizzato la giustizia nella città, si concentra poi sull’individuo che è parte integrante della comunità. Il nodo della questione è quello di accertare se la giustizia riferita alla sfera dell’individuo possa essere definita nei medesimi termini codificati per l’ambito cittadino.  Fronterotta riferisce che “… l’esame si sposta dunque all’ambito dell’anima di ciascun individuo, dalla quale dipendono la condotta e i comportamenti che ne determinano la giustizia o l’ingiustizia. Anche nell’anima vengono riconosciute tre distinte funzioni, che corrispondono alle tre classi della città: una funzione razionale (logistikón), cui compete il governo dell’intera anima e dell’individuo, una funzione irascibile o ardimentosa (thymos o thymoeidés) che è sede delle passioni legate alla rabbia, al coraggio e all’esercizio della forza, e una funzione appetitiva o desiderativa (epithymetikón), che è la fonte dei desideri più bassi e immediati, come la nutrizione o la procreazione.”[17] Emerge allora una stretta analogia fra le classi sociali della città e le classi funzionali dell’anima dell’individuo; la giustizia riferita all’anima si realizza nel momento in cui vi è un giusta suddivisione dei compiti tra ciascun elemento.[18]

La Repubblica di Platone era un modello di Stato difficilmente realizzabile nella realtà; non a caso si disse che essa era valida per gli dèi mentre la Politica di Aristotele, già discepolo di Platone, era studiata per gli uomini. Aristotele, infatti, analizza l’uomo greco attraverso una lente di ingrandimento caratterizzata dalla antropologia, dalla politica, dalla filosofia. Nella Politica (I, 2, 1253 a)egli sostiene infatti che “… l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città, e che chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo…”[19] Il bene morale per Aristotele si identifica con il problema politico in quanto il regime politico è in grado di rendere gli uomini più buoni o agathói. Il passaggio dall’etica alla politica, sostiene Cantarella, “… è del tutto naturale: anzi, essendo il bene del singolo identico a quello della comunità, l’etica è parte della politica. […]. E quindi vi sono virtù eminentemente sociali quali la giustizia e l’amicizia”.[20] Certo, come per Platone l’anima umana non è unitaria, così non lo è nemmeno per Aristotele. Se per Platone l’anima razionale, l’anima coraggiosae l’anima desiderante sono tre forze psichiche che vanno armonizzate facendo prevalere l’unica in grado di guidare al bene cioè l’anima razionale, per Aristotele anima vegetativa (che presiede al nutrimento e alla riproduzione), anima appetitiva (che è la spinta dell’organismo ad agire) e anima razionale (che desidera cogliere il vero) vanno disposte gerarchicamente perché siano possibili la vita felice e la contemplazione del vero; l’anima razionale, infatti, deve imporsi sulle altre due. È chiaro che ci troviamo al di qua della concezione unitaria dell’anima tipica del Cristianesimo, recepita dalla filosofia moderna. L’uomo greco, guerriero, cittadino o combattente che sia, è un uomo arcaico.


[1] Brizzi G., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Società editrice il Mulino, Bologna, 2002, pp. 12-13.

[2] F. Nietzsche, Lo stato dei Greci, tr. it. Opere complete, Milano, Adelphi, 1973, vol. III, T. II; W. Burkert, Origini selvagge, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1992.

[3] Vernant J. P., La morte eroica nell’antica Grecia, a cura di S. Regazzoni, il Melangolo, Genova, 2019, p. 15.

[4] Snell B., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963, cap.I, pp. 19-47.

[5] Brizzi G., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, op. già cit., pp. 15 e 17.

[6] Mossé C., L’uomo e l’economia in Vernant Jean-Pierre (a cura di), L’uomo greco, Roma-Bari, 1997, pag. 29.

[7] Léveque P. – Vidal-Naquet P., Clisthène l’Athénien, Paris, Macula, 2000.

[8] Vernant J. P., Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica, Piccola Biblioteca Einaudi. Storia, Torino, 2001, p. 395.

[9] Dal Pra M., Sommario di storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze, Vol. I, 27° ristampa: marzo 1991, p. 29.

[10] Azoulay V., Pericle. La democrazia ateniese alla prova di un grand’uomo, Einaudi, Torino, 2017, p. 101.

[11] Abbagnano N., Storia della filosofia, Unione tipografico-editrice torinese, Torino, 1974, Vol. I, Filosofia antica, Filosofia patristica, Filosofia scolastica, p. 67.

[12] Abbagnano N., Storia della filosofia, op. già cit., p. 69.

[13] Canfora L., Il cittadino in Jean-Pierre Vernant (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 125-126.

[14] Cambiano G., Diventare uomo in Jean Pierre Vernant (a cura di), L’uomo greco, Editori Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 117.

[15] Platone, La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, BUR Rizzoli classici greci e latini, libro V, 473 d, p. 715 e 717.

[16] Vegetti M., Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Editore Laterza, Roma-Bari, Quinta edizione 2011, p. 53.

[17] Fronterotta F., Platone in Cambiano G., Fonnesu L., Mori M. (a cura di) La filosofia antica. Dalla Grecia ad Agostino, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 105-106.

[18] Fronterotta F., Platone in Cambiano G., Fonnesu L., Mori M. (a cura di) La filosofia antica. Dalla Grecia ad Agostino, op. già cit., p. 106.

[19] La filosofia antica. Antologia di testi a cura di Nicola Abbagnano, Editori Laterza, Bari, 1963, p. 285. La stessa espressione si legge in Aristotele, Politica III, 6, 1278 b.

[20] Cantarella R., La letteratura greca classica, Biblioteca Universale Rizzoli, prima edizione BUR, Milano, maggio 1992, p. 502.