Gli anni ’70 furono per Mario Soldati intensi di lavoro anche sul piano letterario. Dopo la pubblicazione del suo nuovo romanzo, L’attore (Milano, 1970) dette alle stampe l’ampio volume intitolato 55 novelle per l’inverno (Milano, 1971) a cui seguì, nel 1979, l’altro intitolato 44 novelle per l’estate. Nel 1972, iniziò anche la sua collaborazione con Cesare Garboli ad alcuni importanti programmi televisivi intrecciando con lui (che poi sarà il maggiore curatore delle sue opere e biografo) un’amicizia “spensierata e giuliva” che ebbe un ruolo importante anche nella definizione del tono e del ritmo della scrittura di Soldati. Nell’Avvertenza alle 55 novelle per l’inverno, Soldati scrive, a questo proposito: «Rubo il titolo ai Madrigali per l’inverno di Cesare Garboli e pubblico queste 55 novelle nell’ordine esattamente inverso a quello in cui furono scritte: la prima è del settembre 1970, l’ultima del marzo 1958». Soldati non si riferiva a un’opera specifica dell’amico critico letterario, bensì al suo interesse per quell’antica forma metrica (costituita da terzine di endecasillabi o settenari chiuse da un distico, anche a coppia, o da un verso isolato) da lui utilizzata nelle sue poesie intime e familiari e che nell’otto-novecento era stata recuperata dal Carducci e dal Pascoli (uno degli autori più amati da Garboli). Fra le 55 novelle per l’inverno, quella datata 19 febbraio 1961 può essere considerata, per certi aspetti, una sorta di omaggio a Mario Pannunzio e al suo settimanale «il Mondo». Forse non è un caso che uno dei suoi protagonisti si chiami, appunto, Mario: più esattamente Mario Vitrotti, torinese, trentenne, operaio specializzato alla Fiat. Il racconto intitolato Una regina, risale quindi agli anni successivi al primo periodo di collaborazione di Soldati a «il Mondo» (1950 – 1955), nonché agli inizi di un’importante svolta professionale dopo il suo allontanamento da Roma e dal cinema per vivere tra Milano e Tellaro, sull’estrema costa ligure di levante. Del periodo romano Soldati non aveva molti rimpianti salvo ripensare, spesso, ad alcuni suoi amici con cui era solito incontrarsi quando i pressanti impegni di regista glielo permettevano. Fra questi c’era sicuramente Mario Pannunzio che conosceva dal 1934-1935 per avere collaborato alla rivista «Caratteri» che l’altro aveva fondato assieme a Antonio Delfini. Un’amicizia di lunga data, quindi, passata attraverso la guerra e tante altre esperienze di vita. Pannunzio era stato e sarebbe rimasto per lui un punto di riferimento essenziale. Il racconto La regina, narra le avventure non troppo fortunate di una giovane coppia di sposi in viaggio di nozze. Mario “calmo, cauto, previdente, economo, assennato, ostinato”, vero torinese in tutti le sue qualità (come lo era anche Soldati) e sua moglie, Angiola, una bella creatura dagli occhi d’oro di origine meridionale. La coppia aveva deciso di raggiungere Lecce per una visita ai parenti di lei. Scartata l’idea di utilizzare l’utilitaria nuova fiammante per ferma volontà di Mario sempre parco e prudente, i due giovani avevano preso il treno ma una frana sul tratto ferroviario Caserta-Benevento, aveva interrotto la loro vacanza. A soccorrere i giovani disorientati da questo contrattempo era sopraggiunto un signore, forse un avvocato a giudizio degli sposi, che seduto accanto a loro nel medesimo scompartimento, stava leggendo «il Mondo». Sarà lui, Nicola Arcidiacono, “che non era avvocato, ma uno scrittore o giornalista: viveva a Roma e si recava in una sua proprietà a Lucera” a risolvere la situazione che si andava sempre più complicando offrendo ai giovani un passaggio fino a Benevento a bordo dell’auto da lui noleggiata per l’occasione. Sicuramente la generosità del giornalista era dettata anche dall’attrazioni in lui suscitata dalla bellezza e dal fascino di Angiola “una regina che non sapeva di esserlo” e, per questo, ancora più attraente. Nel lungo tragitto in macchina aveva potuto osservarla, spostandosi un po’ di fianco, mentre teneva fra le braccia il suo Mario addormentato, stupito di quei grandi occhi aperti, così luminosi da parere fosforescenti, e del suo ineffabile, dolcissimo, intelligente sorriso. Poi una volta giunti a Benevento, Arcidiacono aveva dovuto faticare non poco a convincere i due giovani sposi che non avevano trovato posto in albergo, a considerare l’offerta di una camera da parte di due famosi attori suoi amici disposti a rinunciare a una stanza per aiutare la giovane coppia. Per un breve momento il giornalista aveva accarezzato l’idea di ospitare Mario e Angiola nella sua villa non troppo lontana. Ma la sua innata pigrizia aveva prevalso, perciò “con grande delicatezza di frasi, con la scioltezza e l’abilità di un discorso insinuante e suadente, con le arti in cui era maestro e di cui, in definitiva, faceva pratica ogni sera in quel caffè di via Veneto (dolce frana di ogni sua giornata), seppe persuadere gli sposi ad accettare l’offerta degli attori”. Poi riprese la macchina e partì verso Lucera pensando alla bellezza classica e profonda di Angiola, con un po’ di nostalgia anzi tanta. Chi era Arcidiacono? Mario Soldati non lo dice ma insinua nel racconto molti indizi. Era un benestante, un signore grasso, pallido, maturo dall’occhio profondo e vellutato, dall’espressione simpatica e amara, fuggito dai suoi possedimenti di Lucera per vivere a Roma. Mentre sarebbe stato suo dovere rimanere nel luogo di nascita per “cercare di migliorare le condizioni dei sui contadini, di indurre riforme, di aiutare, per quanto era in suo potere e almeno nelle sue proprietà quella rinascita del Mezzogiorno che anche lui andava predicando”. Viveva di rendita, era pieno di idee geniali e generose, si occupava di letteratura e di politica con estrema modestia. Collaborava saltuariamente a un quotidiano e a qualche rivista. Scriveva di tanto in tanto un articolo o un saggio, soprattutto per sfuggire alla noia e alla malinconia. Era pigro, di una pigrizia antropologica che gli impediva, in molte occasioni, perfino di decidere scelte esistenziali importanti. Leggeva «il Mondo» con molta attenzione, frequentava tutte le sere il caffè Aragno, lo stesso in cui si fermava Pannunzio con i suoi amici; era affascinato dal mistero della bellezza femminile, dal calore degli sguardi, dall’incedere regale di un certo tipo di donna. Amava abbandonarsi alle fantasticherie ma sapeva anche rinunciare ai sogni con sottile malinconia. Il sig. Arcidiacono (Soldati aveva frequentato in gioventù le scuole presso i Gesuiti) assomiglia in parte a Soldati stesso, molto anche a Pannunzio. Per certi aspetti anche al lettore “classico” de «il Mondo». Ognuno può scegliere come vuole. Oppure rinunciare all’identificazione appagato dalla bellezza e dal fascino evocativo di questo racconto.
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